La Famiglia rivoluzionaria
Nuestra América, la Nostra America vive un tempo nuovo. Il regime cileno, metà neoliberista, metà pinochettista, scricchiola. La resistenza cresce. E ogni resistenza si rafforza e si consolida nella misura in cui apprende dalla sua propria storia. Nulla di meglio, quindi, che recuperare gli insegnamenti per i tempi a venire.
Miguel Enríquez [1944-1974], come tanti altri militanti della Nostra America, costituisce una delle principali fonti d’ispirazione per le nuove ribellioni. Figlio politico di Che Guevara e, per questo motivo, fratello dei nostri Mario Roberto Santucho, John Willim Cooke, Alicia Eguren e Daniel Hopen; Miguel appartiene a questa gloriosa famiglia continentale di cui fanno parte anche José Carlos Mariátegui, Julio Antonio Mella, Farabundo Martí, Fidel Castro, Carlos Fonseca, Roque Dalton, Carlos Marighella, Fabricio Ojeda, Silvio Frondizi, Rodolfo Walsh, Turcios Lima, Inti Peredo, Tamara Bunke, Raúl Sendic, Camilo Torres, Raúl Pellegrín y Cecilia Magni, tra moltissimi altri.
Che il ricordo della sua morte serva non solo per ricordarlo con affetto e orgoglio nel suo amato paese – oggi in piena ebollizione popolare, dopo mezzo secolo di neoliberismo – ma anche per apprendere da lui, dal suo pensiero, dal suo esempio e dalla sua lotta, in tutta la Nostra America e nel mondo.
Un giovane ribelle che interviene senza chiedere il permesso
Miguel visse come giovane ribelle la lotta rivoluzionaria del suo popolo. Non solamente per la sua giovane età, ma anche per la sua mente aperta, il suo antimperialismo viscerale e la sua sfida alle gerarchie imposte.
La sua vita politica in gioventù fu come una meteora. Visse da giovane e, purtroppo, morì da giovane. Aveva appena compiuto 30 (trenta) anni quando la morte in combattimento lo trovò dove doveva stare con dignità. A fianco del popolo, faccia a faccia con il nemico, scontrandosi con la dittatura contro-insurrezionale del generale Pinochet, che inaugurò – mediante Milton Friedman – il neoliberismo su scala mondiale. Addirittura prima dell’Inghilterra di Margaret Thatcher e gli Stati Uniti di Ronald Reagan.
Sì, Miguel aveva appena trent’anni! Quasi non sembra vero. – Non dimentichiamoci che Julio Antonio Mella, il fondatore del primo partito comunista cubano, fu assassinato in esilio in Messico quando aveva solo 25 anni… -. E pensare che a quell’età aveva già sviluppato un pensiero teorico proprio e un’azione politica incamminata a realizzarlo.
Dovrebbero tenerlo in considerazione alcuni ex-rivoluzionari, pentiti o falliti, stanchi di lottare e di scontrarsi, che facendo appello al proprio prestigio del passato oggi si piegano di fronte al potere, sottostimando con superbia le giovani generazioni di militanti ribelli che nel Cono Sud della Nostra America, e ad altre latitudini, si stanno formando con l’obiettivo di piantare il seme di una nuova ondata rivoluzionaria futura.
Quegli stessi che, cosi lontani dall’umiltà di Miguel Enríquez e di Robi Santucho, di Fidel e del Che, di Sendic e Marighella, invece di accompagnare le giovani generazioni nel recupero della tradizione rivoluzionaria “dimenticata”, di incitarle alla ribellione contro il sistema imperialista e al rifiuto delle sue molteplici strategie contro-insurrezionali – quelle “hard” e quelle “soft” -, di trasmettergli le esperienze del passato – anche di quelle che furono sconfitte -, sono più preoccupati di lustrare il proprio ego e esaltare il proprio ombelico.
Il compito urgente dei nostri giorni è ribaltare quello che le dittature militari genocide – e le metafisiche “post” che succedettero loro durante le decadi successive nel campo delle formazioni ideologico-politiche – provarono ad attuare: l’oblio sistematico delle insorgenze e la “decostruzione” delle identità antimperialiste e anticapitaliste nei movimenti giovanili del continente. Se all’inizio del XX secolo essere d’avanguardia implicava rompere con tutto il passato e con tutta la tradizione, attualmente, nel XXI secolo, dopo il genocidio e le metafisiche “post” – poststrutturalismo, postmodernismo, postmarxismo, studi postcoloniali, ecc. – non c’è nulla che sia politicamente più urgente e radicale che recuperare la tradizione rivoluzionaria dimenticata e superare il vuoto artificialmente indotto tra la generazione di Miguel Enríquez e quella attuale.
Nell’anno in cui si fonda il Movimiento de Izquierda Revolucionaria-MIR (Movimento della Sinistra Rivoluzionaria, n.d.t.) cileno, Miguel Enríquez aveva 21 anni. Quando ne diventa segretario generale ne ha 23. Suo fratello argentino, Mario Roberto [“Robi”, “el negro”] Santucho, aveva 29 anni quando si fondava il Partido Revolucionario de los Trabajadores-PRT (Partito Rivoluzionario dei Lavoratori, n.d.t.) ed era appena arrivato ai 40 quando morì per mano dall’esercito argentino. Ernesto Guevara neanche aveva compiuto i 40 quando fu assassinato, disarmato e a sangue freddo, da parte dell’esercito boliviano per ordine della CIA a La Higuera in Bolivia.
