Menu

No, questa non è scuola

Dal 23 febbraio nelle regioni del Nord e dal 6 marzo in tutta Italia, all’impossibilità di proseguire con le consuete attività didattiche, essendo, con tutta evidenza le scuole luoghi ad altissimo rischio di diffusione del Covid 19, la scuola italiana ha risposto con la messa in atto della Didattica a Distanza (DAD).

All’inizio su iniziativa di qualche docente o di qualche scuola più attrezzata delle altre, come il Liceo Tosi di Busto Arsizio, liceo d’élite ricco di mezzi e di risorse in provincia di Varese, poi in modo sempre più ufficiale, dietro indicazione del Dicastero dell’Istruzione, la DAD è divenuta la modalità didattica con cui si sta svolgendo nei fatti l’anno scolastico e con cui esso probabilmente si chiuderà.

Sin dal primo DPC varato per l’emergenza la didattica a distanza viene indicata dal governo come modalità di gestione dell’emergenza per le istituzioni educative di ogni ordine e grado. Mano a mano che l’emergenza si allargava all’intero paese, si allungava nel tempo e si riduceva sempre di più la libertà di movimento delle persone, il Ministero dell’Istruzione ha emanato una serie di note e decreti rendendo la DAD un obbligo, per cui si è passati dall’affermare che fosse necessario favorire il diritto all’istruzione, ove possibile, “attraverso modalità di apprendimento a distanza”,  a dire il 6 marzo nelle note successive che “i dirigenti scolastici organizzano le attività necessarie concernenti […] la didattica a distanza” e che per assicurare il diritto allo studio degli studenti è necessaria la “declinazione in modalità telematica degli aspetti che caratterizzano il profilo professionale docente”, affidando alla funzione dirigenziale dei presidi la sua organizzazione, con un’accezione molto ampia e vaga di cosa si intenda per DAD (collegamento diretto o indiretto, differito o in contemporanea, uso di piattaforme, persino di social).

Infine pare che il nuovo decreto, molto annunciato e commentato, da ieri finalmente in Gazzetta, affermi che i docenti assicureranno la DAD eventualmente anche l’anno venturo, se si prolungasse l’emergenza, facendo pesare l’obbligo direttamente sulle spalle dei docenti, senza la mediazione dirigenziale.

Diversi commentatori e colleghi hanno messo in luce, anche sulle pagine di questo giornale, i limiti pedagogici della a DAD: le difficoltà relazionali, il rischio di accentuare in modo univoco la frontalità della lezione, la tendenza a creare dei “prodotti didattici” fatti e finiti, perdendo tutto quell’aspetto di processo che è proprio del rapporto educatore-educando, la mancata attenzione ai soggetti più fragili.

Potrebbero poi essere sottolineati anche i rischi legati alla salute di una attività educativa svolta per molte ore al giorno davanti al video, ma in questo articolo vorrei provare a leggere la questione da un diverso punto di vista, quello istituzionale, perché alla prova dei fatti, il Ministero si sta mostrando completamente inadeguato al suo compito di indirizzo e guida dell’azione di scuole, Dirigenti e docenti e, alla luce di quanto proverò ad argomentare, questa è una cosa che ci dovevamo aspettare.

Nei fatti nessuno dei provvedimenti adottati dal MIUR dice con chiarezza quali siano le modalità, i limiti, le condizioni adeguate per svolgere questa didattica, che è per la stragrande maggioranza dei docenti e degli studenti una novità assoluta e una novità pedagogicamente e organizzativamente molto rischiosa.

Nessuna reale specifica su come sia più opportuno lavorare è stata fatta per le diverse età degli alunni, per gli studenti disabili o con difficoltà, se non vaghi richiami alla personalizzazione e alla individualizzazione; nulla è stato detto su quegli alunni che vivono in condizioni di disagio socio-economico.

Si stanziano fondi per adeguare le strumentazioni delle scuole, ma non di danno indicazioni chiare su come intervenire nelle comunità scolastiche dove sono presenti sacche di disagio o per quei casi che vivono particolari difficoltà.

Questo, in un paese in cui i dati ISTAT più recenti1 dicono con chiarezza che il 14,3% delle famiglie con un minore non ha computer o tablet in casa, che nel mezzogiorno il 41,6% delle famiglie è senza computer (rispetto a una media di circa il 30% nelle altre aree del Paese) e solo il 14,1% ha a disposizione almeno un computer per ciascun componente.

Parliamo di 470 mila ragazzi nel mezzogiorno senza strumentazione informatica adeguata. Oltre un quarto delle persone peraltro vive in condizioni di sovraffollamento abitativo, la quota sale al 41,9% tra i minori. Di fronte a condizioni di questo tipo, non si può pensare che la DAD garantisca in alcun modo il diritto allo studio di tutti, a meno di investire nella costruzione di una piattaforma pubblica e di garantire il Wi-Fi gratuito in tutte le case.

Questo chiaramente significherebbe riportare sotto il controllo del pubblico, ovvero nazionalizzare, le infrastrutture di questo paese, tra cui le reti telefoniche e telematiche. Già considerando questo aspetto, emerge con chiarezza come la soluzione di questa crisi, nella scuola, come in altri ambiti sociali, sta nello Stato, nel pubblico, in scelte che solo pochi anni fa nessuno aveva il coraggio di provare nemmeno a ipotizzare e che oggi sembrano le uniche possibili.

Nei fatti il Ministero non sta governando la grave situazione di emergenza in cui si trovano studenti e docenti e ben poco servono i ripetuti ringraziamenti della Ministra o i toni da libro Cuore adottati nelle missive indirizzateci. Le responsabilità e il peso di un contesto assolutamente fuori dalla norma sono scaricate sui lavoratori e sugli studenti.

