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Ogni luogo è Taksim. Un viaggio da Gezi Park all’invasione del Rojava

“Fare i giornalisti in Turchia è pericoloso, lo è sempre stato. Lo era ai tempi dei generali e lo è ancor di più ora che al potere c’è l’Akp”, racconta Alberto Negri durante la presentazione, ospitata nella sede nazionale della FNSI, del libro “Ogni luogo è Taksim”.
Negri è l’autore della prefazione all’edizione italiana, pubblicata dalla torinese Rosenberg & Sellier, del libro scritto nel 2014 da Deniz Yücel, corrispondente turco-tedesco del “Die Welt” arrestato il 14 febbraio del 2017 mentre si trovava in Turchia e rinchiuso per un anno in una cella d’isolamento perché accusato di “diffusione di propaganda a sostegno di un’organizzazione terroristica” e “incitamento alla violenza“.
“In realtà Yücel ha passato un anno nella prigione di Silivri senza che mai fosse formalizzato e gli fosse comunicato il capo d’accusa” spiega il giornalista di origini turche Murat Cinar, autore di un’interessantissima postfazione, che usa parole dure descrivendo il sistema giudiziario turco come uno strumento nelle mani del potere politico e degli interessi delle cordate che sostengono o fanno capo a Tayyip Erdogan.
La Turchia è quel paese, racconta Cinar, in cui i giornalisti scomodi finiscono in galera, in esilio o sono assassinati – come Hrant Dink, freddato da un killer a Istanbul nel 2007, ricorda Negri – ma dove i media compiacenti, di proprietà di grandi holding legate a doppio filo al regime fanno a gara a compiacere l’esecutivo e il presidente Erdogan a colpi di campagne stampa organizzate ad hoc. Come quella che ha preso di mira l’Unione Turca dei Medici, “colpevole” di aver pubblicato un breve comunicato in cui, criticando l’inizio dell’invasione turca del nord della Siria, definiva la guerra “un problema per la salute e il benessere della popolazione turca”. Immediatamente quotidiani e tv di proprietà degli esponenti del governo o di discussi uomini d’affari, ormai in regime di monopolio vista la chiusura o il commissariamento coatto delle grandi testate d’opposizione, si sono prestati ad amplificare l’anatema lanciato da Erdogan e dal primo ministro contro l’associazione, accusata di tradimento e di collaborazione con un non meglio precisato nemico. Col risultato che undici medici, compreso il presidente dell’Unione, sono finiti in manette.

Deniz Yücel è uno dei tanti giornalisti finiti nei guai a causa della sua attività, del suo lavoro, della sua voglia di verità e giustizia. Forse anche per ciò che ha scritto in questo libro che ricostruisce le origini, descrive le caratteristiche e dà voce ad alcuni dei protagonisti di un movimento popolare che, nella primavera-estate del 2013, portò in piazza tre milioni e mezzo di persone di tutte le confessioni religiose, le nazionalità e le estrazioni sociali contro un regime che reagì con estrema violenza prefigurando il volto feroce che avrebbe assunto di lì a poco.

Il 16 febbraio, a un anno dal suo arresto e a pochi giorni dalla pubblicazione dell’edizione italiana del suo libro, Deniz Yücel è stato finalmente scarcerato, ma contemporaneamente i tribunali turchi condannavano all’ergastolo i due fratelli Altan – lo scrittore Ahmet e l’economista Mehmet – e la giornalista Nazlı Ilıcak. I pochi numeri snocciolati da Antonella Napoli, di ‘Articolo 21’, che ogni tanto controlla al cellulare gli sviluppi di un processo contro 20 redattori del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet accusati di terrorismo, sono impressionanti. Attualmente in Turchia ci sono 155 giornalisti dietro le sbarre, 120 dei quali sono stati arrestati dopo il fallito golpe del 15 luglio 2016; 2500 sono stati licenziati; un centinaio le testate chiuse. Tutti sono accusati di essere affiliati al PKK curdo o nella maggior parte dei casi alla presunta organizzazione terroristica FETÖ, la rete politico-economica capitanata dall’imprenditore e predicatore Fethullah Gulen, a lungo mentore di Erdogan e poi divenuto suo acerrimo nemico, indicato dal leader del regime turco come ispiratore del fallito golpe di due anni fa.

Il libro di Yücel, arricchito dagli interventi di Negri e Cinar, rappresenta un prezioso viaggio nel tempo, attraverso la ricostruzione di eventi, fenomeni, processi che, a pochi anni di distanza dai fatti, rischiano di essere dimenticati, di perdersi in un mare di cronaca che ci martella con raffiche di ‘ultim’ora’ ma può farci perdere il bandolo della matassa, sottrarci gli strumenti di comprensione di una realtà, quella turca, assai complessa, non certo riconducibile alla sola traiettoria di un presidente senza scrupoli o all’ascesa del fondamentalismo.

