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Poggioreale: uno scatto, mille parole…

Uno scatto, spesso, ci dice più di tante chiacchiere, nella società del cicaleccio, infinito e volgare, dei media e dei social.

E la fotografia che pubblichiamo qui sopra, scattata dall’amico Cesare Abbatefotoreporter dell’Ansa, che, dietro nostra richiesta, ha concesso gentilmente i diritti a Contropiano – di cose ce ne dice tante.

Vediamo perché.

In queste ore, com’è noto, si sta registrando un numero sempre crescente di sommosse allinterno degli istituti di pena, da parte della popolazione carceraria. Rivolte dovute alla sospensione dei permessi e dei colloqui, per decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

Una misura, si dice dal Dipartimento e dal Ministero di Grazia e Giustizia, inevitabile, considerando la rapida diffusione del virus Covid-19.

Una disposizione che, però, non tiene conto, com’era largamente prevedibile, delle condizioni di vita, ai limiti dell’inumanità, in cui versa la maggior parte dei detenuti nelle carceri italiane.

Ciò, malgrado l’ipocrisia e la malafede italica consentano, alle autorità politiche e giudiziarie di questo sciagurato paese, di ergersi su un pulpito che non gli compete, a decantare il sistema penale e detentivo nazionale, paragonabile, a loro modo di vedere, ad una quasi vacanza se messo a confronto, per esempio, con le galere cubane o venezuelane. Nulla, ovviamente, di più falso!

Basterebbe leggere libri come “Cella Zero” di Pietro Ioia; o “Correvo pensando ad Anna” di Pasquale Abatangelo; o ancora “Compagna Luna” e “Cronaca di un’attesa” di Barbara Balzerani (ex detenuti: il primo per reati comuni, gli altri due per ragioni politiche) per rendersi conto delle reali condizioni di vita all’interno delle nostre carceri.

Per comprendere quanto le patrie galere assomiglino più a cloache e lazzaretti, che a moderi sistemi rieducativi, il cui scopo sia il reinserimento sociale del condannato.

Lager, in molti casi, dove alla vessazione, all’avvilimento psicologico e alla spersonalizzazione di pene detentive in regime di Alta Sicurezza, quando non di completo isolamento o di 41 bis – istituto giuridico approvato in violazione dei diritti umani, da un paese che ha fatto dell’emergenza e dello stato d’eccezione una regola, soprattutto con l’obiettivo di stroncare sul nascere ogni palpito di conflitto sociale e di insorgenza contro la governance neoliberale, e per l’adozione del quale l’Italia è stata condannata dall’ Alta Corte di Strasburgo – si sommano le punizioni corporali inflitte, con sadico godimento nazista, da guardie penitenziarie e gruppi scelti, deputati a massacrare e reprimere, con ogni mezzo, qualunque seppur flebile vagito di semplice e umana insofferenza si manifesti dietro le sbarre.

Come i famigerati Gom (Gruppo Operativo Mobile) istituiti, durante il Governo D’Alema – se si pensa alla definizione “di sinistra”, ci sarebbe da ridere – da uno dei peggiori Ministri della Giustizia che la Repubblica annoveri: il prima rifondarolo, poi cossuttiano e comunista italiano, Oliviero Diliberto.

Gruppi Operativi solerti nell’uso indiscriminato ed intimidatorio della violenza, su detenuti e detenute. Una vergogna che ancora grida vendetta!

Una vergogna surclassata però – non c’è mai limite al peggio – dall’attuale Guardasigilli: il pentastellato Alfonso Bonafede.

Il quale, con l’arroganza tipica di chi è al guinzaglio dei potenti, condannando le rivolte, ringrazia per la pronta repressione, messa in campo nelle carceri dalle “eroiche” forze di polizia.

Eroi che hanno probabilmente lasciato, sul selciato insanguinato della casa circondariale di Modena, ben sette morti. Le autorità e la stampa mainstream parlano di overdose da farmaci, ma è bene dubitare molto delle informazioni di regime; soprattutto in questi casi.

Gli istituti di Salerno, Napoli, Frosinone, Roma, Rieti, Prato, Bari, Modena, Alessandria, Palermo, Melfi, e altri ancora, in queste ore sono focolai di sommossa. E alcuni sono addirittura in mano ai detenuti.

Mentre ieri, a Foggia, si è registrata un’evasione di massa, di circa sessanta prigionieri. Di cui ventotto sarebbero ancora in fuga.

Tutto ciò, perché chi vive in carcere chiedeva – certo con la comprensibile rabbia di chiunque si veda defraudato dei propri diritti elementari – tutela sanitaria, oltreché poter continuare ad avere un minimo di rapporto affettivo con i propri cari.

Una richiesta negata, invece, da chi si sente investito, quasi per autorità divina, del ruolo di sorvegliante e controllore biopolitico di corpi e intelligenze. Che siano quelle di normali cittadini o di cittadini detenuti.

