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Qual è la morale politica di Game of Thrones?

Se lo chiede l’amministratore di una popolare pagina Facebook, scomodando grandi personaggi ed eventi della “storia reale” come Alessandro Magno e l’assassinio di Cesare.

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La morale politica di Game of Thrones si riassume nella parabola tragica di Daenerys Targaryenstate attenti alle rivoluzioni, anche alle più idealistiche, perché contengono in sé i germi del terrore totalitario; meglio perseguire una politica prudente, dei piccoli passi, che non spaventi i moderati. Questo è quanto sembrano suggerirci gli sceneggiatori nell’amaro happy ending della serie, che, nell’equivalente fantasy del Congresso di Vienna del 1815, segna una sostanziale restaurazione delle premesse con cui tutto si era aperto, con l’unica differenza che l’istituto della monarchia ora non è più dinastico, ma elettivo.

Non è una lettura confortevole per coloro – la maggioranza, si suppone – che avevano sperato nel crollo del sistema feudale del continente occidentale. Ma il problema più evidente, a ben vedere, è che si tratta di una morale molto poco coraggiosa, se non addirittura conservatrice e reazionaria. Certo, sarebbe stato irrealistico assistere a una precipitosa transizione verso una forma di presidenzialismo a suffragio universale, come goffamente proposto da Sam Tarly: a Westeros non esistono semplicemente i presupposti perché si realizzi qualcosa di simile a una democrazia. Fra il popolo, a quanto sappiamo – ed è assai misera la nostra conoscenza delle classi basse, quasi sempre relegate sullo sfondo delle lotte fra le grandi casate –, non c’è neanche la consapevolezza che un diritto del genere possa essere conquistato. Dovrebbe prima nascere una qualche forma di Illuminismo.

Se il personaggio di Daenerys avesse seguito un percorso più coerente, avremmo forse ottenuto una risposta. Gli sceneggiatori hanno, invece, deciso – vuoi per ragioni di budget, vuoi per economia della trama – di abbandonare lo storytelling sociologico che aveva contraddistinto le prime stagioni per curvare verso una narrazione marcatamente psicologica, come viene sottolineato in un recente articolo sul blog di Scientific American. Dunque non sono più le istituzioni e il contesto sociale a influenzare le scelte dei personaggi, ma i tratti della personalità, le emozioni, addirittura la genetica. Come ammesso dagli stessi David Benioff e D.B. Weiss, non c’è alcun calcolo razionale dietro l’improvvisa follia di Daenerys, solo mera emotività.

Il nucleo del racconto si sposta quindi sulle implicazioni psicologiche e personali del potere. Il potere corrompe la natura umana: è questo il messaggio, piuttosto apolitico per la verità, che ci consegna l’ultima stagione di Game of Thrones. Ed è un messaggio ripetuto di continuo, lo sentiamo quando Varys elogia la ritrosia al comando di Jon Snow, o quando Tyrion prega l’indifferente Bran di accettare per il bene comune il ruolo di nuovo sovrano.

Non sorprende perciò che gli spettatori, abituati a una serie incardinata, nelle prime stagioni, sul pensiero di Machiavelli, siano rimasti disorientati e delusi da un finale connotato da valutazioni così moralistiche. E anche i clamorosi buchi narrativi ne sono la diretta conseguenza.

E tuttavia era lecito aspettarsi un progresso politico maggiore di quello che è stato concesso al pubblico. In questo senso Daenerys rappresentava l’opzione riformatrice più realistica. Aveva dalla sua la legittimità tradizionale, in quanto figlia dell’ultimo re Targaryen, la forza di un poderoso esercito e di tre enormi draghi, e soprattutto la legittimità morale derivante dalle sue azioni concrete, come la liberazione degli schiavi a Essos. Per quanto soltanto vagamente tratteggiato, l’orizzonte politico della Khaleesi era il più radicale: rompere la ruota delle famiglie che da secoli governavano, alternandosi, il continente, schiacciando sotto di sé tanto i ricchi quanto i poveri.

