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Se fossimo a scuola

Stamane mi sono svegliato con questo pensiero in testa.

E se fossimo a scuola?

Se per qualche misterioso motivo le scuole fossero rimasti gli unici luoghi sicuri, gli unici anfratti protetti, in cui il virus non avesse potuto entrare ed attaccare?

Se per un puro gioco del se, la scuola avesse potuto continuare ad esistere, ad accogliere, a riunire, davvero noi avremmo continuato a fare come se nulla accadesse fuori, come se nulla accadesse intorno, nel mondo reale, davvero avremmo continuato a fare le nostre “lezioni” e a dare i nostri “compiti” come se niente fosse?

Davvero avremmo continuato a entrare in “prima A” ognuno per conto suo, ognuno pensando alla “sua classroom”, andando avanti con il programma, come da libro di testo?

Perché è questo, mi pare, che sta accadendo.

Mitighiamo, mi sembra che stia accadendo soprattutto questo.

La scuola che difende se stessa, che difende la sua parte meno creativa, la sua identità più trasmissiva, mascherata dall’uso di tecnologie che assolda come scudi che le consentono di rimanere in vita, costi quel che costi.

Mi rattrista questa scuola, perché la scuola è da quasi quarant’anni la mia seconda casa.

Sì, perché faccio di mestiere l’insegnante, che prima e soprattutto dovrebbe essere educatore.

Ma allora davvero dobbiamo continuare sulla strada imboccata?

Davvero dobbiamo passare le giornate a imparare ad usare “le nuove tecnologie” per salvare i compiti dei nostri ragazzi e delle nostre ragazze?

Davvero dobbiamo pensare a questo inesistente “programma”?

Possiamo cambiare programma?

Penso che la scuola in questo momento dovrebbe cercare le strade per “prendersi cura” dei propri figli, dei nostri figli, che vuol dire osservarli, ascoltarli, accompagnarli.

Dovrebbe farlo, certo, usando le tecnologie.

Ma le tecnologie non sono neutre: possono essere usate per diverse finalità.

La scuola dovrebbe in questo momento saper essere più che “saper fare”, dovrebbe ripensare il suo lessico, le sue parole chiave, cercandole in una visione pedagogica che ponga al centro le visioni della crisi e del possibile.

Soffro ogni giorno nel vedere questa proliferazione di didattica e di didattiche: è di pedagogia che abbiamo bisogno!

Come la scuola può affrontare la paura?

Sì, perché i nostri figli e le nostre figlie in casa oggi respirano paura, la paura di noi genitori, dei nonni, dei telegiornali, della televisione.

“Andrà tutto bene”, diciamolo e disegniamolo, certo, esponiamolo alle nostre finestre e condividiamolo nelle nostre bacheche virtuali; ma vogliamo anche pensare che nulla sarà come prima? Possiamo provare ad immaginare a come sarà il mondo dopo? Cosa sarà peggio? Cosa sarà meglio? Oh sì, certo, perché sono sicuro che molte cose saranno anche meglio. Ma quali ad esempio?

“Andrà tutto bene”, sicuramente, ma vogliamo parlare un poco di morte? Perché stanno morendo a migliaia là fuori. Lo so che succedeva anche prima, in altri posti del mondo e che continua a succedere per cento altre ragioni che non sono il virus, ma i nostri figli e le nostre figlie lo vivono sulla loro pelle solo ora, lo respirano ora, ogni santo giorno.

E la scuola cosa fa? Continua a restare chiusa, a fare video lezioni in cui si va avanti a studiare Carlo Magno e a esercitarsi con le espressioni di primo grado.

Possiamo invece chiederci come le tecnologie possono aiutarci a “prenderci cura” di figli e figlie?

Da insegnante di Musica, da qualche giorno mi chiedo quale possa essere l’effetto di vivere in una città in cui le impronte sonore sono diventate le sirene delle ambulanze, trasformate da suono eccezionale a paesaggio sonoro spaventosamente familiare. Non lo so, vivo in collina e il mio paesaggio sonoro non è cambiato quasi per nulla.

Se fossimo a scuola, invece, quel suono continuerebbe ad entrare, volenti o nolenti, scavalcherebbe i recinti, trapasserebbe le mura, i registri, i computer; e disturberebbe, in un modo assordante, tutto ciò che avremmo voluto fare, seguendo il nostro libro di testo.

E ci cambierebbe.

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