Anche quest’anno oltre 200 mila persone hanno partecipato al Festival Filosofia aperto all’insegna del tema ereditare. Oltre 200 appuntamenti fra lezioni magistrali, mostre, concerti, spettacoli e cene filosofiche, si sono sviluppate tra le piazze di Modena, Carpi, Sassuolo, occupate da numerosissimi studenti e adulti di ogni età. Tutti attenti ad ascoltare il verbo in riflessiva meditazione. Tra i suoi protagonisti filosofi non poteva mancare, come ormai da diversi anni, Zygmunt Bauman che ha deciso di presentare una lezione magistrale su Educazione Globale soffermandosi più precisamente sulle origini dei Confini e sulla loro ereditarietà. Ovviamente una scelta voluta con uno specifico obiettivo: collocare l’innaturale migrazione verso l’Europa, causato dalle guerre, alle origini della paura che questo stesso flusso immigratorio incute.
Bauman percorre un interessate cammino storico intellettuale, cercando di non tralasciare nulla, conducendoci verso ciò che oggi siamo.
La questione dei confini, la loro nascita e il motivo della loro creazione, sono per Bauman il punto da cui cominciare. Un legame con il passato che ci può aiutare a comprendere le radici culturali della necessità di rivendicare un confine, istituito a partire del 1648 a seguito dell’accordo di pace di Vestfalia, che pose fine alla cosiddetta guerra dei trent’anni, iniziata nel 1618, e alla guerra degli ottant’anni, tra la Spagna e le Province Unite.
“In pratica – riassume Bauman brevemente – si è riusciti ad arrivare ad un periodo apparentemente di pace, solo grazie ad una separazione”.
Un fatto non di poco conto. Non solo ma da quel momento una società che parlava praticamente un’unica lingua e condivideva anche il proprio patrimonio della Conoscenza, ha dovuto, su obbligatorietà delle famiglie regnanti, imparare una propria lingua e smettere di collaborare con chiunque fosse straniero. L’Europa così diventa un territorio diviso da nazioni la cui priorità diventa, anche se Bauman però non l’affronta, la tutela del potere economico dei potenti, a discapito della libera comunicabilità tra i popoli.
“Quando si parla di Confini, non dobbiamo mai dimenticare che stiamo esaltando una linea netta di separazione tra idee e culture” a discapito della pre-conservazione di ciò che, senza comunicabilità con l’esterno, è destinata a scomparire. Non solo ma in questo modo si solidificano solo due modi di poter comunicare tra nazioni e obbligatoriamente tra popoli: attraverso scambi commerciali e culturale mediati e controllati dal potere economico di ogni singola nazione o attraverso la guerra.
Non a caso, in questi ultimi anni, si sono esaltate le differenze culturali e soprattutto religiose, che esistono e che sarebbe stupido e pericoloso negare, da parte di partiti nazionalisti. Differenze che potrebbero essere accolte come nuove ricchezze culturali ma che al contrario, sono state identificate come negative soprattutto per giustificare i confini e rafforzare gli Stati Nazione. Un processo di inversione culturale che oggi sta in parte avvenendo e che non ha più fondamento reale ma esprime, camuffato da volontà del popolo, uno scontro profondo tra due differenti gestori economici del potere. Uno globalizzato e multi-nazionalizzato, il cui rappresentante politico è identificabile nel Partito Democratico e quello capitalistico locale, sostenuto dalla Lega Nord, legato tutt’uno al territorio e alla propria nazione di piccoli artigiani, medie imprese o industrie che per anni hanno goduto di protezioni politiche nazionali, tali da ritenersi loro stessi proprietari dello Stato. Uno scontro inevitabile tra due capitalismi dove i primi identificano necessario e ineluttabile il dominio dei mercati e azioni che mirino a raggiungere il massimo profitto a discapito degli uomini e donne, gestiti come merce, e delle Costituzioni Nazionali che con qualche difficoltà pongono ancora alcuni ostacoli a questi processi di distruzione sociale. I secondi, invece, esaltano le tradizioni culturali, come quelle dei dialetti e delle ricorrenze di matrice cattolica, strumentalmente per separare e contrastare possibili pericoli provenienti dall’esterno del proprio mondo economico e culturale. Apparentemente contrari, entrambi sono figli della stessa natura capitalistica e soprattutto per nulla alternativi tra loro. Non superano e non possono superare il conflitto politicamente assopito ma mai così vivo tra i salariati, nello scontro quotidiano che esiste tra capitale-lavoro. Al contrario, ne esalta aspetti marginali e forvianti per inebriare, utilizzare e controllare i popoli delle nazioni. Questo contrasto economico, per il momento in Europa non militare, di fatto è uno scontro reazionario tra due entità capitaliste ben conosciute e sotto mentite spoglie, ripropone il medesimo scontro avvenuto tra la borghesia fascista, con il suo regime e il grande Capitalismo Americano. Uno scenario che solo i popoli potrebbero fermare, se fossero culturalmente e politicamente consapevoli e non oggetti di ricatti culturali forvianti sbandierati dalla nuova sinistra riformista internazionale. Un ricatto che si esprime con la difesa del datore di lavoro accompagnato dall’apatica rassegnazione ad accettare qualsiasi tipo di lavoro a prescindere dalla qualità del lavoro stesso. Un ricatto che non trova ostacoli anche grazie alla complicità delle organizzazioni sindacali confederali, che del conflitto ne hanno fatto un anatema da superare, e da una classe politica di maggioranza collusa, ma elettoralmente vincente, soprattutto a causa dell’assenza di una credibile alternativa. Tutti a votare il partito di maggioranza, qualunque esso sia, nella convinzione ed illusione di poter attutire lo schianto che inesorabilmente si abbatterà sulle loro famiglie. Perchè una volta accettato questo processo di globalizzazione prima dei mercati e ora delle merci umane interne ed esterne alle nazioni stesse, la società cosmopolita è inevitabile e imprescindibile dalla natura stessa del nostro futuro. Nulla possiamo fare.
