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L’amore di Scimone-Sframeli

La levità di un fiore e il fragore di un ceffone all'ipocrisia borghese.

«Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte/Ingenerò la sorte/Cose quaggiù sì belle/Altre il mondo non ha/non han le stelle/Nasce dall'uno il bene/Nasce il piacer maggiore/Che per lo mar dell'essere si trova/L'altra ogni gran dolore/Ogni gran male annulla/Bellissima fanciulla/Dolce a veder, non quale/La si dipinge la codarda gente/Gode il fanciullo Amore/Accompagnar sovente/E sorvolano insiem la via mortale/Primi conforti d'ogni saggio core/Nè cor fu mai più saggio/Che percosso d'amor, nè mai più forte/Sprezzò l'infausta vita/Nè per altro signore/Come per questo a perigliar fu pronto/Ch'ove tu porgi aita/Amor, nasce il coraggio…». Sono i versi iniziali del Canto XXVII, composto da Giacomo Leopardi, e che, in epigrafe, recano il famoso verso di Menandro: «Muor giovane colui ch’al Cielo è caro». Versi che mi sono venuti in mente nell’assistere – e lo dico subito: avvinto, commosso, intenerito, rapito, divertito, rattristato, smarrito, tremante – ad Amore, lo spettacolo – vincitore di due premi Ubu – della Compagnia Scimone-Sframeli; che, scritto da Spiro Scimone, per la regia di Francesco Sframeli, ha visto in scena, al Teatro Nuovo di Napoli, oltre ai già citati regista ed autore, Giulia Weber e Gianluca Cesale.

Francesco Sframeli e Spiro ScimoneUno spettacolo, dunque – ma la dicitura appare riduttiva, visto il tema affrontato e soprattutto il come lo si è affrontato – che parla dell’Amore, cioè di quanto di più aleatorio e innegabile, impalpabile e percettibile, illusorio e reale, spirituale e corporeo, sensuale e platonico, erotico e casto, tragico e leggero, dolce e crudele, dolente e piacevole, narcisistico e altruistico, serio e giocoso, terrorizzante e rassicurante, geloso e pieno di fiducia, ancorato al passato e proiettato nel futuro, quanto di più giovane e vecchio, vissuto nell’eternità di un solo attimo, possa esistere al mondo. E allora, vengono ancora in mente le parole che Rainer Maria Rilke scrisse, in una toccante lettera, datata 5 Settembre 1857, a Lou Andreas Salomè: «Che due esseri umani si riconoscano l’un l’altro non è soltanto splendido; ma è della più grande importanza che si incontrino nel momento giusto e che insieme celebrino feste profonde e silenziose, in cui crescere uniti nel desiderio per essere uniti contro le tempeste. Quanti esseri umani si sono sfiorati ignorandosi per non aver trovato il tempo di abituarsi l’uno all’altro; prima che due siano infelici assieme, devono insieme essere stati beati e avere un comune santo ricordo, che custodisca un uguale sorriso sulle loro labbra e un’uguale nostalgia nelle loro anime. Diventano allora come fanciulli che abbiano goduto insieme una festa di Natale; quando trovano alcuni minuti di respiro nei lunghi, pallidi giorni, si siedono assieme e si raccontano, con guance infuocate, della notte splendente di luci e odorosa di abete…Esseri come questi passano attraverso tutte le tempeste. Lo sento! Rainer».

Amore2O, daccapo, quelle laceranti di Colloquio sentimentale, poesia scritta da Paul Verlaine: «Nel vecchio parco gelido e deserto/sono appena passate due forme/Hanno occhi morti, e labbra molli/e le loro parole si odono appena/Nel vecchio parco gelido e deserto/due spettri hanno evocato il passato/Ricordi la nostra estasi d'allora?/E perché vuoi che la ricordi?/Batte ancora il tuo cuore al solo mio nome?/Ancora vedi in sogno la mia anima?/No/Ah, i bei giorni d'indicibile felicità quando univamo le nostre bocche!/è possibile/Com'era azzurro il cielo, e grande la speranza!/Vinta, fuggì la speranza, nel cielo nero/Andavano così tra l'avena selvatica/le loro parole udì solo la notte». E quindi, in un poetico ed interminabile flusso evocativo, le parole melanconiche, dolorose, di La vita…è ricordarsi di un risveglio di Sandro Penna: «La vita…è ricordarsi di un risveglio/triste in un treno all'alba/aver veduto fuori la luce incerta/aver sentito nel corpo rotto la malinconia vergine e aspra dell’aria pungente/Ma ricordarsi la liberazione improvvisa è piú dolce/a me vicino un marinaio giovane/l’azzurro e il bianco della sua divisa/e fuori un mare tutto fresco di colore»; o quelle audaci, erotiche e delicate di Un chant d’amour di Jean Genet: «Coricarmi a quei piedi che molestano i riccioli del mare?/Bella storia d'amore: un ragazzo di paese ama la sentinella errante sulla spiaggia/dove l'ambra della mia mano attira un fanciullo di ferro!/Sul petto, addormentata -in maniera strana/cremosa mandorla, stella, ragazzetta avvoltolata/questo tintinnio del sangue nell'azzurro del viale/a piedi nudi è la sera che risuona sul mio prato».

