Ripartito il cineforum popolare, al Civico 7 Liberato di Napoli.
Con la proiezione di A tempo pieno, per la regia di Laurent Cantet – con Aurélien Recoing, Karin Viard, e Serge Livrozet – è ripreso, dopo la pausa estiva, il Cineforum Popolare, orgorganizzato dal collettivo del Civico 7 Liberato del capoluogo partenopeo, i cui locali sono situati a Piazza Museo, portici della Galleria Principe di Napoli .
Un collettivo, quello del Civico, la cui intensa attività politico-culturale -oltre al cineforum vi si svolgono presentazioni di libri, mostre, dibattiti sulla città e rappresentazioni teatrali- si pone l’obiettivo di contribure alla riqualifica e alla rinascita della Galleria e dell’intera zona che circonda il Museo Archeologico Nazionale. Zona che, purtroppo, negli anni, è stata spesso vittima di degrado urbano e lasciata al proprio destino dalle amministrazioni comunali. La giunta De Magistris, che pur qualcosa ha fatto, non è stata certo capace di invertire sufficientemente la tendenza al ribasso. E allora, proprio in un”ottica di impegno e collaborazione con la comunità cittadina, devono collocarsi le attività proposte dal Civico 7, tra cui, come si ricordava, va anche ad iscriversi il Cineforum Popolare.
Cineforum popolare che, partito la scorsa primavera, ha individuato un nucleo concettuale, artistico e politico ben preciso, addensato attorno all’ attualissima e delicatissima tematica del lavoro. Tanto che all’iniziativa si è voluto dare il titolo di Cinema e Lavoro: come il cinema guarda al mondo del lavoro. Dalla Rivoluzione d’Ottobre agli anni del neoliberismo.
Il primo ciclo, dunque, ha visto la programmazione -in ordine cronologico, oivviamente- di registi come Ėjzenštejn, Lang, Antonioni, Germi, Olmi, Godard, Loach. In questo secondo segmento di proiezioni, si avvicenderanno, invece, il già menzionato Laurent Cantet, Riccardo Milani, Lars Von Trier, Gianni Amelio, Ken Loach, Jeane-Pierre e Luc Dardenne, Stéphane Brizè, Andrea D’Ambrosio, Aki Kaurismaki. Insomma, si andrà dagli anni 2000 ai nostri giorni. E, al termine, cone nella più sana tradizione marxista, non manca il confronto/dibattito tra gli intervenuti, sollecitato dalla visione del film.
Orbene, abbiamo assistito, Giovedì 29, alla proiezione di A tempo pieno, di cui proponiamo, qui di seguito, una riflessione critica.
UN VIAGGIO NELL’UOMO UNIDIMENSIONALE ALL’ EPOCA DEL CAPITALE.
Alla guida della sua auto, Vincent impiega il tempo in lunghi viaggi, apparentemente per lavoro. Felicemente sposato con Muriel, padre di tre figli, torna a casa quasi esclusivamente nei weekend o appena i suoi impegni gliene lascino il tempo. Durante i giorni lavorativi, viceversa, il legame con la famiglia viene mantenuto attraverso frequenti telefonate con la moglie, alla quale racconta, invariabilmente, di riunioni interminabili, appuntamenti di affari e rapporti con i colleghi.
Un manager o un business man come tanti, insomma: agiato, indaffarato e flessibile sul mercato del lavoro. Vincent, infatti, ormai annoiato dal suo ruolo di consulente finanziario, sarebbe in procinto di cambiare occupazione per trasferirsi a Ginevra, dove assumerebbe un importante incarico nientemeno che all’Onu, in un settore strategico per gli investimenti e le privatizzazioni nei paesi africani in via di sviluppo. Tutto questo, però -come scopriamo quasi subito- è solo apparenza. Peggio, un inganno! Vincent, infatti, a fine giornata, dopo l’ultima telefonata alla famiglia, si appresta a passare le notti in macchina. Quell’auto divenuta, per lui, casa, rifugio, gabbia, mezzo di evasione e barriera di protezione contro il mondo esterno e le sue stritolanti logiche produttivistiche ed efficientiste. Perché in realtà, Vincent, il suo tempo, lo impiega ormai mentendo. Fingendo cioè, con sé stesso e con gli altri, di avere un lavoro.
Licenziato, infatti, da circa un mese -giustamente per sua stessa ammissione, non trovando più stimoli in quell’attività di consulente finanziario che gli appariva ineluttabilmente arida e finanche irritante, tanto da non rispettare più gli appuntamenti- non è riuscito, tuttavia, ad accettare l’idea di essere senza impiego. E così, la menzogna è diventata, “a tempo pieno”, la sua occupazione principale. Bugie che, dapprima, lo portano a mentire sul licenziamento; poi a millantare un futuro impiego di prestigio all’Onu; infine a mistificare investimenti nei mercati in espansione, con guadagni elevatissimi per gli investitori. Una truffa che consumerà, preso in un ingranaggio di imposture sempre più stringente e soverchiante, perfino a danno di conoscenti e amici di infanzia, per restituire i soldi ai quali, deciderà di lavorare con un faccendiere, dedito al business della contraffazione.
Incapace di interrompere la spirale di inganni e raggiri, dentro cui ha smarrito la propria dimensione personale, Vincent finirà, quindi, con l’incrinare i rapporti con la moglie, col padre, con gli amici e con i figli stessi, specie il maggiore dei tre.
In un finale di angoscia crescente e addirittura agghiacciante, Cantet ci restituisce -dopo avercene raccontato, per l’intero film, l’asfissiante unidimensionionalità psicologica- il senso di smarrimento umano e di annichilimento soggettivo di un Io contemporaneo, alienato nella necessità illiberale del lavoro e della produzione capitalistica. Al punto che il protagonista diviene, scisso tra l’aspirazione alla Libertà e l’incapacità morale di sottrarsi alla schiavitù di un lavoro che condensa l’identità stessa dell’individuo – nel suo caso, uno status sociale elevato- il tiranno di sé stesso, chiuso in un kafkiano castello di menzogne. D’altronde, cos’è il capitalismo finanziario – sembra volerci dire Cantet – se non un gioco truccato, sin dalla sua origine linguistica? E cos’è il soggetto, rinchiuso in questa angusta ma luccicante cella esistenziale, se non un soggetto ad una dimensione, per parafrasare Marcuse? Una sceneggiatura perfetta, una regia attenta ai dettagli e capace di costruire un lento ma inesorabile sprofondamento nell’angoscia della dissimulazione, e la convincente prova degli attori -primo fra tutti il protagonista, Aurélien Recoing- fanno di “A Tempo Pieno” un film importante. Capace, come poche pellicole, di svelare le atroci dinamiche del Capitale. Quel Capitale che ha finito per colonizzare finanche il nostro immaginario.
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