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La “didattica a distanza” di Alberto Manzi

In tempi in cui si discute molto di Didattica a distanza può essere interessante ricordare chi, in Italia, ne fu il più noto iniziatore, il maestro Alberto Manzi.

Di Alberto Manzi viene spesso offerta un’immagine naïf, quella del maestro elementare che, sollecitato dal suo direttore didattico, decide di presentarsi, nel 1960, a un provino della RAI, per condurre una trasmissione che diventerà storica: Non è mai troppo tardi.

Si tratta di un’immagine sbagliata. Alberto Manzi, nel 1960, era già un intellettuale importante, di grande cultura ed erudizione. Infatti, Manzi aveva ottenuto un premio Collodi nel 1948, per il suo romanzo Grogh, storia di un castoro, e in seguito, nel 1955, pubblicato il più noto Orzowey. Entrambi i libri furono tradotti in decine di lingue.

Titolare di due diplomi, uno d’istituto magistrale e un altro d’istituto nautico, e di due lauree, in biologia e in filosofia, Manzi era stato assistente di Luigi Volpicelli alla facoltà di Filosofia. Successivamente si era specializzato anche in Psicologia per arrivare a dirigere, nel 1953, la Scuola Sperimentale dell’Istituto di Pedagogia della Facoltà di Magistero de La Sapienza.

Inoltre, a partire dal 1955, Manzi iniziò a frequentare l’America Latina, inviatovi come biologo naturalista per svolgere studi in Amazzonia, dove ben presto, però, volse l’attenzione alla passione della sua vita: l’insegnamento.

Sino alla metà degli anni ottanta, Manzi continuò a recarsi regolarmente in Sudamerica per fare alfabetizzazione ma anche per aiutare i contadini a formare cooperative e associazioni contro lo sfruttamento, tanto che, accusato di essere un “guevarista” in contatto con i ribelli, fu arrestato e incarcerato. Dall’esperienza in Sudamerica nacquero altri quattro romanzi, La luna nelle baracche (1974), El loco (1979), E venne il sabato (2005), Gugù (2005).

Se Manzi, in seguito, tornò a insegnare nella scuola elementare, fu quindi per la sua libera scelta di fare educazione in prima fila e di lavorare quotidianamente con i bambini. Una scelta che, in Italia, hanno compiuto anche altri grandi educatori, primo tra tutti Mario Lodi.

La passione per l’insegnamento di base, anche “ difficile” Manzi l’aveva acquisita attraverso l’esperienza condotta negli anni immediatamente successivi alla guerra nel carcere minorile “Aristide Gabelli” di Roma, dove si era trovato a insegnare, praticamente senza nemmeno sedie e banchi, a novantaquattro giovani detenuti. Alla ricerca di un modo per entrare in comunicazione con tali giovani, li aveva affascinati con la storia di un gruppo di castori in lotta per la loro libertà.

Quella storia, da cui in seguito ebbe origine il già citato Grogh, storia di un castoro, fu messa in scena dai giovani detenuti in una memorabile esperienza teatrale. Sempre all’interno del carcere minorile, Manzi fondò con i suoi allievi anche un giornale dell’istituto: La Tradotta.

Il Manzi che nel 1960 si presentò al famoso provino della RAI era quindi un intellettuale formato e un pedagogista innovatore con una solida esperienza d’insegnamento. Forse, proprio da tale esperienza venne la scelta di Manzi di rifiutare il copione che gli fu proposto (una soporifera lezione sulla lettera ‘O’), e di improvvisare a braccio una lezione aiutandosi con dei disegni tracciati di getto su dei grandi fogli di carta.

La RAI dei primi anni sessanta era molto diversa da quella d’oggi: esisteva un solo canale in bianco e nero che trasmetteva dal pomeriggio a mezzanotte. Una RAI tradizionalista e bigotta, dove una squadra di censori graffiava con dei punteruoli i dischi ritenuti osceni o politicamente sconvenienti. Non per caso, le canzoni di De André erano vittime abituali del punteruolo.