“Ogni luogo è Taksim” è anche, però, un viaggio nello spazio. Yucel infatti racconta soprattutto i luoghi, i quartieri e le città, oltre che le ragioni, che furono protagonisti di quell’enorme moto sociale passato alla storia come “Occupy Gezi”. Un movimento di protesta che partì in sordina, con una piccola mobilitazione contro l’abbattimento degli alberi del parco Gezi che avrebbero dovuto lasciar spazio, nelle intenzioni di Erdogan fin da quando era il rampante sindaco di Istanbul, alla ricostruzione delle caserme ottomane abbattute nel 1909, e che in pochi giorni si tramutò in una gigantesca ribellione contro il regime islamo-nazionalista del ‘sultano’.
Gezi Park sorge a poche centinaia di metri da Piazza Taksim, crocevia fisico e simbolico di almeno due secoli di storia turca. Taksim è tradizionalmente la piazza delle manifestazioni dei sindacati e delle forze di sinistra, che da decenni tentano – prima contro i generali e poi contro il nuovo regime affaristico-religioso – di affermare una Turchia progressista contro la repressione. Taksim è anche la storica vetrina della Turchia secolarista, e al tempo stesso l’oggetto del desiderio di una Turchia islamista e neo-ottomana, a lungo esclusa dal potere, che ha prima sognato e porta ora avanti la sua rivincita sul laicismo di stato imposto dal padre della patria, Mustafa Kemal.
A Piazza Taksim, ricorda Negri, il 1 maggio del 1977, decine di lavoratori e sindacalisti furono trucidati dai cecchini delle forze di sicurezza. A Taksim sferragliarono i carri armati dei militari protagonisti dei tre golpe del 1960, del 1971 e del 1980. Sempre a Taksim si radunarono le enormi folle che nel 2013 chiedevano le dimissioni di Tayyip Erdogan, bersagliate coi lacrimogeni sparati dagli elicotteri e i proiettili di gomma ad altezza d’uomo. Ma a Taksim sono passati anche i jihadisti che più recentemente hanno fatto saltare in aria la discoteca Reina, o che facevano un ‘giro turistico’ prima di raggiungere la Siria attraverso quella “autostrada della jihad” approntata dagli apparati statali turchi responsabili, accusa Negri, insieme a USA, Europa e petromonarchie, di aver sprofondato il paese confinante in una guerra civile in cui oggi Ankara interviene di nuovo direttamente invadendo il Rojava.
Fu proprio a causa di un reportage che smascherava l’invio di armi ai jihadisti da parte dei servizi turchi che Can Dundar, direttore del quotidiano Cumhuriyet, fu arrestato nel 2015 insieme al caporedattore Erdem Gül, fu oggetto nel 2016 di un tentativo di assassinio e dovette poi esiliarsi.

Raccontare i luoghi della Turchia e in particolare di Istanbul vuol dire ripercorrere lo stravolgimento fisico – di questo parla soprattutto Yücel – imposto dalla gentrificazione e dalla speculazione edilizia alle città, ai quartieri, ai luoghi simbolo di un paese che continua ad essere plasmato a misura degli enormi interessi economici che sorreggono il ‘miracolo turco’. La cementificazione, la politica delle grandi opere costosissime, spesso inutili e dannose per l’ambiente – minuziosamente descritte dal giornalista torinese nella postfazione – hanno fatto la fortuna di Erdogan e del suo partito sulla base di un intreccio micidiale tra economia, potere politico e religione. E’ quella bolla immobiliare che sembra infinita e che ha permesso, attraverso l’investimento di un’enorme quantità di denaro pubblico e di fondi privati, di generare il largo consenso popolare che dal 2002 sorregge il potere di Erdogan. Il ‘sultano’ è stato talmente abile da riuscire finora – quanto durerà ancora? – a fondere gli interessi e le aspirazioni di due mondi a lungo divisi ed opposti: da una parte la Turchia occidentale, base storica dei regimi prima militari e poi liberali, dall’altra la Turchia anatolica, ormai riversatasi nei quartieri di Istanbul, fedele ai precetti coranici e al tradizionalismo.


I giornalisti che hanno cercato di indagare su questi intrecci – o sugli spericolati cambiamenti di fronte di un Erdogan che da sodale degli Usa è passato a far parte di un’inedita alleanza di comodo con Russia e Iran, in nome delle sue mire egemoniche e della guerra infinita contro i curdi – rischiano grosso.

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