Amore3Di nuovo, le parole frementi di femminilità, rivoluzionarie nel loro traboccante desiderio d’amore, di Linguaggio segreto, lirica della poetessa araba Zhabiya Khamis: «La pelle della donna sogna qualcuno che la possa leccare/i suoi capelli sognano la mano che li districhi/la sua mano sogna il sudore annidato nel palmo dell’altra mano/le sue labbra sognano l’ardore del bacio/le sue ginocchia sognano due baci distinti/il capezzolo sogna qualcuno che lo succhi con passione/il collo sogna qualcuno che lo abbracci con una tenerezza dolorosa/il corpo sogna qualcuno che lo stringa senza tregua/il cuore sogna che i suoi battiti comunichino con un altro cuore/l’anima sogna qualcuno che la ospiti/i piedi sognano di camminare con questo ospite/e le braccia sognano di cullarlo per farlo addormentare/gli occhi sognano una lingua segreta che non ha bisogno di parole/l’orecchio sogna di udire il suo nome nell’immaginazione dell’altro/quando tutto é arido, i fiumi sognano l’esuberanza»; e, ancora, quelle neoesistenzialiste e un po’ ermetiche di L’Eremita, di Mariangela Gualtieri: «Noi siamo nel respiro. Attraversiamo ancora».

Amore5Seduto e assorto sulle poltroncine del Nuovo, mi si fanno avanti, in quest’intensissima ora teatrale, anche le parole scritte da Jean-Paul Sartre nel racconto Intimità –inserito nella raccolta dal titolo Il muro: «[…]Se potesse restare paralizzato così, sarei io che lo curerei, che lo pulirei come un bambino e qualche volta lo metterei a pancia sotto e gli darei una sculacciata e qualche altra volta, quando sua madre venisse a trovarlo, lo scoprirei con un pretesto, alzerei le lenzuola e sua madre lo vedrebbe completamente nudo»; oppure, in fine, quelle di Jacques Lacan, il quale, nel Seminario VIII, ci spiega che «L’amore domanda l’amore». Amare, in sostanza, è donare la propria mancanza. Ma questo implica che nell’amore ci sia sempre un muro, un a-mur. L’amore implica il muro. Il muro è il muro del linguaggio. Il linguaggio è un muro, nel senso che è una struttura di separazione all’interno di una coppia, il cui scopo è la fusione, il desiderio di essere Uno. E potrei continuare così, all’infinito.

Insomma, come a questo punto si sarà compreso, Amore è uno spettacolo dai profondissimi risvolti filosofici, dalle vastissime risonanze poetiche e dalle apparentemente impercettibili implicazioni politiche. Il tutto -e qui sta la magia di una semplicità densissima di nuance culturali, sociali, drammaturgiche, registiche e attoriali- circonfuso di un’ironia amarissima, a volte ai limiti della cattiveria, che ricalca, come sempre è accaduto nel percorso di questa sagace e tagliente coppia teatrale, gli stilemi del Teatro dell’Assurdo: di matrice beckettiana, più cupa, o ioneschiana, più giocosa. Stilemi rielaborati, però – ed è il caso di sottolinearlo finalmente in maniera marcata – in un tessuto drammaturgico e all’interno di una sintassi scenica originalissima, che spiazza e tradisce quei padri putativi, tanto che, personalmente, parlerei di un Teatro dell’Assurdo di esclusiva tessitura. Tessitura firmata Scimone e Sframeli. Uno spettacolo che ci parla dell’Amore, declinato, però, nelle sue forme meno convenzionali: l’Amore tra una coppia di anziani coniugi e l’Amore omosessuale tra due pompieri – intelligentissima provocazione simbolica, scenicamente giocata sul filo sottile di un tenero sarcasmo, all’eroico machismo italico – anch’essi ormai vecchi; ma anche un Amore coniugato al tempo passato delle rimembranze, sul cui viale, l’ombra della giovinezza impallidita sembra riapparire, a tratti pudica a tratti sfacciata, prendendo nuova vita, in quell’attimo, in quel καιρòς che sospende il Tempo e qui, più che mai, si delinea come la soglia, il momento supremo prima della Morte o, forse, oltre la Morte stessa.