Esseri senzienti, su cui esercitare, indiscriminatamente, un potere che esonda, di fatto, dai propri compiti di governo. Per sconfinare nell’indefinito regno della colpa trascendente e della punizione, corporale ed intima, in ottemperanza ad un fanatico principio di Legge. Ma mai di Diritto!

Un sovrapprezzo, brutale ed aberrante, che va ad aggiungersi, come si diceva, ad una condizione esistenziale, dietro le sbarre, di per sé già sottoposta ad un terroristico annichilimento soggettivo.

Nulla giustifica, infatti – a parere di chi scrive – neanche il coronavirus e la paura del propagarsi del contagio, ulteriori restringimenti alle già neglette e ridotte condizioni di vita di persone che (per quanto responsabili di reati, secondo i codici della società borghese) restano pur sempre cittadini ed esseri umani dotati di diritti.

Va inoltre considerata la totale assenza di logica, cui si associano ipocrisia e malafede, di provvedimenti restrittivi che verrebbero adottati in istituti di pena le cui celle si distinguono per sovraffollamento e, di conseguenza, in un ambiente fisiologicamente saturo di agenti patogeni e suscettibile a facile contaminazione virale, per un’innumerevole serie di pratiche anti-igieniche. E mi voglio fermare qui, perché ci sarebbe anche dell’altro, com’è purtroppo e tristemente noto.

Ci sembra un paradosso. Una presa in giro. A chi già si trova in condizioni tanto precarie, sul versante esistenziale, non si possono togliere anche le visite dei propri cari e dei parenti più stretti.

Lo si fa per tutelare i detenuti? Non ci crediamo. Crediamo, viceversa, che lo si faccia nell’esclusivo interesse del personale carcerario.

Oltre che per mera inclinazione alla repressione, sempre più dura. D’altra parte, basterebbe leggere le delibere emanate dal Dipartimento dell’Amministrazione Carceraria in questi giorni, per rendersene conto.

Se proprio, invece, si volesse tutelare la popolazione detenuta, comprensiva dei propri familiari, la si potrebbe sistemare in strutture adeguate.

Procedere alla repressione sbirresca e sanguinaria di legittime proteste e rivolte, causate dall’assunzione sconcertante di insensate e insostenibili misure, è, piuttosto, l’ atteggiamento tipico di un regime autoritario.

La reazione rabbiosa di uno Stato di polizia. La plastica rappresentazione di una società disciplinare e securitaria, qual è di fatto ormai quella italiana.

La palese dimostrazione che tra Capitalismo, Stato d’eccezione e paradigma repressivo, esiste un’inscindibile relazione.

E allora, tornando alla splendida foto di Cesare Abbate, quello scatto – preso sotto il cielo uggioso di Napoli, all’esterno del carcere di Poggioreale – quello scatto ci racconta tutto questo. E altro ancora.

Ci racconta della violenza dell’istituzione penitenziaria e della rabbia dei prigionieri. Di Napoli e della sua poesia marginale. Del territorio intorno al carcere. Della tristezza dell’emarginazione e della insopportabile condizione di solitudine che vivono i reclusi. Dell’insopprimibile desiderio di libertà e di contatto che nutre chiunque di noi.

Nella cupezza di un clima che narra di una realtà distopica; avvolti nell’universo del Tempo immobile; soffocati da un deserto di emozioni sabbiose e in bianco e nero; oppressi dalla crudeltà della galera; riflessi spezzati nello specchio di una società disciplinare che li vorrebbe dimenticati e silenziati, magari morti oltre che reclusi; i detenuti della foto diventano ombre amletiche che si ribellano alla violenza dell’emarginazione discriminante e disumanizzante, imposta col manganello e la morale, dal consesso civile dei “buoni”.

Quei detenuti, ritratti da Abbate, rappresentano l’immagine archetpica dell’ urlo di libertà. Un urlo nel vento del crepuscolo. Un urlo che solo l’albero antistante il carcere sa accogliere.

Un urlo, cui può fare eco un’unica, inderogabile soluzione. L’Amnistia Sociale.

* La foto di Cesare Abate, in apertura, è ovviamente dell’Ansa 

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1 Commento


  • Paolo De Marco

    Mi permetto di menzionare il capitolo 5 intitolato « Accoglienza, prigioni e sfruttamento degli migranti », in http://rivincitasociale.altervista.org/litalia-alle-prese-con-le-migrazioni-moderne/ . Le cose sono peggiorate sin dalla scrittura di questo saggio anche per causa del malfunzionamento cronico e a volta poliziesco-mafioso del nostro sistema giudiziario, e per colpa delle varie leggi dette di sicurezza, tra le quali quelle di Minniti e di Salvini. Aggiungo che la legge sulla re-inserzione sociale non è messa in atto, una cosa indegna di paese civile.
    Paolo De Marco

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