Come concretamente questo progetto si sarebbe realizzato è poco chiaro: persino il suo consigliere Tyrion non va oltre generiche allusioni alla creazione di “un mondo migliore”. Limiti della trasposizione televisiva? È possibile. Una delle domande che George R.R. Martin avrebbe voluto muovere a Tolkien riguardava infatti i contenuti pratici dell’esercizio del potere: “qual era la politica fiscale di Aragorn? Manteneva un esercito in armi? Cosa faceva in tempo di alluvioni e carestie?”.

Consideriamo per esempio l’apice drammatico dell’ultima puntata, l’assassinio di Daenerys, che viene tratteggiato secondo i canoni classici del tirannicidio. Lo scenario in cui si muove Jon non appare però dei più favorevoli: la città è semidistrutta e sotto l’occupazione di un esercito invasore, e il suo unico alleato è l’ex primo cavaliere della regina, ora imprigionato e prossimo a essere condannato a morte. Una congiura di tale livello necessiterebbe di altri complici altolocati, di un progetto politico per il dopo-Daenerys o, quanto meno, di un piano di fuga. Nessuna di queste criticità sfiora il manipolabile Jon.

Non sarebbe senza dubbio il primo caso di una congiura disorganizzata: Bruto e Cassio, i capi della congiura delle Idi di marzo, uccisero Cesare illudendosi che il popolo li avrebbe acclamati come liberatori e che fosse ancora praticabile un ritorno alla più pura forma repubblicana dello Stato; ma, di fronte alla furia popolare, furono costretti a fuggire da Roma e, inseguiti dagli eserciti degli eredi di Cesare, Antonio e Ottaviano, si suicidarono a Filippi. Eppure, per quanto ingenui, almeno i cesaricidi avevano immaginato un’alternativa. Jon no.

Per questo non c’è nulla di davvero politico nell’assassinio da lui compiuto. È soltanto un atto morale, slegato sia dalla contingenza politica sia dalle ripercussioni che lui stesso può subire. Ed effettivamente Jon, a differenza di Daenerys, vera eroina politica, è un eroe morale: come il padre Ned Stark, non vuole costruire un mondo buono, vuole semplicemente essere lui il buono. Se però Ned, proprio a causa del suo scarso acume politico, perdeva la testa, Jon al contrario sopravvive. È chiaro che, se fossero stati all’opera i meccanismi machiavellici – e non moraleggianti – delle prime stagioni, un’eventualità di questo tipo sarebbe stata da escludere.

Cosa sarebbe successo? Verme Grigio avrebbe giustiziato Jon dopo un processo sommario o, più probabilmente, a trucidarlo sarebbero stati i Dothraki. In un famoso discorso nel sesto episodio della sesta stagione, infatti, Daenerys sceglieva tutti i Dothraki come “cavalieri di sangue”, che, nella tradizione del popolo a cavallo, sono tre guardie del corpo che consacrano la vita al Khal e a vendicarlo in caso di morte. Perché delle genti così poco pacifiche non eseguono la loro rappresaglia?

Ecco un’altra domanda: perché l’esercito della Khaleesi, il più forte del continente, decide di partire, per di più dopo vari mesi di tranquilla convivenza con gli assassini del suo comandante? La Storia ci viene in soccorso un’altra volta per sottolinearne l’implausibilità politica. Come Daenerys, anche Alessandro Magno morì inaspettatamente, senza eredi e con un grande impero sulle sue spalle. Ma, alla sua dipartita, i macedoni non pensarono neppure per un attimo al ritorno in patria dopo anni di sacrifici bellici. I generali di Alessandro si spartirono violentemente le terre conquistate, tentando ciascuno di fondare una propria dinastia. Quali scrupoli avrebbero trattenuto Immacolati e Dothraki dall’imporsi come classe dirigente su Approdo del Re e sulle altre città?

