Una riflessione sulle modalità della conoscenza, della scienza e della scrittura nell’attualità determinata dalle tecnologie e dal loro uso sociale, sull’irreversibilità dei processi e sulla necessità di indagarli, riconoscerli; di sollevare insomma la mente e lo sguardo dall’infinito presente e – almeno – indovinare la direzione di marcia.
Hai visto che mai che si riesca addirittura a definire un minimo di rapporto tra la marcia quotidiana e il punto di arrivo…
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Il problema è che siamo troppo appiattiti sull’oggi, con la conseguenza che si finisce per cogliere solo il rapporto, dimenticando il processo. E quando ci si disponga a scandirlo, il processo, si finisce per trovarsi presi nella rete. Ci preoccupiamo di cogliere le più minime modificazioni, ci preoccupiamo delle mutazioni antropologiche. Mutazioni che quelle modificazioni registrano, puntualmente, millimetricamente. Ma l’uomo è l’ente umano generico – è stato detto. Un ente che più plastico non ce n’è. Ci ha abituati a giravolte, capriole, estrusioni e involuzioni, sempre impegnato in imitazioni progressive. Con il risultato che, attenti alle mutazioni antropologiche, non ci accorgiamo delle mutazioni logiche. Attenti al continuo, non cogliamo i salti. Perbacco!
A partire da più di venti anni fa, forse venticinque, ho abbandonato la macchina per scrivere e sono passato al computer molto prima della maggior parte dei miei colleghi. Però, il mio maestro Vittorio Somenzi, filosofo della scienza, amico e collega dei maggiori cibernetici, non aveva il computer. Teorico dell’intelligenza artificiale, ne scriveva di computer, ma non ci scriveva. Scriveva con una portatile, con la penna o col gesso, e negli ultimi tempi leggeva solo libri di storia. Un mondo fa. Ma non stiamo parlando né dei graffiti nelle caverne, né della stampa tipografica. Stiamo parlando della rete. Che esiste da un tempuscolo.
Ho visto le stesse cose che hanno visto gli umani, ma con qualche anticipo. Non mi sono negato nulla: sito, blog, social network, liste di discussione. Profili e identità multiple: ho quattro nomi. Ho visto allibito serpeggiare e poi esplodere una incontenibile violenza verbale in liste di discussione abbastanza esclusive, che in confronto Facebook risulta un club di bigotti. Più recentemente ho visto anziani cattedratici farsi un profilo su FB e far di tutto per emulare gli “amici”, un po’ come quando si balla per la prima volta l’hully gully. Una mimesi plumbea e catafratta. Chi ci guadagna?
Rispondo subito al quesito che Marco Palladini pone nel suo testo di convocazione. No, non credo che si possa indirizzare lo sviluppo della rete, per lo meno senza enormi capitali. Capire e prevedere però sì. Non si torna indietro, “nulla sarà più come prima” – nonostante, in generale, l’uso della formula sia fervidamente scaramantico. Per essere chiari, non credo che si possa ipotizzare unritorno delle tecniche, per usare una nozione dell’economia. Certe modificazioni sono irreparabili. Comunque vada, la contemplazione della produzione esponenziale delle identità, lungi dal potenziare il soggetto, lo sgretola definitivamente, impedisce una volta per tutte la responsabilità. Tante identità, nessun soggetto. Cuccù, sèttete.
La percezione è oggettiva, la scienza è soggettiva, si sente ripetere come un karma. L’unico significato possibile di questa apparentemente paradossale asserzione è che, per raggiungere una visione distaccata, immersi come si è in questo cloud, si deve compiere un’impresa titanica e consapevole. Il problema è – per dirla in altro modo – che stiamo pescando tutti nella stessamemoria, negli stessi archivi, nello stesso immaginario. Un potente meccanismo di autocolonizzazione. Nulla viene più da fuori.
Si era riusciti a dimenticare un certo gruppo musicale, una certa faccia, un certo nome, un certo autore, un film infamante, un calciatore, un Carosello, una figurina, … Niente da fare, inesorabilmente e casualmente, c’è qualcuno che vanifica una lunga operazione di rimozione. E ci scarica addosso la montagna di ciò che avevamo messo da parte. Non si è soltanto ciò che si ricorda, ma anche, e direi soprattutto, ciò che si è riusciti a dimenticare. Gli agguati alla soggettività sono continui. Ma dico io, se il letterato permane sui social network, quando ha il tempo per formarsi? Per attendere alla propria Bildung? La Bildung di tutti è la Kultur ridotta ai livelli più bassi. Ormai, in questa corsa disperata, il tempo si prende sugli ultimi. Nemmeno i decoubertiniani ortodossi potrebbero accettare questa maledizione.
Le tragedie saranno tutte in due battute. I racconti avranno il limite delle battute di Twitter. Hai scritto un libro? Pùbblicalo! Se si prova a quantificare, a seguire da presso l’andamento, il bilancio degli acquisti e delle perdite, si capisce che il limite è stato già superato, siamo già tutti al di qua. Né apocalittici, né integrati: tutti fottuti. E comunque, i letterati non riusciranno a salvare la letteratura perché non riescono a selezionare e selezionarsi.
Parlo da editore, ho cessato di pubblicare l’Almanacco Odradek, perché era chiaro che la formula evocava quella della palestra. Ci vado quando mi pare, mi alleno, faccio un po’ di stretching e esco. È finita l’epoca dei manifesti, caro lei!
La collana di narrativa è morta lì, perché è stato chiaro che una collana affidata a testi di ricerca era scansata e guardata con repulsione, addirittura da ciascuno di quelli che aspiravano a pubblicarvi un proprio testo. Della serie, chi leggerebbe più Gianni Toti?
Le falde sono inquinate dal percolato di cui sopra. Tutti scrivono e non c’è più tempo per leggere. Gli editori aumentano e i lettori diminuiscono. La letteratura potrà farcela? Forse. Ma è il letterato che va verso l’estinzione. Se continua a sfarfallare nella rete, di sicuro la letteratura non sarà più la stessa, e probabilmente non si potrà più parlare di letteratura.
Fin qui la mia può sembrare una patetica recriminazione: o tempora o mores! E invece no. Dalla rete mi aspetto molto.
Aspetto il primo manuale di storia europea, che parli di rapporti e di processi, e senza eroi. Per far questo, la rete aiuta, ma non basta. Ma senza rete non si fa.
Aspetto il primo manuale di Filosofia, senza nomi di filosofi. Si può fare! Ci vuole un team internazionale che lavori ciascuno a casa sua a un testo blindato. E guai a chi tocca una virgola.
Aspetto un prepotente avviarsi di meccanismi di selezione qualitativa. Nessuna misericordia per chi scrive. Hai scritto? Sei già stato gratificato. Per essere pubblicato, devi concorrere. Se non accetti il giudizio, apri un blog per pochi intimi. E pèrditi nella rete.
Se e dove ciò possa accadere, non lo so. Il problema è la lingua. Se continuiamo a parlare la lingua che ci parla, l’uroboro si chiuderà sempre più, con ciascuno dentro.
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