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La guerra che viene

È da poco in libreria La guerra che viene, edito da Mimesis, una raccolta di interventi di Sandro Moiso, già pubblicati tra il 2011 e il 2018 su Carmillaonline.

Moiso, redattore storico della rivista, si cimenta in un’operazione ardita: affrontare la categoria della guerra moderna – nella sua proteica inafferrabilità – e provare a ricondurla dentro un ragionamento complessivo sulla crisi sistemica. Operazione difficile, dicevamo: perché in questa epoca indecifrabile e terribile, le ragioni della guerra (il piano politico), lo svolgimento della guerra (quello militare e geostrategico) e il racconto della guerra (l’immaginario collettivo che la coltiva), sono campi ormai sostanzialmente inseparabili. Il volume, quindi, con la forza della “narrazione in diretta”, prova a dipanare questi fili. E ci riesce nella misura in cui l’autore elide l’approccio accademico – lo studioso che contempla e “classifica” i mille aspetti della complessità – e sceglie una lettura generale, unificante, uno sguardo militante – di una militanza intellettuale che analizza per sovvertire.

Con questa impostazione Von Clausewitz finisce a testa in giù, come già insegnò Foucault in tempi non sospetti: la politica è metafora e surrogato provvisorio della guerra. Anzi, come dice Valerio Evangelisti nella bella introduzione: nel sistema capitalistico ogni politica è in ultima analisi politica di guerra, perché il sistema capitalistico, pone a suo fondamento una vera guerra (tale fu la fase dell’accumulazione originaria) e si sviluppa come guerra permanente di classe, per perpetuare le condizioni della valorizzazione.

Da questo punto di vista, per Moiso, guerra e crisi sono categorie letteralmente inseparabili e solo la lettura di tempi e modi della crisi, può anticipare la comprensione della tendenza alla guerra:

la peste che ha causato la fine precoce e inaspettata del caro estinto non si sa se è arrivata da ovest con il virus Lehman oppure da oriente con un virus greco […] Gli esorcisti al governo dichiarano di avere cure formidabili: carta straccia moltiplicata per centinaia di miliardi per casseforti trasformate già in camere mortuarie e tagli, tanti, agli impiegati dello Stato, ai lavoratori, ai loro stipendi […] Alzati e cammina, si ostinano a recitare, senza smettere di litigare tra loro, nei loro sepolcri imbiancati, i signori del potere, della finanza e della guerra. Ma il giocattolo si è rotto, e non funziona più.” (pag. 20)

Non è più tempo di perversi ottimismi, nella lettura del rapporto ciclo economico/guerra – qui non si tratta di “programmare” un grande evento bellico che ci traghetti oltre la crisi, navigando su fiumi di sangue:

Forse una guerra europea e mondiale potrebbe riportare per qualche tempo il pallone alla giusta pressione, ma più si analizzano i cicli storici di accumulazione e dominio imperialistico, più ci si accorge che sono destinati ad essere progressivamente più brevi. Quanti secoli ha impiegato l’Europa a diventare il centro del mondo? E in quanto tempo sono crollate le sue fortune? E quanto è durato il “secolo americano”? Cinquant’anni, settanta? E quanto durerà il predominio cinese? (pag. 21)

No, qui non si tratta di una lettura schematica degli eventi – le classi dirigenti che organizzano la guerra anticiclica – quanto di un disvelamento inarrestabile, una tracimazione di significati: la guerra, a partire dalla guerra sociale e civile che incuba nelle società ricche e decadenti d’Occidente, sta rivelandosi senza pudori, come la pura essenza del rapporto di capitale. E quindi c’è da mappare una microfisica delle guerre, cominciando dai nostri quartieri, dai territori ribelli, dalle forme della governance economica.