In scena, dunque, due coppie – il vecchietto e la vecchietta, il comandante e il pompiere – che riannodano, nel mare incerto della memoria, il filo sfrangiato di emozioni speculari, che si riverberano, pur nella loro diversità esistenziale, sui cristalli opalescenti delle continue risonanze prodotte dalla parola evocatrice, che avvicina e con/fonde, allontana e ri/vela: muro attraverso cui aprire continue ferite di verità. Quattro personaggi senza nome, o il cui unico nome è Amore, nella sua significanza universale: senza differenze di genere, di sesso, di età, avulso da ogni pregiudizio morale e, soprattutto, nettato di ogni mondana apparenza, di ogni volgare spettacolarità da supermarket del turbamento. Un Amore che ci ricorda lo struggente film 45 anni, diretto da Andrew Haigh, con due attori capaci di offrire interpretazioni da antologia: Charlotte Rampling e Tom Courtenay.

Come da antologia del teatro sono qui le prove offerte dai quattro protagonisti; quattro vecchi/fanciulli, quattro corpi/ectoplasmi galleggianti nel Tempo sospeso del gioco puerile, tragico, crudele, dei sentimenti, dei ricordi, dei desideri: Giulia Weber, Spiro Scimone, Gianluca Cesale e Francesco Sframeli; che quest’ultimo -come si diceva, anche regista del lavoro in questione- dirige con la leggerezza di una carezza, danzante nel vento. Quattro personaggi che si muovono tra, e seggono su, le tombe di un cimitero simbolico, perfettamente stilizzato, con macabra ironia ed allegorica profondità, nella scena disegnata da Lino Fiorito.

E allora: Giulia Weber è una vecchietta divertente, sfacciata, dolcissima nel suo intatto desiderio d’Amore, anche fisico, nella sua ricerca di intimità col suo uomo, che accudisce come un figlio e coccola come un’amante ai primi tremori; il suo contraltare è il pompiere di Gianluca Cesale, amico incalzante e geloso, sottoposto -ai limiti del docile masochismo- di un comandante, al cui servizio si pone come una gheisha, ubbidiente e innamorata; Spiro Scimone dona al suo vecchietto tutte le impercettibili sfumature del commovente smarrimento, proprio di un’età in cui, con la memoria che vacilla, si ritorna innocenti e immacolati come bambini, avulsi dal Tempo e dalla Storia; gli fa da controcanto il comandante di Francesco Sframeli, intriso di ardenti pudori e di sensuali cedimenti, coperti sotto l’autoironica coltre di compassatI gesti e insensate integrità militaresche. Si muovono, si chiamano, si cercano, si celano, si evocano, questi quattro personaggi sulla scena, in un continuo gioco di intimi rispecchiamenti, interrotti, però, dal magma, replicato e monotono, del linguaggio. Quel linguaggio che solo quando tace, oppure diventa, per citare ancora Jenet, «linguaggio notturno degli amanti» – che non si scrive ma «si sussurra di notte in un orecchio», dimenticandosene all’alba – permette alle menti e ai corpi di fondersi e di allontanarsi, di perdersi e di ritrovarsi, di odiarsi e di amarsi senza mediazioni, fino al deliquio della petite mort orgasmica o all’assenza reciproca dell’amplesso finale ed eterno.

Scimone e Sframeli sembrano volerci dire, a metà strada tra il pessimismo accusatorio e l’ironia dissacrante, che solo quando il mondo – con i suoi pregiudizi, le sue viltà, le sue crudeltà, i suoi squallori, le sue futili velleità, le sue passioni a buon mercato – tacerà per sempre, ci si potrà amare liberamente e totalmente, chiudendo occhi e bocche; semmai serrandoli in un bacio che mai ha smesso e mai smetterà di giocare con le nostre lingue. Finché il fuoco non avvampi e l’acqua non ci sommerga.

Scrive Thomas Bernhard: «Quello che c'è di essenziale in una persona viene alla luce soltanto quando dobbiamo considerarla perduta per noi, nel momento in cui questa persona può soltanto dirci addio. Ad un tratto, in tutto ciò che in essa è ormai soltanto preparazione alla morte definitiva, questa persona può essere riconosciuta nella sua verità. Un essere umano può sentirsi unito ad un altro che ama solo quando quest'altro è morto, e davvero è entrato a far parte di lui». Amore ci dice tutto questo. E lo fa con la levità di un fiore, sbocciato tra il letame di un cimitero di campagna. Ma anche con il fragore di un ceffone, mollato in pieno viso all’ipocrisia borghese.

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