La scorsa domenica, il secondo appuntamento autunnale di Roma Siamo Noi! andato in scena a Valle Galeria ha visto la presenza, tra gli altri, di Ascanio Celestini, che dopo la ricca e partecipata assemblea, ha intrattenuto il pubblico con tre racconti volti ha rappresentare le difficoltà così come la voglia di riscatto delle borgate e delle periferie romane, al centro dell’agenda politica – a differenza del “centro-vetrina metropolitano” – solo quando si tratta di raccogliere voti in vista di una tornata elettorale.
Di questa esperienza, l’artista romano ne ha tratto un breve quanto emozionante racconto, che vi proponiamo di seguito.
Buona lettura.
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Dall’ultima fermata della metropolitana fino alla borgata in cui sono nato, la borgata nella quale vivo, sono tre chilometri scarsi. Tre chilometri di strada che puoi fare sono in macchina. Non c’è un marciapiede e tantomeno una pista ciclabile. Entri nell’anello del raccordo e trovi un parcheggio con le bancarelle ammucchiate tra gli autobus dell’Atac, del Cotral e la strada. Il kebbabbaro è sempre aperto. Tutti i giorni e le notti. Sotto la tenda arancione ci passano militari e prostitute, studenti in partenza o di ritorno, gente di rincorsa, rumeni in cerca di birra soprattutto quando è chiuso l’alimentari del capellone. Soprattutto di notte quando si apre il bar accanto, che però è per quelli un po’ meno smandrappati.
Una decina di fermate e scendendo all’Alberone con due passi stai alla stazione Tuscolana. Due tossici escono sul piazzale, lei gli sta sulle spalle. Lui ride. Il bar è chiuso. La macchinetta a soldi porta scritto che non da il resto. Un caffè lungo o corto, decaffeinato e non, viene 80 centesimi. Metto un euro ma il bicchiere si incastra, fa un casìno. Niente caffè, né per me, né per l’arabo che mi chiede i soldi. E tanto meno il resto.
Il trenino per Fiumicino che passa da questa stazione è lento, sporco e costa meno di quello per turisti che parte da Termini e corre rapido verso l’aeroporto. Passa per Ostiense e taglia per la Magliana. Piove e tutto attorno è un pantano. Le moffole delle guardie illuminano a lampi una strada coperta di fango.
Dopo la Muratella c’è la fermata mia.
Scendo alla stazione di Ponte Galeria.
Si chiama Beatrice la ragazza che mi viene a prendere. Lavora per le ferrovie, dice. “Poi il pomeriggio stacco e faccio politica” dice. Andiamo al Palacio de la Salsa passando lungo un canale che taglia la Portuense e l’autostrada per Fiumicino. La donna all’entrata che prende la temperatura mi regala una maglietta gialla uguale alla sua. È quella che indossano quasi tutti nella sala. “Poi ti vengo a sentire quando fai lo spettacolo” mi dice. C’è una ragazza giovanissima che parla. Ha fatto una tesi su Piana del Sole, così si chiama questo pezzo della città di Roma. 5.000 abitanti in un angolo di una zona più grande che si chiama Ponte Galeria e di abitanti ce ne ha 43mila. In un municipio dove c’è ne vivono tre volte tanti. Più di città come Pisa o Ferrara. Più di Bergamo e Siracusa. Più o meno come Cagliari che è capoluogo di regione.
La giovane laureata racconta che questa è terra di bonifica. C’è acqua dappertutto. È insensato farci una discarica. Eppure qua dietro ce ne sta già una grossa. La più grossa d’Europa. 240 ettari. Una storia brutta che puzza di monnezza, ma anche ti reati grossi e perpetuati negli anni fino agli arresti e alla chiusura. E adesso si decide di aprire un’altra discarica su questa terra fragile, dimenticata.
Una terra che ha tutte le caratteristiche per diventare un altro collettore di rifiuti. Te ne accorgi arrivando.
Il degrado chiama degrado.
È più facile ammucchiare monnezza dove è stata buttata per anni, che cambiare strada, mettere in moto un vero cambiamento e magari riqualificare un territorio.
Lo ripete la giovane che se l’è studiato anche all’università questo territorio.
“Totale assenza di verde pubblico, disservizi dei trasporti, niente marciapiedi. Pure la fermata dell’autobus sta in mezzo alla strada. Non c’è una piazza e tantomeno un parco”.
Ma nel suo progetto tutto questo ci sta. E il canale che scorre accanto alla balera nella quale facciamo assemblea potrebbe diventare una piazza sull’acqua raggiungibile a piedi o in bicicletta.
Uno si alza e chiede “e quanto verrebbe a costare?”.
La ragazzetta sorride. “Non c’è molto da fare… e poi si potrebbe fare a tappe”.
Si alza una donna. “Mi chiamo Filomena, abito qui da 42 anni. Mi sono emozionata” dice “ma tu perché ti sei interessata a questa nostra periferia?”
È un altra donna fa “Roma è famosa in tutto il mondo per le sue piazze piene di fontane. Noi non chiediamo le fontane, ma le piazze le vogliamo pure noi. Qui di teatri non ce ne stanno. Cinema: zero…”
E un’altra ancora “ero bambina quando al bar della Pisana ci organizzavamo contro la discarica di Malagrotta e mo’ ci dobbiamo difendere pure da quest’altra”.
E io penso che ci ho attraversato la città, ci ho messo un’ora e mezza per arrivare in uno spicchio di Italia dimenticata che fa il paio con la mia. Noi c’abbiamo solo la fortuna che siamo arrivati prima e eravamo tanti di più. Tante più baracche che sono diventate case. È più tanti campi strappati ai contadini e riempiti di tonnellate di cemento, cubature barbariche che hanno arricchito i palazzinari che se magnano Roma da un secolo e mezzo.
Alessandro modera gli interventi. “Noi continuiamo a chiamare periferia questi territori…” dice “e questo è diventato denigrativo. Noi siamo Roma. La vera città siamo noi. Pure qui c’è da valorizzare quello che c’è di bello”.
Si alza Pietro e fa “io so’ bello!”
C’ha ragione Pietro.
Lui è bello davvero. Più basso di me, capelli radi, maglietta gialla. La lotta rende tutti più belli.
Lucia mi dice “te la ricordi la foto che ci siamo fatti qualche anno fa quando sei venuto qui?”
Era un’altra battaglia, ma uguale a questa. Contro la discarica, contro la produzione di monnezza, per una cultura seria del riciclo, del riuso. Per la difesa di questo pezzo di terra. Lucia quella volta ha insegnato a mio figlio come si fa il sapone. Mi dice “la prossima volta facciamo il pane”.
Me la ricordo la foto. Avevamo fatto un gesto con le braccia come a dire “giù le mani dalla nostra terra”.
E allora la rifacciamo.
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