Anche se politiche nazionaliste dovessero essere applicate, e la vicenda delle quote degli immigrati in seno agli Stati dell’Unione Europea o l’atteggiamento sostenuto dall’Ungheria ne sono un esempio, il conseguente scenario potrebbe essere di vera e propria guerra tra popoli, nei fatti, conveniente a tutto il sistema produttivo capitalista. Marx aveva già identificato nella guerra il meccanismo principale di ristrutturazione del sistema capitalista in seno alla crisi sistemica che esso stesso esalta e crea ma questo comporta anche l’utilizzo di ingenti fondi che in un mercato globalizzato e finanziarizzato ha maggior difficoltà ad esprimersi. Soprattutto all’interno degli Stati Nazione Occidentali o occidentalizzati, dove è necessaria la conservazione dei mezzi di produzione atti a ricostruire, con lauti profitti, i luoghi in cui la guerra è stata volutamente provocata.
Certamente a causa di questo bombardamento culturale sulle differenze e sulle nazioni, anche Bauman ammette che non può “… che mettere paura al popolo europeo che gode o ha goduto di stabilità economica e politica”. Una sicurezza messa in discussione da tutti quei migranti che arrivano come formiche in cerca di pane.
“Noi affermiamo che “sono estranei” non amici o nemici, ma portatori d’incertezza. Quella stessa incertezza che esalta il nostro timore dell’incertezza” ormai unica vera espressione umana rimasta e diffusa nella nostra opulenta vita sociale. Questo perché, “… quegli stranieri sono – prosegue Bauman – i veri messaggeri della catastrofe di cui siamo soggetti. Quegli uomini e quelle donne solo la rappresentazione reale della Globalizzazione perché sono costretti a scappare per non morire di fame. Noi però come affrontiamo allora tutto questo?” Fermando il conflitto non solo sul piano economico ma morale e culturale che può realizzarsi, sempre secondo lui, solo ”attraverso l’unione degli orizzonti che conducano all’unità”.
Molti purtroppo pensano, soprattutto i naviganti dei social che esprimono solidarietà con i profughi, che internet abbia aiutato questo processo o peggio ritengono l’evoluzione del processo tecnologico, la fonte principale di riduzione delle distanze culturali. Purtroppo però questo non solo è falso ma non può avvenire perché “…basta un click con un dito…”, per eliminare rapidamente tutto il nostro timore dell’incertezza. Ovvero, l’Essere Umano 2.0, difronte all’evidente esposizione ad un problema che potrebbe coinvolgere la sua parte umana sentimentale, sceglie con un gesto rapito e deciso, di guardare solo il riflesso del suo viso sul monitor spento. Questa mancanza d’empatia non nasce dal nulla ma è causata dal modello sociale accettato. In questi ultimi quarantacinque anni, si è attuata una profonda rottura del patto sociale nato nel dopoguerra. Dalla precarietà del lavoro, all’accettazione delle ragioni di mercato come fonte principale di longevità. Una rottura che, nei fatti, ha acutizzato il sospetto reciproco ed eliminato ogni espressione d’empatia che agisce solo in caso d’emergenza vitale o profondo pericolo.
Domina ormai la globalizzazione dell’indifferenza e purtroppo, ci siamo abituati all’insensibilità alla sofferenza degli altri. Non siamo forse più in grado di provare empatia e purtroppo, nelle nuove generazioni, raggiunge livelli sorprendenti di profondo nichilismo. Questo processo potrebbe arrestarsi solo se tutti riuscissimo a comprendere che la rivendicazione dei propri diritti passa innanzitutto dalla radicale opposizione alla forte concorrenza umana, che si è sviluppata tra noi, a cui siamo chiamati ad adeguarci.
* mediattivista di Alkemia.com
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