Polemizza, l’autore, anche dentro un campo culturale di prossimità:

così per decenni, una certa sinistra, quella democratica e riformista, fino a certe frange della cosiddetta estrema sinistra, ha potuto crogiolarsi nell’illusione che la guerra, come strumento di risoluzione delle contraddizioni dell’imperialismo, fosse ormai superata. Si, certo, poteva svilupparsi qua e là in giro per il mondo, sotto forma di scontro tra Stati e regimi sottomessi all’impero e alla finanza e del capitale occidentale, oppure tra gli stessi popoli che non ne accettavano logiche perverse e ingiustizie palesi, ma, per Dio, sempre a casa d’altri”. (pag.29)

E questa acquiescenza spesso si traduceva in accettazione della “eterna e mefitica barzelletta delle guerre umanitarie” – l’idea che un po’ di conflitto bellico, qua e là, ben controllato, in forme di operazioni di polizia internazionale, fosse in qualche modo fisiologico o benefico:

Mentre chi da tempo indicava la guerra come fase ultima della della risoluzione dei conflitti economici e sociali scatenati dalla brame capitalistico-finanziarie, finiva con l’essere indicato, a seconda delle occasioni, come visionario, profeta di disgrazie o portavoce di una concezione politica ormai morta e sepolta”. (pag. 29).

Guerra come categoria totale, quindi. A cominciare dalla contesa daziaria e commerciale:

Naturalmente tra guerra commerciale minacciata e missili lanciati, corre una certa differenza. Ma solo apparentemente perché i missili di oggi, indipendentemente dal fatto che ad essi segue o meno una ulteriore escalation militare, anticipano soltanto quelli che domani, e in quantità ben maggiori, potranno essere lanciati sui competitor, imperialisti o meno, che non volessero adeguarsi alla Weltanschauung americana che vede ormai svilupparsi nel mondo intero il suo spazio vitale.” (pag.37)

Una visione meno schematica della categoria guerra, ci conduce anche oltre gli schematismi convenzionali: se la durata è la forma delle cose, quando inizia o finisce uno stato di guerra?

infatti oggi affermare che la seconda guerra mondiale si è svolta tra il settembre del 1939 e l’agosto del 1945, non è più così corretto. Sono dati di comodo, soprattutto per i manuali scolastici, ma è chiaro che il secondo conflitto mondiale andrebbe datato almeno al 1936, se non addirittura dagli accordi di spartizione degli imperi firmati a Versailles. Così la guerra futura, anche se dovesse iniziare nei prossimi giorni oppure negli anni a venire, affonderebbe chiaramente le sue radici almeno negli avvenimenti seguiti alla caduta dello Scià di Persia, alla fallita invasione sovietica dell’Afghanistan e in quelli successivi alla fine dell’URSS (1989) e alla riunificazione tedesca (1990) con la guerra del Golfo e le guerre balcaniche. Da allora infatti gli Stati Uniti hanno perseguito un obiettivo di destabilizzazione completa del mediterraneo e del Vicino Oriente che, con la caduta di Assad, avrebbe dovuto essere portata a termine”. (pag. 31)

Un nuovo travestimento delle guerre di conquista e di rapina, è il capitolo delle cosiddette guerre umanitarie: la retorica sui diritti umani (di volta in volta donne troppo velate, dissidenti repressi, rivoluzioni colorate, minoranze perseguitate) è la clava che si abbatte sui regimi ostili di cui promuovere il rovesciamento:

Gli appelli a salvare cristiani e yazidi, nascondono solo le mire imperialistiche diverse dei vari attori. I civili, e ci dispiace ancora una volta per tutte le anime belle che, dalla Serbia all’Afghanistan al Kurdistan di oggi, hanno sempre giustificato come ‘umanitari’ i bombardamenti e gli interventi militari occidentali, non interessano realmente a nessuno. Dalla Striscia di Gaza a Mosul, passando attraverso tutta la storia delle guerre del XX secolo e del XXI secolo, nessuno si preoccupa realmente di loro o della loro sorte. Tutti potenziali ostaggi della guerra, degli imperi o degli scoop mediatici”. (pag. 52)