D’altronde l’incapacità di gestione della crisi sembra il minimo comun denominatore di tutti i governi dei paesi a cosiddetto capitalismo avanzato. Lo sfascio della sanità progressivamente privatizzata è sotto gli occhi di tutti, le pressioni di Confindustria per la non chiusura delle attività produttive non essenziali e le evidenti pressioni per la loro riapertura, in spregio della salute dei lavoratori, mettono in luce con inedita chiarezza il peso del mercato, la priorità del profitto sull’essere umano che caratterizzano le scelte politiche dei governi occidentali.

La scuola è solo un’altra gamba di quello stato sociale che viene smantellato con costanza da decenni in favore del mercato, ad essere esposta a questa emergenza senza essere sostenuta da alcun governo della cosa pubblica. Anzi, il privato lucra anche sulla pandemia, basti pensare allo spopolare delle piattaforme di proprietà delle grandi multinazionali dell’ICT per la Didattica a Distanza.

L’impressione complessiva è dunque quella della mancanza di governo, mascherata da molte parole prive di reale contenuto. Un’assoluta incapacità di pianificare e affrontare la situazione. Quest’assenza di capacità di pianificazione nell’affrontare l’emergenza è la conseguenza diretta dell’aver abbandonato ogni politica scolastica nazionale pubblica, schiacciandosi sulle politiche scolastiche di un’Unione Europea che ha puntato tutto sul mercato, sulle competenze professionali da sviluppare, sulla costruzione di futuri cittadini flessibili e adattabili alle esigenze delle imprese.

Fin dai Tempi del Libro Bianco sull’Istruzione curato dall’allora commissaria delegata per la formazione e la cultura, Édith Cresson, pubblicato dalla Commissione Europea nel 1995, le politiche UE affidano ai sistemi scolastici il compito di dare risposte alla domanda economica ed hanno in mente la formazione del futuro lavoratore e la costruzione di un curricolo funzionale all’utilità del mercato.

D’altro canto l’OCSE fin dal 2001 ha chiarito che non tutti possono avere una carriera nel dinamico settore della “nuova economia”. Per questo i programmi scolastici non devono essere concepiti come se tutti dovessero andare lontano. Una scuola per il mercato, per il profitto, non per la crescita umana e l’emancipazione degli esseri umani.

A questo modello di scuola si è piegato il governo italiano, incrementando le disuguaglianze, le distanze tra scuole del centro e della periferia, tra le zone avanzate e quelle arretrate del paese, tra scuole funzionali al mercato e scuole non funzionali ad esso, tra scuole d’élite e scuole per i figli dei ceti subalterni. Un modello di questo tipo non è in grado di pianificare una risposta collettiva, statale, pubblica, di tutti e per tutti a una crisi come quella che stiamo affrontando.

Così la “Non risposta” del MIUR incrementa le disuguaglianze, ignora i deboli, non si pone questioni pedagogiche essenziali, non pianifica il futuro.

Quello che dovremmo pretendere e riprenderci è la scuola pubblica e statale, una visione collettiva di quella che è una parte essenziale di una democrazia che si pretende avanzata: l’istruzione per tutti e tutte, il diritto allo studio affermato dalla costituzione, la presa in carico dei bambini e dei giovani di questo paese da parte di un governo disposto ad investire nella pianificazione della situazione attuale e di quella futura, che potrebbe prevedere tempi lunghi per il ritorno alla normalità.

Quello che dobbiamo pretendere è una gestione statale e solo statale della scuola, la priorità dei diritti della collettività rispetto agli interessi di chi ha lucrato e lucra sulla scuola, perché questa, no, non è proprio la scuola che vogliamo!

*insegnante

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

4 Commenti


  • Un insegnante vero

    Direi piuttosto che “questa non è scuola”. Punto e finita lì.
    Il porta a un quesito importante che vi invito a porvi: se non è scuola, che cos’è?
    Dal primo quesito ne deriva un secondo, non meno importante: definito cos’è, quali sono le sue VERE funzioni e finalità?
    Mi piacerebbe leggere le vostre risposte.


  • Un Insegnante Vero

    Vedo che di risposte non ne arrivano. Incoraggiante, non c’è che dire.
    Si danno tre casi: 1) nessuno legge queste pagine oppure 2) non c’è chi abbia alcun che da dire o, ancora, 3) non c’è chi sappia cosa rispondere. Spero caldamente che la prima ipotesi sia quella reale, perché diversamente… Be’…


    • Redazione Contropiano

      Ci dispiace informarti che, purtroppo, valgono la seconda e terza ipotesi. Nel mese di marzo abbiamo avuto 2,5 milioni di lettori…


  • Un Insegnante Vero

    “Incoraggiante”. Ovviamente ho alcune ipotesi tutte mie, ma trattandosi di ipotesi non verificabili preferisco non esporle. Vi dico solo che non si tratta di ipotesi tali da poter essere ottimisti. Riporto anche una testimonianza: la nostra categoria si sta dimostrando supina e in un modo impressionante, accettando ogni cosa e prestandosi senza un fiato all’implementazione dei progetti più devastanti. I sindacati, attivi a intermittenza a seconda delle casacche indossate dal governo, sembrano essere ora morti e sepolti — quelle poche volte che fan sentire la propria voce lo fanno per interessi “altri” rispetto a quelli dei lavoratori (anche i genitori sono lavoratori, e i loro figli lo saranno in massima parte).

    Ringrazio la redazione per la risposta. Spero che la mia ulteriore replica possa stimolare un dibattito almeno “a distanza”, con interventi più numerosi e diversificati che si rivelino magari preliminari a qualche presa di posizione concreta. Temo sia una pia illusione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *