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Covid 19, lockdown e patrimonio culturale. Il colpo finale

Negli ultimi giorni, nel pieno delle discussioni per mettere un freno alla crisi post Covid-19, ovvero a quella che passerà alla storia come la più grave dalla Grande depressione del 1929, non sono mancati, tra i tanti, gli appelli per una ripresa delle attività culturali e una riapertura di luoghi come biblioteche e musei.

Qualcuno nel farlo ha solennemente affermato: la cultura è cibo per la mente. Per ciò che concerne i musei (e le biblioteche), il Governo ha indicato la data del 18 maggio. Qualcuno potrebbe pensare che le riaperture dei musei, e il patrimonio culturale in genere, possano contribuire alla ripresa italiana come è avvenuto negli ultimi anni, dopo la crisi economica e di consumi partita nel 2011, quando l’Italia fu raggiunta indirettamente dalla crisi generata bolla speculativa finanziaria statunitense del 2006.

Occorre sottolineare che le due situazioni non sono assolutamente paragonabili. Sebbene entrambe siano conseguenza di una crisi dei consumi, quella che ci attende ha delle dinamiche decisamente diverse. L’Italia ha sfruttato, in questi precedenti anni di crisi, una congiuntura ad essa favorevole: nonostante l’allarme terrorismo a livello internazionale abbia generato un calo anche nei consumi turistici e conseguentemente culturali, il nostro Paese, considerato sicuro, ha sottratto piccole fette di mercato a destinazioni meno sicure.

Il patrimonio culturale, insieme al sole e al mare, è stato un asset importante di questa parziale ed effimera ripresa. Oggi è evidente che non potrà esserlo, considerando che la mobilità interna e il turismo incoming sono, e saranno, estremamente condizionati dalla pandemia e dalle restrizioni imposte dalle norme per il contenimento dei contagi. Indebolimento generalizzato delle capacità di spesa, indebitamento e aggressione ai risparmi, riduzione degli spostamenti singoli e soprattutto in gruppo, ingressi contingentati e misure di sicurezza, aumento dei costi di beni e servizi e, non da ultimo, la paura del contagio, sono tutti deterrenti alla ripresa del turismo e dei consumi culturali.

In particolare, i musei sono luoghi chiusi con assenza di sistemi di areazione naturale, per ovvi motivi di conservazione delle opere: quanti di noi, con l’arrivo della bella stagione e con l’invito pedante ad evitare luoghi chiusi, opteranno per una visita al museo?

In tutto questo le perdite per lo Stato sono evidenti. Secondo la Direzione generale Musei del Ministero dei Beni culturali e del Turismo, il lockdown ha causato ai musei una perdita netta di circa 20 milioni di euro al mese, della quale un buon 90% deriva dalla soppressione delle entrate di biglietteria e, per la restante parte, dei servizi accessori.

È questa, sicuramente, la motivazione tutta “economica” che ha spinto il ministro Franceschini, dopo settimane di silenzio, ad annunciarne trionfalmente la riapertura.

Occorre ribadire, però, che i musei statali, dichiarati per legge “servizi pubblici essenziali”, dovrebbero funzionare strutturalmente, al di là delle entrate generate, basandosi su risorse specificamente destinate dal bilancio pubblico. Le entrate dovrebbero essere utili esclusivamente a migliorare i servizi al pubblico, incrementare le collezioni, progettare interventi di valorizzazione, provvedere a interventi straordinari, etc.

La realtà dei fatti non è così. Il sistema era già ad un passo dal collasso: atavica mancanza di personale e disperata ricerca di risorse per l’ordinario.

L’aver relegato, nel corso degli anni, in soffitta la propria mission culturale ed educativa, quella dettata dal codice etico dell’ICOM, International Council of Museums (è sufficiente qui ricordare la definizione: “Il museo è un’istituzione permanente, senza scopo di lucro, al servizio della società, e del suo sviluppo, aperta al pubblico, che effettua ricerche sulle testimonianze materiali ed immateriali dell’uomo e del suo ambiente, le acquisisce, le conserva, e le comunica e specificatamente le espone per scopi di studio, educazione e diletto”), per abdicare definitivamente al mercato e al turismo, ha visto i musei statali e in special modo i grandi musei dotati di autonomia finanziaria, oggigiorno, muoversi (spesso senza competenze adeguate) verso la ricerca spasmodica di risultati quantitativi (e quasi mai qualitativi), con attività a dir poco squalificanti e che a volte hanno raggiunto il grottesco (party, feste di matrimonio, cene di gala, sfilate di moda, zumba, salse e merengue, etc.). Viceversa, cura delle collezioni, ricerca scientifica, educazione e interpretazione del patrimonio, assunzione di personale qualificato, etc. sono voci passate in secondo piano, sotto la colonna “costi”, con accanto la casella “tagli” ove mettere la spunta.

È evidente che oggi il Covid-19 si inserisce in una crepa già aperta che porterà questo sistema al crollo.

Oggi, in questa crisi e in special modo con una riapertura fantasmatica e incondizionata (se non alle ormai note norme di sicurezza anti Covid-19 dettate dagli esperti, ma non ancora chiare e definite) proclamata per il 18 maggio, pagherà dazio in modo particolare e catastrofico il comparto delle società concessionarie (a scopo di lucro), a cui sono affidati i cosiddetti “servizi aggiuntivi”, ovvero la front line tra lo Stato e il mercato: ai mancati introiti dei mesi di lockdown, il comparto dovrà prevederne ulteriori alla riapertura, dovuti alle restrizioni e al picco negativo del turismo, a cui si sommeranno non solo i costi ordinari di gestione ma anche i nuovi e necessari costi per la sicurezza del pubblico e degli operatori.

Se dovesse collassare il comparto, oltre alle immaginabili e gravi conseguenze sul piano sociale (perdita di posti di lavoro in primis), anche il sistema pubblico non reggerebbe: nell’impossibilità strutturale, per mancanza di personale, di gestire le biglietterie e i servizi aggiuntivi, vedrebbe polverizzarsi anche quei pochi introiti derivanti dalla bigliettazione in clima (post) pandemia.

Questo scenario si prospetta anche per il resto delle attività culturali: mostre, teatro, cinema. Infatti, le imprese private che organizzano mostre d’arte ed eventi culturali hanno già pubblicamente gettato la spugna: niente riaperture delle mostre già in corso e nessuna inaugurazione di quelle previste. Cinema d’essai e teatri non riapriranno e quando e se lo faranno ci sarà un’impennata dei biglietti d’ingresso, determinando una esclusione, non certo democratica, del pubblico meno abbiente che, come sempre, pagherà il prezzo più alto della crisi.

Del resto il ministro Franceschini ha già lanciato l’idea di una Netflix della cultura: se per una élite aristocratica e fortunata ci sarà l’accesso limitato alla cultura dal vivo, per altri verrà confezionata una piattaforma a pagamento dove la cultura diviene mero intrattenimento in streaming (in linea, del resto, con le politiche museali più recenti); per tutti gli altri, la terza classe (sic!), ci saranno i video gratuiti sui canali social dei musei, ormai pronti al lancio anche su TikTok (qui si potrebbe aprire un’altra parentesi sulla qualità raccapricciante di molti video realizzati da diverse istituzioni museali pubbliche).

Ma in Italia il patrimonio culturale non è solo statale, con i suoi musei grandi e piccoli, ci sono i musei privati, e vi è una immensa ricchezza dislocata capillarmente in tutto lo stivale, la vera risorsa del nostro Paese: una miriade di piccoli e grandi musei e luoghi della cultura appartenenti ad altri enti, in particolare ai Comuni, con le loro diverse forme di gestione.

A fatica (senza parlare del mancato rispetto sia dei parametri relativi agli standard museali, D.M. 10 maggio 2001, sia dei principi dell’ICOM) si riusciva semplicemente a tenerli aperti a causa dei soliti problemi dovuti alla mancanza di risorse, che da oggi saranno ancora più scarse a seguito di nuove e più urgenti esigenze che i Comuni dovranno affrontare.

Molti chiuderanno al solo pensiero di dover sostenere ulteriori costi per adeguarsi alle norme di sicurezza anti Covid-19. A fronte di questa devastazione dell’intero settore culturale a farne le spese saranno i soggetti più deboli e, tra questi, i lavoratori precari e non, in primis quelli del settore privato, come sempre meno tutelati e garantiti nonché più esposti alle crisi di mercato.

Lo scenario davanti a noi è alquanto drammatico, ancor più se si pensa all’annunciato lockdown a intermittenza.

