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The Green Inferno: quando gli indigeni mangiano gli ecologisti

Chiedere ad Eli Roth di fare un film diverso da «The Green Inferno» sarebbe come chiedergli di rinunciare ad essere Eli Roth. Nella cultura del regista e attore figlioccio prediletto di Quentin Tarantino c’è tanta cinematografia di serie B (in senso nobile), dai poliziotteschi alla commedia sexy, dal trash al cannibal movie. Tutte mode nate in Italia e poi diventate grandi altrove (dove cioè si buttavano più soldi sui film, e questo è un campo in cui quasi sempre la differenza di mezzi è la differenza tra un buon lavoro e un brutto lavoro).
Questo «The Green Inferno» è un lavoro pieno di citazioni, infarcito di luoghi comuni, certo, ma godibilissimo nei suoi momenti splatter, quasi gioioso nel suo cinismo, sicuramente molto divertito nel mettere alla berlina alcuni stereotipi dell’attivismo all’americana.
La storia: un gruppo di studenti con una più o meno spiccata coscienza ecologista, parte alla volta dell’Amazzonia per cercare di fermare le ruspe che vorrebbero spianare ettari di foresta pluviale. Le cose ovviamente si complicano: ad azione fatta, sulla via del ritorno, l’aereo ha un guasto, i nostri eroi precipitano e i superstiti vengono catturati da una tribù di cannibali che, uno dopo l’altro, comincia a farli arrosto. Letteralmente. Qui entra in gioco la grande ruffianeria registica di Eli Roth, già vista in Hostel e Hostel 2: fare un film violento nelle intenzioni ma tutto sommato non troppo esplicito nelle immagini. Intendiamoci: le scene di sangue e raccapriccio ci sono eccome, ma i particolari spesso vengono elusi da un sapiente gioco di cinepresa. Un vedo e non vedo che per modi e stile ricorda le commedie sexy di parecchi anni fa, quando sembrava sempre dovesse succedere qualcosa e invece alla fine si trattava solo dell’inquadratura di un paio di tette. Anche qui: sembra sempre che l’orrore sia sul punto di esplodere, e poi alla fine c’è solo qualche particolare qua e là: un braccio mozzato, uno schizzo di sangue, poco più. Si è visto di peggio, molto di peggio.
La visione politica di Eli Roth, per il resto, è molto naif. La tagline del film è «Nessuna buona azione resterà impunita» e il senso è proprio questo: sei uno studentello che vuole andare a salvare gli indigeni? Bene, non solo è una fregatura (il capo della rivolta era al soldo di una multinazionale concorrente rispetto a quella già all’opera, e l’azione di protesta serviva solo a favorire il ricambio tra una ruspa e l’altra), ma meriti anche di morire nel peggiore dei modi. La complessità, in pratica, evapora in favore di un gusto spiccato per la rottura delle uova nel paniere, per il politicamente scorretto un tanto al chilo. Insomma, probabilmente Roth in gioventù è stato un mezzo nerd che guardava con sospetto i ragazzotti con la barba caprina che discutevano in maniera più o meno animata di come salvare il mondo. L’effetto comico delle assemblee politiche messe in scena all’inizio del film, poi, è notevole: chiunque abbia fatto un minimo di attivismo nei collettivi italiani sa benissimo che certe frasi buttate lì per sterile polemica («Sei appena arrivata! Non essere così arrogante», dice il capetto alla giovane figlia del diplomatico dell’Onu che si unisce perché vuole salvare la foresta dal capitalismo che avanza) avrebbero come minimo scatenato una rissa, se non una spaccatura pesante all’interno del gruppo.
La prima parte del film fila via così, un college movie non troppo brillante. E tutti si sta in sala ad aspettare che le cose vadano a finire male, che arrivi un deus ex machina cattivo a sistemare i conti con la giusta brutalità. A Eli Roth non importa di descrivere l’attivismo politico in modo caricaturale, ridicolo, eccessivo: non gli serve la finezza di un Tom Wolfe per dire che certe conventicole hanno scocciato, basta ridurre la questione ai minimi termini e renderla insopportabile. Si finisce, insomma, a tifare per i cannibali: sì, mangiateveli tutti.

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