Era però anche una RAI che non aveva ancora rinunciato ad avere un ruolo sociale e di promozione culturale, dove le trasmissioni divulgative ed educative erano numerose. Non è mai troppo tardi fu una di tali trasmissioni, nata per condurre una grande campagna di alfabetizzazione a distanza in un’Italia dove molti cittadini non sapevano leggere e scrivere.

Secondo Tullio De Mauro, ancora nel 1955 soltanto il 18% degli italiani usava abitualmente l’italiano e il 20% era vincolato al monolinguistmo dialettale. Tra i due estremi stava la grande maggioranza, che praticava l’italiano nelle occasioni importanti o burocratiche, usando invece il dialetto come lingua della vita reale, pratica e affettiva, quindi nei momenti più veri e intimi. 1

Le puntate di Non è mai troppo tardi andavano in onda nel tardo pomeriggio, per favorire la partecipazione dei lavoratori, e duravano circa un’ora. Manzi disponeva di quanto la tecnologia più moderna dell’epoca potesse offrirgli.

Tuttavia, ciò che è rimasto famoso è stato il suo metodo semplice ma geniale di condurre le lezioni accompagnandole con dei disegni a carboncino che tracciava in diretta (qualche filmato si trova oggi nel sito youtube). La tecnica di Manzi era quella di non far capire subito cosa stava disegnando, ma di condurre a scoprilo gradualmente, in modo da tenere desta la curiosità degli allievi.

Ancora oggi, di fronte a tante lezioni super digitalizzate, l’immediatezza comunicativa dei disegni di Manzi resta un esempio di come si possa fare scuola efficacemente con metodi semplici.

Nonostante le grandi capacità pedagogiche e affabulatorie di Manzi, il suo lavoro sarebbe stato probabilmente inutile se limitato all’intervento televisivo. Lo stesso Manzi si definiva “il pupazzo televisivo” che più che insegnare a leggere e scrivere, invogliava le persone ad avere desiderio di farlo. Infatti, Non è mai troppo tardi non avrebbe avuto alcun impatto effettivo senza la presenza dei 2000 maestri e maestre che conducevano i gruppi d’ascolto.

Tali gruppi d’ascolto erano in pratica delle classi che si riunivano per la trasmissione e in seguito si esercitavano sotto le guida di quei 2000 insegnanti che oggi chiameremmo forse tutor. Questo fatto è significativo per comprendere l’importanza che ha, in un progetto a distanza, la mediazione di una figura reale di riferimento; senza i maestri dei punti d’ascolto il milione e mezzo di italiani che presero la licenza elementare seguendo Non è mai troppo tardi non sarebbero andati lontano.

L’ultima puntata di Non è mai troppo tardi andò in onda il 10 maggio 1968, proprio mentre gli studenti parigini lanciavano la scintilla della rivolta che avrebbe coinvolto tutta Europa. Non si tratta di una coincidenza casuale: negli otto anni trascorsi dal 1960 la scolarizzazione di massa aveva portato nelle scuole e nelle università giovani di origine popolare che si erano anche resi conto della natura di classe di quelle istituzioni e che vi si ribellavano. Lo stesso processo aveva reso inutili i grandi progetti di alfabetizzazione degli adulti.

Alberto Manzi, in tutti gli otto anni della trasmissione, rimase un insegnante statale “distaccato” alla RAI, percepì sempre lo stipendio del ministero, aumentato di una singolare “indennità di camicia” di 2.000 lire a trasmissione per ripagarlo dell’usura delle camicie bianche che si rovinavano a contatto del carboncino da disegno. Chiusa l’esperienza di Non è mai troppo tardi, Manzi tornò a insegnare nella scuola statale.

