Si può morire nelle mani dello Stato. Succede troppo spesso. Quasi sempre questi casi finiscono presto nell’oblio. Ogni tanto la cronaca ci richiama l’attenzione su alcuni episodi, di recente è successo con il caso di Stefano Cucchi. Su quella vicenda l’attenzione dell’opinione pubblica era stata risvegliata anche da un film prodotto da una grande piattaforma televisiva: sicuramente un’operazione commerciale, ma estremamente utile e lodevole. Ci sono anche dei film autoprodotti che trattano di questi temi. Film che non entrano nei grandi circuiti ma che riescono ad arrivare alle masse attraverso la distribuzione militante e i canali alternativi. Uno di questi è “Figli come noi”, film diretto (e prodotto) da Rosso Fiorentino.
Il film narra i casi di sei prigionieri uccisi o indotti al suicidio: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Sole e Baleno, Katiuscia Favero e Giuseppe Uva. Ogni caso è diverso, ognuno è preso come emblema per rappresentare altrettante zone d’ombra del nostro Paese: gli abusi delle forze dell’ordine, il terrorismo psicologico dello Stato, l’inferno degli OPG, l’odio politico degli apparati dello Stato, il sistema di connivenze e coperture.
Negli anni su Stefano Cucchi l’attenzione è rimasta alta per vari motivi: per le mobilitazioni popolari che ci sono state, per l’infaticabile impegno della famiglia nella ricerca della verità, per le produzioni culturali e infine per l’eclatante colpo di scena dei risvolti giudiziari. Il termine “eclatante” va inteso solo dal punto di vista mediatico, in quanto la verità giudiziaria non ha fatto che confermare una evidenza che gli apparati dello Stato hanno sempre negato con tutte le loro forze: Stefano è stato ammazzato di botte dalle guardie.
Federico Aldrovandi era un ragazzo di Ferrara, assassinato una sera mentre se ne tornava a casa. Venne fermato da una volante della polizia, gli agenti lo iniziarono a pestare, poi fecero intervenire anche un’altra volante: in quattro si accanirono contro il ragazzo che stava a terra.
Pochi ricordano la storia di Sole e Baleno, erano due anarchici che avevano una relazione sentimentale e vennero arrestati (insieme ad un altro loro compagno, Silvano Pelissero) nell’ambito delle prime inchieste contro la lotta nella Val di Susa. I tre vennero sottoposti ad una gogna mediatica e ad un sistematico terrorismo psicologico. Queste pressioni spinsero Baleno (Edoardo Massari) a suicidarsi in carcere, poco dopo la sua compagna Sole (Maria Soledad Rosas) lo raggiunse.
Katiuscia Favero era una ragazza arrestata per un piccolo furto, a causa dei suoi trascorsi difficili venne rinchiusa in un manicomio criminale (OPG) dove fu violentata da alcuni addetti sanitari. Successivamente fu trasferita in carcere dove poté denunciare lo stupro che fu appurato anche con visite mediche. Quindi, venne di nuovo inviata all’OPG dove l’attendevano i suoi aguzzini. Pochi giorni prima di poter uscire dalla struttura, venne trovata morta. Fu inscenato un suicidio per chiuderle la bocca.
Giuseppe Uva venne fermato una sera a Varese, era ubriaco. Le forze dell’ordine lo conoscevano per il suo orientamento politico e per la presunta relazione che avrebbe intrattenuto con la moglie di un carabiniere. Venne prima seviziato e poi ammazzato di botte.
In tutte queste storie “è stato lo Stato” ad uccidere, direttamente o meno. Alcune vicende giudiziarie hanno appurato la verità, altre sono state insabbiate tra omertà e coperture. Questa è la tematica centrale del film: in tutti questi casi non si è trattato di “mele marce” ma di un sistema criminale che si ripete e si protegge. Il film si sofferma con efficacia sui ruoli dei vari apparati e ci spinge ad interrogarci su alcuni problemi irrisolti del nostro Paese come la riforma della Giustizia, la responsabilità dei magistrati, l’identificabilità delle forze dell’ordine. In un momento in cui la gestione dei conflitti sociali viene sempre meno gestita sul piano politico e sempre più su quello della repressione poliziesca, diventa ancora più urgente affrontare questi ed altri problemi.
Ad essere marcia non è qualche mela, ma quasi tutta la pianta.
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elisabetta canitano
il film è bello…molto coinvolgente e commovente. Ti arrabbi, giustamente. Un film politico e umano insieme