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Che fine ha fatto il futuro?

La domanda che fine abbia fatto il futuro sottintende che tutti noi stiamo vivendo relegati in un presente che, per forza di cose, non riuscendo più a prefigurare alcun avvenire nega anche l’accesso alla memoria del passato.

Un presente capace di vedere il proprio passato non può non vedersi proiettato anche nel futuro. Ma oggi gran parte della popolazione mondiale vive in un vero e proprio «sradicamento dal tempo» in cui gli individui «smarriscono insieme il riferimento al passato (abolito) e al futuro (bloccato)».

La diagnosi che Marc Augé, antropologo del mondo contemporaneo per eccellenza, fa sul nostro futuro è disperata e al contempo aperta a un ostinato anelito di speranza, quasi volesse riconciliare i due grandi filosofi Gunther Anders e Ernst Bloch che sul principio speranza e il principio disperazione si erano divisi recidendo la loro lunga amicizia.

Difficile non trovarsi d’accordo con la visione più negativa del libro: dopotutto è assai difficile da negare che ci si trovi di fronte a un «mondo da consumare ma non da pensare» in cui la «tirannia del presente» si gioca su una serie di «interdetti a pensare» basati sulle formule, ormai accettate come ovvie e scontate, della «fine della storia» piuttosto che della «globalizzazione» o «magari la più classica e vetusta “legge del mercato”».

Questa nuova edizione, dopo una decina d’anni, del libro – da parte della stessa casa editrice Eleuthera – ha il principale merito di farci riflettere su uno dei postulati più importanti posto da questo libro: quello sull’accelerazione del tempo fa sì che «i cambiamenti siano tali, sulla Terra, che avremo bisogno di periodi più brevi per misurarli».

Questo è il presupposto su cui si basa tutto l’impianto del ragionamento di Augé, ma potremmo anche dire che lo è anche di tante discussioni come quelle sull’accelerazionismo così in voga oggi. Se possiamo dire di essere entrati nell’era, o meglio come dice l’autore, nel «regno della cosmotecnologia» è grazie al fatto che il «tempo accelerato» ha fatto sì che la scienza entrasse nella storia.

E questo «non semplicemente nel senso che le conseguenze della scienza, le sue applicazioni, possono porre problemi etici (si sa da tempo che “scienza senza coscienza rovina l’anima”) ma anche nel senso che gli oggetti della speculazione scientifica sono diventati oggetti storici».

La ricaduta pratica delle scoperte scientifiche, sempre più insistite e amplificate in prima istanza dagli scienziati stessi, fanno sì che «l’avvenire delle nostre società, l’avvenire del pianeta come insieme di società, non è immaginabile facendo astrazione dalla scienza».

Marc Augé ci fa un quadro dei paradossi che il cambio di marcia del tempo produce sia sulle diverse società del mondo contemporaneo che sui singoli individui, estendendo il suo sguardo fino alla lontana (ma per noi sempre vicina) Grecia classica con la propria uscita, quasi miracolosa, dal mito, alle nefaste conseguenze dei processi di colonizzazione prima e di decolonizzazione poi del continente africano che hanno causato un vero e proprio «sradicamento del tempo» per quelle popolazioni.

In questa prospettiva Augé colloca oggi la scienza come perno sia del blocco della nostra visione del futuro che della sua possibile riapertura, prospettandone una democratizzazione, accompagnata da una campagna di istruzione, in grado di metterla a disposizione di tutti.

Se ci fermassimo qui avremmo una visione difficilmente contestabile e l’accusa che potrebbe relegarla a vana utopia potrebbe essere ribaltata evidenziando che «un’utopia dell’educazione, contrariamente a quelle che l’hanno preceduta, può definire selettivamente i suoi luoghi e progressivamente le sue tappe. Può essere riformista nel metodo, pur restando radicale come progetto».

Ma il problema sorge qui, non tanto nell’idea che la scienza possa e debba essere democraticamente messa a disposizione di tutti, quanto cosa sia l’oggetto scienza di cui stiamo parlando. Purtroppo la conclusione di un percorso stimolante – e anche, spesso, avvincente – si infrange contro un’idea di scienza come conoscenza che di per sé sia in grado di dare una finalità alla nostra esistenza singola e del mondo tutto.

«Si tratta allora di governare in vista del sapere, di assegnarsi il sapere come fine individuale e collettivo. Quindi, finalmente, di ritornare a un pensiero del tempo e fare una ragionevole scommessa: il giorno in cui sacrificheremo tutto al sapere, avremo in cambio ricchezza e giustizia».

È una visione ancora irrimediabilmente eurocentrica (ma lontana anni luce da un eurocentrismo critico alla De Martino, ad esempio) che fa della specie umana un unicum necessariamente solidale al suo interno ma completamente distaccata dal resto del mondo vivente e che ancora pone l’individuo come “la misura di tutte le cose”, dando per scontato che questa concezione di ciò che sia l’umano e di ciò a cui aspira l’umano sia il comune denominatore di tutti, indipendentemente da quale storia abbiano avuto e in quale parte del globo abitato.

* La Bottega del Barbieri

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