Difficile essere ottimisti al momento, meglio usare il “pessimismo dell’intelligenza” e, parafrasando Antonio Gramsci, prevedere la peggiore situazione possibile, di modo da poter mettere in movimento tutte le riserve di volontà e ottimismo, per essere in grado di abbattere l’ostacolo e pensare ad una alternativa possibile.

E non si tratta qui, semplicemente, di limitarsi a trovare altre fonti d’entrata per colmare le perdite di cui sopra: occorre innanzitutto riposizionare i musei (e il patrimonio culturale tout court) fuori dal mercato e all’interno del più stretto controllo pubblico, con risorse specificamente destinate dal bilancio pubblico (siano esse risorse comunitarie, statali, regionali e degli enti locali), garantendo la stabilità del personale e dei professionisti della cultura, con nuove assunzioni, per adempiere ai compiti etici ad esso pertinenti quale, ad esempio, il ruolo fondamentale di istituzioni culturali, ovvero ridisegnando i musei e il patrimonio culturale a partire dal loro ruolo educativo accanto alle scuole e alle università, alle biblioteche e alla ricerca scientifica e, non da ultimo, al servizio dei cittadini, delle comunità locali, dei territori: non a caso i beni culturali un tempo erano appannaggio dell’allora Ministero della Pubblica Istruzione, mentre oggi sono associati al Turismo (MiBACT, Ministero per i Beni, le Attività Culturali e il Turismo) e succubi delle logiche mercantili e, dunque, delle crisi fisiologiche del mercato.

Sarà poi necessario che i cittadini (ri)prendano possesso del proprio patrimonio, partecipando direttamente, democraticamente e senza scopo di lucro, alla cura e alla gestione del bene comune, e possono farlo in tanti modi, tanti sono già gli esempi in Italia (fondazioni e cooperative di comunità, fondazioni di partecipazione, ecomusei, etc.) e tanti se ne potranno ideare, in grado di generare ricavi e redditività reinvestibili nel miglioramento dei servizi e, pertanto, nella qualità della vita delle stesse comunità.

È auspicabile, inoltre, che nei territori nascano e si costruiscano reti museali, formali e non, a geometria variabile, in grado di affrontare il problema dei singoli musei in maniera aggregata, per ottimizzarne la gestione, favorire le economie di scala, di scopo e di specializzazione, che possano garantire più facilmente la sopravvivenza e la crescita dei più piccoli.

Restando in tema di pandemia, dunque, occorre “prendersi cura” dei beni più preziosi per cercare di uscire dalla crisi.

Dobbiamo sempre tenere a mente che cultura, ricerca, istruzione, sanità, servizi sociali, biodiversità sono beni preziosi, non merci. Ricordiamoci che chi ci ha imposto il lockdown lo ha motivato con l’insufficienza dei posti in terapia intensiva: oggi dobbiamo innanzitutto pretendere la ricostruzione del Sistema Sanitario Nazionale, e pretenderlo avulso da interessi privati e regionalistici, partendo dalle reali esigenze di cura delle comunità locali nei rispettivi territori.

Le risorse e le strategie si trovano, ci sono: patrimoniale, lotta all’evasione fiscale, riduzione delle spese militari, etc. Non dimentichiamoci, infine, che l’essere umano è sempre storicamente condizionato dal rapporto con gli altri e con la natura, pertanto la sola aberrante ipotesi di un lockdown a intermittenza dovrebbe imporci questa via d’uscita.

 

*Luigi Di Gioia opera da oltre venti anni nel settore della gestione e valorizzazione dei beni culturali con cooperative e aziende private, associazioni e enti del Terzo settore e a stretto contatto con gli Enti pubblici, occupandosi anche di formazione ed educazione al patrimonio culturale con Istituti scolastici ed Enti di formazione. Ha conseguito diversi titoli accademici e formativi, tra cui una laurea magistrale in “Management dei Beni Culturali” presso l’Università di Macerata, una laurea in “Conservazione dei Beni Culturali” presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, un diploma universitario in “Operatore dei Beni culturali” presso l’Università di Bari, un master del FSE attuato dalla Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant’Anna di Pisa presso il Pastis di Brindisi in “Turismo e Beni Culturali”.

(la  grafica in copertina è “L’allegoria del cattivo governo” di Ambrogio Lorenzetti)

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