Il progetto denominato Unità di Produzione musicale (UPM) ideato da Enrico Gabrielli e Sergio Giusti è dotato di una premessa molto accattivante, ovvero quelle di riunire – o per usare un’espressione marxiana “concentrare” – all’incirca una settantina di musicisti, suddivisi in dodici squadre, nello spazio di due capannoni industriali e metterli “al lavoro”.
In cosa consiste questo “lavoro” ? Sarà una delle questioni chiave che caratterizza questo bizzarro “film” a metà tra l’esperimento sociologico e il documentario, che non manca di richiamare alla memoria alcuni grandi pellicole novecentesche come “La classe operaia va in Paradiso” di Petri o “Prova d’orchestra” di Fellini.
Il dato paradossale e che gli stessi musicisti provenienti per lo più dalla scena “alternativa” e dotati delle più disparate abilità musicali, della competenza nei più strambi strumenti, non sono consapevoli di ciò a cui stanno andando incontro; o meglio, sanno che dovranno affrontare una “giornata lavorativa” che verrà ripresa e registrata.
Presto scopriranno di dover “lavorare” sul serio, all’incirca otto ore, suddivisi in squadre dotate di un operaio specializzato (selezionato tra gli stessi) avente la funzione di dare consulenza alla squadra. Saranno “costretti” a memorizzare il loro numero di matricola e a vestirsi tutti con la stessa tuta (l’unica variazione è cromatica per gli specializzati). Questi due elementi sono caratteristici di qualsiasi istituzione totale, tendono a livellare e a spersonalizzare.
Per quanto questa fabbrica appaia senza padroni, è dotata di “sottufficiali” (all’aspetto tecnici, ingegneri, medici, interpretati da persone esterne ai musicisti selezionati) che scandiscono turni, indicano luoghi di pausa, regole e che insomma esercitano quella funzione disciplinare che caratterizza un aspetto cruciale della fabbrica moderna.
Il lavoro dei musicisti consiste nel suonare e comporre. Le squadre saranno divise in reparti, a turno c’è chi scrive i brani e chi li dovrà eseguire. Qui sorgono le prime difficoltà, e c’è un primo momento nella pellicola che è in qualche modo “anarchico”: ognuno compone ciò che vuole e anche l’esecuzione assomiglia ad una sorta di jam-session dissonante. La registrazione, come nota uno dei musicisti in un momento di pausa, non avviene per singolo strumento ma avviene “a campo” e gli stessi musicisti hanno progressivamente l’impressione di coprirsi l’uno con l’altro, gli strumenti acustici sono coperti o da quelli elettrici o dalle batterie. C’è insomma qualcosa che non funziona, qualcuno parla pure di “tedio” o di “alienazione”. Il lavoro dei musicisti normalmente è svolto singolarmente o in una band: qui è caotico e scoordinato. Sorge un primo momento di riflessione: e se riuscissero a comportarsi come una sorta di “orchestra”? Il problema vero è la mancanza di un direttore, di un “piano” di lavoro che arrivi dall’alto o dagli stessi, cosi come di una partitura univoca che assegni ruoli in base ad utilità e competenze. Il fatto è che tra i musicisti c’è anche chi la musica non la sa leggere né scrivere, e non c’è un compositore che riesca in cosi poco tempo a valorizzare le singolarità nell’insieme. Vengono fatti dei tentativi, ed è proprio la comprensione stessa del problema a essere tardiva e a fare di qualcuno un proto-sindacalista “per l’unione e la semplificazione”, o a spingere altri verso derive più individualiste e silenti.
Una prima soluzione la si trova col conteggio delle note tramite la corrispettiva conta delle dita della mano e scrittura sugli spartiti, spingendo verso una composizione che è semplice ma riesce finalmente a far suonare gli strumenti seguendo una partitura. Ma è una situazione che non soddisfa completamente, qualcuno si perde e rimane della disarmonia.
La “soluzione” avverrà sul finale, i musicisti decideranno di scrivere una sola nota e suonarla dopo l’ultimo fischio dei controllori. Un gesto di sovversione rispetto alla regola ma anche di profonda uniformità e serializzazione.
La citazione che apre e chiude il film è di grande interesse: “Il lavoro è dappertutto\perchè non c’è più lavoro” di Baudrillard, uno dei teorici della fine della modernità e del marxismo e anche della smaterializzazione del lavoro. Verrebbe da chiedersi se l’esperimento non sia in realtà un’evocazione di uno spettro del passato, la fabbrica novecentesca in un universo dominato ormai dalla produzione simbolica o immateriale. Chi scrive è piuttosto lontano da questa prospettiva e crede che il lavoro esista ancora, anche se è cambiata radicalmente la sua organizzazione. Le nuove concentrazioni operaie nei paesi in via di sviluppo e il permanere seppur in parte terziarizzato del lavoro operaio nei paesi a capitalismo avanzato di fatto smentirebbero queste tesi sulla fine del valore di scambio e il dominio di quello simbolico.
La chiusura del film può far pensare al cammino della coscienza di classe e al livellamento di funzioni degli operai di cui Marx e Engels scrivevano nel Manifesto (opera il cui eco ho percepito per tutta la durata del film cosi come di alcuni capitoli del primo libro del Capitale) da coscienze singole disgregate (l’anarchia del primo momento del film) e da comparti differenti, lentamente si costruisce un’unione d’intenti volta alla sovversione dell’organizzazione del lavoro. Elemento indubitabilmente presente nel corso dei circa 80′ minuti del film che potrebbe offrire un’interpretazione univoca e pure interessante.
Un’altra questione che affiora è quella della divisione del lavoro, la differenza tra chi scrive (lavoro intellettuale) e chi esegue (lavoro manuale) è portata ad un livello d’interscambio piuttosto accentuato e permette lo sviluppo della pellicola. Divisione del lavoro che spesso cade nei gruppi musicali che compongono ed eseguono i loro brani. Qui irrigidita e tra le cause di non pochi problemi, impedendo il libero gioco dei talenti individuali e dei repertori. Costringendo al confronto con la squadra esecutiva e in secondo luogo quella compositiva e più in generale con gli altri musicisti.
Forse si vuole suggerire che proprio i musicisti esposti alle intemperie del mercato, alla fine del supporto del cd e alla ribalta dello streaming in web (settore, questo sì, smaterializzato e informatizzato) che ha stretto i proventi per questi “liberi produttori d’arte” che si percepiscono isolati e ognuno per sé, dovrebbero forse dare vita a nuove forme di mutualismo ? Di unione contro un mercato che li sta sempre più schiacciando?
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Luca Mina
Articolo molto interessante Dr. Bugli. Da vedere!