Anche la nuova forma della monarchia elettiva suggerita da Tyrion rappresenta un’anomalia politica ben poco funzionale. Storicamente i re elettivi, proprio perché non traggono la loro legittimità pubblica né da Dio né dalla tradizione dinastica né da una presunta volontà nazionale, bensì dal voto della nobiltà, sono sovrani deboli, ricattabili, privi di un reale potere. Erano elettivi gli imperatori del Sacro Romano Impero dal 1356, un’entità sempre meno politica e sempre più giuridica nel corso dell’età moderna, e lo erano anche i re della confederazione polacco-lituana dal 1573, la cosiddetta “repubblica nobiliare”, che, a causa delle divisioni interne e della fragilità dell’istituto monarchico, cadde presto vittima dell’anarchia e degli appetiti delle potenze straniere, sino alle dolorose spartizioni del Paese all’inizio e alla fine del Settecento.

Appare perciò politicamente nefasta già la prima risoluzione regia di Bran, quella di concedere l’indipendenza al Nord, ovvero l’unico territorio che potrebbe militarmente sostenerne il potere. A quel punto cosa impedirebbe agli altri Sei Regni, in particolare Dorne e le Isole di Ferro, di reclamare lo stesso status? Sul regno dello Spezzato sembra aprirsi un fosco futuro di lotte intestine, non dissimile da quelle che condussero alla guerra dei cinque re, se non persino peggiore. Non sarebbe difficile intravvedere la lunga mano della Banca di Ferro giocare un ruolo di primo piano nelle vicende interne di Westeros, sia per procurare al debole sovrano i fondi per le imprescindibili milizie mercenarie, sia per incidere sulla stessa elezione monarchica attraverso la sua influenza economica.

Se Tyrion, Jon e Bran assurgono a vincitori del gioco dei troni, esclusivamente in virtù della loro morale e nonostante la loro irrazionalità politica, in retrospettiva e non senza il gusto della polemica si potrebbe affermare che l’unica ad agire aderendo a un obiettivo politico razionale è la stessa Daenerys. Sì, persino quando dà alle fiamme la capitale, malgrado la presenza dei civili. Machiavelli consigliava al principe di farsi amare dai sudditi e di ricorrere al terrore e alla crudeltà solo in situazioni eccezionali. E quella che vive Daenerys, dopo aver salvato il Nord dalla minaccia del Re della Notte, non è forse una situazione davvero eccezionale? Gli alleati non le portano alcuna riconoscenza, anzi si rivoltano apertamente alla sua autorità, i consiglieri tramano per spodestarla con un altro sovrano, e il suo nemico storico non la giudica disposta a dispiegare il suo arsenale militare per paura di provocare vittime collaterali.

Daenerys è l’unica che pensa in modo razionale: ha perfettamente capito che solo un atto di puro terrorismo potrà incutere il rispetto di amici e nemici. Non ragiona come vorremmo noi moderni, e per questo finiamo per considerarla pazza. E non ragiona nemmeno come Tyrion o Jon, che noi abbiamo scioccamente creduto fossero uomini moderni calati in un’era medievale, come se il loro scopo fosse stabilire una democrazia rappresentativa, con un sistema pluralistico di partiti e una stampa libera. Non lo è mai stato, come abbiamo potuto poi constatare.

Soltanto Daenerys voleva e poteva rompere la ruota: il drago rappresentava l’arma di distruzione che avrebbe reso obsoleti le fortificazioni e i castelli della nobiltà, come fecero i cannoni dei re di Spagna, Francia e Inghilterra quando un potere prima disperso fra mille giurisdizioni locali si accentrò nella figura del monarca di antico regime.
L’onore? Devo governare sette regni! Non uno, un solo re per sette regni! Per te è l’onore che li fa rigare dritti? Credi che sia l’onore a mantenere la pace? È la paura! La paura e il sangue”, ricordava saggiamente re Robert Baratheon a Ned Stark nel quinto episodio della prima stagione. Alla fine dell’ottava, possiamo concludere che Daenerys è stata l’unica, sceneggiatori compresi, ad aver imparato la lezione.

* autore e amministratore della pagina Facebook Comunisti per Daenerys Targaryen – Pubblicato in Wired,

 

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