Proprio durante la continuazione del suo impegno nella scuola avvenne, anni dopo, un fatto che può essere esemplare rispetto alla valutazione compulsiva della scuola–azienda di oggi. Per ben tre anni scolastici, dal 1978 in poi, Manzi si rifiutò di compilare i giudizi analitici degli allievi contenuti nella scheda di valutazione che aveva sostituito la vecchia pagella.

La motivazione era profondamente pedagogica: “Non è mio dovere parlare della vita del ragazzo, della sua partecipazione individuale alla scuola (eventualmente dovrei dire io quanto sono stato capace di farlo partecipare o meno a questa vita); non è mio dovere (e non rientra nelle mie capacità analitiche) dare un giudizio relativo al comportamento psicologico dell’alunno. Credo sia mio diritto, oltre che mio dovere, in difesa dei fanciulli stessi, di non compilare delle schede che risulterebbero false”.

Inoltre, Manzi riteneva che il giudizio non potesse rappresentare un bambino, in continua evoluzione e cambiamento, con il rischio di fare una fotografia statica di ciò che in realtà è cangiante.

Per quella sua posizione, nel maggio 1981 Manzi fu sospeso dall’insegnamento con dimezzamento dello stipendio e ritardo di due anni nella carriera contributiva. Una sanzione molto pesante, rispetto alla quale Manzi propose una mediazione: avrebbe compilato i giudizi ma usando un timbro uguale per tutti, che portava la frase: “Fa quel che può, quel che non può non fa”. Il provveditorato non accettò l’idea di un giudizio timbrato e Manzi rispose che avrebbe scritto quel giudizio a mano.

Chi conosce la storia della scuola italiana degli ultimi decenni ha ben presente le lunghe e stucchevoli vicende delle tante diverse schede di valutazione che si sono succedute a più riprese. Praticamente ogni ministro ha scodellato una nuova o “nuovissima” scheda di valutazione, qualcuno inventò persino il “portfolio” (ma che parola è?) delle competenze, tutte accompagnate da corsi di aggiornamento, articoli e pubblicazioni, sino alla infausta reintroduzione del voto numerico.

La frase di Manzi resta quindi un riferimento per tanti insegnanti che di fronte all’ossessione valutativa dei nostri giorni, preferiscono una scuola non selettiva dove tutti siano accettati per le loro capacità.

1 I dati sono tratti da: Tullio De Mauro: “Per lo studio dell’italiano popolare unitario” in Annabella Rossi: Lettere da una tarantata, Bari, De Donato, 1970, pag. 43-75.

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4 Commenti


  • Eliana

    Un articolo molto interessante, con molte informazioni utili per chi quel periodo non lo ha vissuto.


  • Aldo S.

    Mia nonna (e in parte anche mia madre) si sono alfabetizzate con Alberto Manzi; io ho imparato a scrivere – per merito suo – mentre stavo ancora all’Asilo! 🙂


  • angela zaccheroni

    Grazie per questo articolo, cosa mi avete fatto ricordare…Ho imparato a leggere grazie al maestro Manzi prima di compiere quattro anni, correvo su dal cortile per vedere Non è mai troppo tardi perché mi piaceva tanto vedere il maestro che faceva i disegni. Un giorno mio papà mi prese in braccio e aprì il giornale, e io cominciai a leggere un titolo… lui chiamò la mamma, vieni, corri! La bambina sa leggere! Così seppi che avevo imparato a leggere, a mia insaputa.
    Ahhh che bello, grazie ancora
    Angela


  • Francesca Scalzo

    Ho avuto il piacere e l’onore di conoscere questa persona straordinaria, mia sorella disabile alla fine degli anni 60 è stata inserita in una scuola primaria i fratelli Bandiera, dove insegnava Manzi, si distinse dall’inizio per la sua intelligenza, empatia, umiltà e accoglienza, difatto l’unica persona che accolse mia sorella senza nessun pregiudizio. Se ne .occupava anche se non era il suo insegnante.. In quegli anni l’integrazione dei disabili era una battaglia…. Un grande pedagogista che la scuola italiana non ha saputo valorizzare…….

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