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Russia, Italia, Europa: «educare all’indifferenza per il passato»

Ricorre quest’anno l’80° anniversario dell’attacco nazista all’Unione Sovietica, il 22 giugno 1941. Ci sarà modo di tornare ancora sulle controverse interpretazioni legate a quella data; intanto, è uscito nelle sale cinematografiche russe un nuovo film, “Zoja”, su uno degli episodi più tragici di quei primi mesi di guerra, che ha subito riacceso le polemiche sulla “riscrittura della storia”.

Premettiamo di non aver avuto ancora modo di vedere il film per intero; ma pensiamo che le discussioni sulle “rivisitazioni” del passato consentano di allargare il discorso anche al di fuori della Russia, conferendo validità “extra-territoriale” agli obiettivi oltremodo attuali che, alle diverse latitudini, ci si pone revisionando la storia.

Nello specifico del film e in estrema sintesi: tardo autunno 1941, la Wehrmacht è già alle porte di Mosca; la giovane Zoja Kosmodem’janskaja lascia la scuola per arruolarsi tra i sabotatori che compiono azioni diversive nelle retrovie tedesche, in base alla direttiva 428 del 17 novembre 1941 del Comando supremo, di fare terra bruciata e non lasciare ai tedeschi nemmeno una baracca (il Blitzkrieg era concepito per risolversi prima dell’autunno: gli uomini erano privi di equipaggiamento invernale) in cui ripararsi dal freddo tremendo.

La partigiana Zoja Kosmodem’janskaja

Il gruppo cade in trappola (sembra, non senza la delazione di uno starosta di villaggio) e Zoja, dopo atrocità, torture, violenze di ogni genere, viene impiccata, senza rivelare nulla. Sembra che, nel 1942, Stalin, venuto a conoscenza della vicenda, abbia permesso ai soldati sovietici di non fare prigionieri tra gli uomini del 332° reggimento Wehrmacht, autori del martirio di Zoja.

L’uscita del nuovo film (la prima pellicola era del 1944) sembra aver suscitato reazioni negative anche da parte del pubblico antisovietico, che nega l’eroismo di Zoja, sostenendo che solo dei fanatici “malati psichici” avrebbero potuto eseguire gli “ordini criminali” di Stalin e che, in generale, un atto di eroismo “non può esser motivato da convinzioni ideologiche”.

Il fatto è che la pellicola risponde largamente proprio alla linea governativa, ribadita da Vladimir Putin anche in un recente incontro con gli studenti, di “de-ideologizzare i programmi scolastici”, che risentirebbero ancora troppo dello “spirito sovietico”; e uno dei cardini di tale de-ideologizzazione sarebbe quello di de-sovietizzare la valenza della Grande guerra patriottica, rendendola esclusivamente “nazionale”, priva di qualsiasi ideale comunista; per cui si tace sul fatto che i soldati sovietici combattessero per la patria socialista e andassero all’attacco al grido “Per la patria, per Stalin”.

Un po’, insomma, come accade da noi con la pretesa di cancellare ogni contenuto di classe dalla lotta partigiana, riconducendola unicamente a una pura lotta contro l’invasore tedesco, fino ad accusare i partigiani comunisti di “violenze gratuite” e “vendette personali” nel dopoguerra.

Il pericolo di una tale de-ideologizzazione, d’altra parte, era già stato profeticamente avvertito, in URSS, in una pellicola degli anni ’70, “L’eterna chiamata”, in cui il protagonista negativo, un polizei collaborazionista, pronostica che i nemici dell’URSS, dopo il 1945, vincereranno «la guerra per lo spirito delle persone» e sostiene che, in tale guerra, l’obiettivo prioritario è quello di «educare all’indifferenza per il passato», così che, quando «gli indifferenti saranno tanti, la cosa si farà rapidamente… Passo dopo passo, cancelleremo in ognuno la memoria storica. E, con un popolo privato di tale memoria, si può fare qualsiasi cosa. Un popolo che… ha dimenticato il passato, non capirà il presente. Diventerà indifferente a tutto, istupidirà e alla fine si trasformerà in una mandria. Il che è proprio quello che si vuole».

È così che, oggi, alcuni scrivono su feisbuc di temere che, nel giro di un’altra decina d’anni, la memoria della Grande Guerra Patriottica sarà completamente distorta e si arriverà a condannare chiunque guardi film di guerra sovietici, e la versione ufficiale diverrà quella per cui nel 1945, sul Reichstag, venne issata non la bandiera con falce e martello, ma il tricolore (l’odierna bandiera russa) dell’Esercito russo di liberazione capeggiato dal traditore Andrej Vlasov.