Ma la guerra totale e “a pezzi” che sta ridisegnando le gerarchie di potere dentro la crisi, nasconde anche dentro il suo seno delle potenzialità di liberazione:

Nel Rojava è infatti in corso una trasformazione dei rapporti sociali, economici e tra i sessi, destinata sicuramente a lasciare il segno sui movimenti sociali a venire e a ridefinire i compiti di quella che sarà la Rivoluzione del futuro. Esattamente come l’esperienza della Comune di Parigi contribuì a ridefinire, attraverso l’azione dei suoi protagonisti, i compiti del movimento operaio ottocentesco e novecentesco. Così tanto da costringere, all’epoca, i teorici del socialismo rivoluzionario, da Marx a Lenin, a perfezionare il proprio pensiero”. (pag. 106)

Dentro il fosco scenario di guerra, anche la crisi di egemonia delle classi dirigenti globaliste – che hanno guidato il mondo del dopo-Muro – è un processo di importanza cruciale. Le nuove leadership pseudo-sovraniste che emergono ovunque e interrogano il campo della sinistra, sono nemiche o esprimono istanze che consentono ancora margini di recupero ad un discorso di radicalità rivoluzionaria o perlomeno costituzionale e democratica?

Ogni populismo, non può esservi dubbio su questo, ha sempre finito, nel senso degli ultimi cento anni, con l’essere di destra. Non può più esistere, materialmente, un populismo ‘di sinistra’. Questo perché il populismo tutto, dalla Lega a Grillo passando per Le Pen, affonda le sue radici nel più bieco nazionalismo, nel localismo, e nella riduzione ad interesse privato ed egoistico di tutte le sofferenze sociali. Ovvero in tutto ciò che costituisce di fatto il cosiddetto sovranismo. Ma detto questo non si può assolutamente pensare che, in determinati frangenti, una significativa fetta di elettori potenzialmente ‘di sinistra’ non possa pensare di aggrapparsi ad una forza o ad un leader che faccia sua, in maniera caotica, egoistica o disordinata, le speranze prevalentemente riposte ‘a sinistra’. Da qui deriva che la nascita, lo sviluppo e il rafforzamento dei movimenti populisti e fascisti è sempre e principalmente dovuta all’incapacità delle sinistre di mantenere i propri riferimenti ed obiettivi di classe” (pag.152)

A chiudere il cerchio, un ottimo contributo di Gioacchino Toni incentrato sulle “guerre-visioni”, cioè di quel vasto campo in cui si formano letture, sguardi, opinioni e giudizi sulla guerra:

parlare di guerre contemporanee significa inevitabilmente parlare anche di immagini e di immaginari. Se storicamente le immagini hanno documentato, pur nella loro parzialità, gli eventi bellici, da qualche tempo sembrano essere divenute sempre più parte della conduzione del conflitto […]. Se all’interno di un’epoca contraddistinta dall’appetito visivo il fatto che molti conflitti bellici vengano mantenuti in uno stato di invisibilità contribuisce a renderli sconosciuti e incomprensibili, non di meno anche quandosi ha copertura visiva delle guerre, queste tendono spesso a non essere percepite come tali, in quanto le immagini privilegiate, sono quelle volte al sensazionale che proiettano lo sguardo oltre la realtà in direzione spettacolare”. (pag. 231)

Tornando all’introduzione, Valerio Evangelisti colloca l’elaborazione di Moiso, in quella che: in Francia è chiamata ultragauche una particolare corrente di estrema sinistra che combina bordighismo e situazionismo, con forti innesti di anarchismo”. Un punto di vista assai rigoroso, testardamente ancorato all’interesse di classe, irriducibile alle affiliazioni di partito o di setta tipicamente italiane. Questo volume rappresenta adeguatamente la cifra del complesso e articolato lavoro di analisi che Moiso tesse da anni su queste tematiche e merita di essere letto.

Sandro Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis edizioni, Milano-Udine 2019, pp. 239, € 20,00.

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