D’altronde, finanziati dal Ministero della cultura, da tempo circolano pellicole come “Canaglie”, “Battaglione di disciplina”, “A Parigi”, da far invidia alle risoluzioni di Bruxelles.

Venendo a noi, è il caso di interrogarsi su come sia divenuto possibile che, a dispetto delle decine di iniziative che smascherano la mistificazione revanscista, nazionalista e apertamente fascista, che accompagna il cosiddetto “giorno del ricordo”; a dispetto delle decine di pubblicazioni che denunciano la riscrittura della storia e la mitizzazione patriottarda dei crimini fascisti in Etiopia, Libia, Spagna, Jugoslavia, Unione Sovietica, Italia… è il caso di interrogarsi su come, a dispetto di tutto questo, sia divenuto possibile che buona parte della “gente” accolga come naturali le nuove “verità” con cui si dipingono quali “atti di guerra” i crimini perpetrati dai fascisti italiani e la “gente” sia anzi facilmente indotta a recriminare “le violenze” che sarebbero state commesse dai “sanguinari comunisti” ai danni del “bravo italiano”.

Come è possibile che aperti obbrobri storici come certe leggi votate alla (quasi) unanimità dal parlamento italiano, o vomitevoli aberrazioni politiche come quelle del parlamento europeo, vengano interiorizzate da buona parte della “gente” e acquisite quali “verità naturali”?

Come è possibile che buona parte della coscienza collettiva riesca a derubricare a “curiosità locali” i Consigli comunali in cui si vota col braccio teso o in cui si istituiscono “anagrafi anticomuniste”?

Se è vero che la riscrittura della storia, che va avanti ormai da decenni, è stata funzionale, sin dall’immediato dopoguerra, agli obiettivi della guerra fredda; se è vero che la riabilitazione del fascismo, la criminalizzazione del movimento partigiano, soprattutto della sua componente maggioritaria, quella comunista, era ed è condizione ideologica della restaurazione interna; se è vero che il continuo e ubiquo martellamento sulla cosiddetta “memoria condivisa”, sul lacrimevole pietismo incolore che pone sullo stesso piano fascisti e antifascisti, repubblichini e partigiani, serve a cancellare ogni differenza tra carnefici e vittime, “tutte italiane”; se è vero che tutto ciò risponde alla necessità di assuefare le coscienze alle “scelte dolorose ma necessarie” di oggi “per il bene di tutto il paese”; serve a “chiedere sacrifici” per “la rinascita dell’Italia” e a far accettare come “naturale” la repressione contro ogni minimo dissenso e tacitare ogni rivendicazione delle masse…

Se tutto questo è vero, è doveroso indagare sulle basi materiali, sulle radici classiste di tale involuzione.

L’ignoranza indotta del passato, della liberazione dal fascismo; il revisionismo sui diritti conquistati con la lotta contro l’arroganza e il potere padronale (volutamente, esuliamo qui dall’analisi delle basi economiche, produttive, sindacali e soprattutto partitiche che hanno permesso un tale regresso) sono quanto di meglio, affinché si faccia strada e, soprattutto nella coscienza delle giovani generazioni, divenga naturale, il fatto che il lavoro debba esser precario, che le pensioni possano anche non esistere, che la povertà sia colpa di chi è povero e i milionari siano “gente che ci ha saputo fare” e che naturalmente abbisognino di sussidi, perché, se no, chi “ci darebbe” il lavoro (Friedrich Engels, nell’introduzione a Il Capitale, ironizzava su «quello strano pasticcio linguistico in cui, per esempio, colui il quale si fa dare del lavoro da altri contro pagamento in contanti si chiama datore di lavoro e si chiama prenditore di lavoro colui al quale viene preso il proprio lavoro contro pagamento di un salario») se non ci fossero i padroni?

È così che i licenziamenti diventano una cosa naturale, perché il padrone, poveraccio, ci perderebbe a mantenere “troppi” operai, quando “c’ha la crisi”.

È così che in una situazione di ripiegamento del movimento operaio e sociale, ogni rivendicazione diventa questione di “ordine pubblico” – l’ordine della classe borghese – e viene repressa coi pestaggi polizieschi dei lavoratori, ma la “gente” risponde con «e allora Lukašenko?».

È per questo che diventa fondamentale, per la classe borghese, «educare all’indifferenza per il passato», far sì che «gli indifferenti saranno tanti» e, «passo dopo passo, cancelleremo in ognuno la memoria storica. E, con un popolo privato di tale memoria, si può fare qualsiasi cosa.

Un popolo che… ha dimenticato il passato, non capirà il presente. Diventerà indifferente a tutto, istupidirà e alla fine si trasformerà in una mandria»: docile e pronta a ogni comando del padrone.

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