Un’intera generazione latinoamericana di giovani che non chiesero il permesso per pensare, per mettere in discussione, per parlare, per studiare, per militare e agire, per amare. Bisogna imparare dal loro esempio…
La doppia sfida – da Lenin a Gramsci in chiave latinoamericana
La pratica politica del MIR e di Miguel Enríquez posizionò al centro del dibattito il duplice compito che i movimenti rivoluzionari hanno di fronte a loro se aspirano a ottenere efficacia nel loro agire contro l’imperialismo capitalista come sistema mondiale: creare, costruire e sviluppare l’indipendenza politica di classe e, allo stesso tempo, l’egemonia socialista.
Nella storia latinoamericana, quelli che concentrarono i loro sforzi solo nella creazione e consolidamento dell’indipendenza politica di classe, molto spesso rimasero isolati e rinchiusi nella propria organizzazione. Generarono gruppi agguerriti e combattivi, militanti e dotati di abnegazione, che però non poche volte caddero nel settarismo – nel migliore dei casi, quando, non invece, nel burocratismo –. Una malattia endemica e ricorrente in queste terre del Cono Sud. Quelli, invece, che privilegiarono esclusivamente la costruzione di amplissime alleanze politiche e fecero un feticcio dell’unità e del “dialogo” a tutti i costi, con tutti e senza un contenuto preciso, eludendo o sottostimando l’indipendenza politica di classe e sopratutto l’antimperialismo, finirono per diventare il fanalino di coda dell’imperialismo e del padronato, quando non furono direttamente cooptati da qualcuna delle molteplici istituzioni dell’impero.
Uno dei grandi insegnamenti politici di Miguel Enríquez e di tutti quelli e quelle che diedero la vita per il sogno più nobile tra tutti quelli che possiamo immaginare, la creazione del socialismo, è che bisogna combinare entrambi i compiti. Non escluderli l’un l’altro ma anzi articolarli in forma complementare e farlo in modo dialettico, se ci si consente il termine – che è stato vituperato e ingiuriato ferocemente dalle metafisiche “post” e anche dai neokantiani che in nome dell’Illuminismo ci invitano a resuscitare il riformismo arrugginito del nonno Eduard Bernstein e il suo vergognoso nipote, l’eurocomunismo -.
Come a dire, la nostra maggiore sfida consiste nell’essere sufficientemente chiari, intransigenti e precisi in modo da non lasciarci trascinare dai differenti progetti imperialisti e mercantili in ballo – siano questi neofascisti o si mascherino da “tolleranti” e “progressisti” – però, allo stesso tempo, avere sufficiente elasticità di riflessi per sgretolare il blocco geopolitico del potere del capitale e le sue alleanze, mentre costruiamo il nostro spazio di potere, antimperialista e anticapitalista. All’interno di ogni società e di ogni paese ma puntando a una prospettiva di integrazione, a scala e ampiezza continentale. E questo non si raggiunge senza costruire alleanze contro-egemoniche con le differenti frazioni di classe sfruttate, popoli oppressi e movimenti antisistema, articolando in un orizzonte comune l’arcobaleno multicolore insieme alla bandiera rossa, simbolo del progetto più radicale che l’umanità ha potuto costruire fino a questo momento.
Non fidarsi dell’imperialismo “ma neanche un pochino così1”
Miguel Enríquez i suoi compagni e le sue compagne hanno anche contribuito a chiarire la necessaria e intima intersecazione tra le lotte popolari dei movimenti sociali latinoamericani – dalle rivendicazioni più elementari che pulsano nei quartieri, nelle baraccopoli, favelas, e bidonville a quelle più elevate come le lotte continentali per il socialismo – con la questione dell’antimperialismo.
Non ci può essere nella Nuestra America né esercizio reale della democrazia sostanziale – basata sulla partecipazione diretta del popolo nell’adozione delle grandi decisioni nazionali, la gestione delle comunità e il sistema statale di finanziamento -, né autodeterminazione nazionale e sovranità né socialismo autentico che non si propongano allo stesso tempo la resistenza e la lotta antimperialista. Non sono “tappe” rigide e distinte né aspetti scindibili della vita politica. Costituiscono fasi di uno stesso processo di lotta.
Questo pensiero così caratteristico di Miguel Enríquez si dimostra quanto mai istruttivo e gode di una schiacciante attualità per il dibattito teorico-politico contemporaneo. Tanto di fronte a quelli che riducono le lotte latinoamericane attuali unicamente alla contraddizione tra imperialismo e nazione – negando qualsiasi altro tipo di contraddizione nel mezzo – quanto di fronte a quelli che, nel polo opposto, pretendono seppellire per decreto filosofico postmoderno l’esistenza della dipendenza, dell’imperialismo e della sua dominazione guerrafondaia e genocida.
Un buon esempio della prima posizione lo costituiscono quelle correnti che appoggiano l’attuale processo di lotta e resistenza antimperialista del Venezuela bolivariano, però cercando in tutti i modi di frenare e moderare al massimo questo processo, di “consigliare” prima Hugo Chavez e successivamente il presidente Nicolás Maduro, che la cosa migliore sarebbe da qui in poi optare per una strategia di una supposta “terza via” – né capitalismo neoliberista ma neanche socialismo –. Considerando che il termine specifico “terza via”, reso popolare per il sociologo britannico Anthony Giddens nel suo libro del 1999 La terza via. Il rinnovamento della socialdemocrazia, cadde in discredito, si utilizzano altre definizioni ed etichette, però con un identico contenuto. – Bisogna chiarire che Giddens non inventò nulla, solo un nome, però il contenuto della sua “proposta” e del suo programma hanno come minimo un secolo di vita -.
Un esempio estremamente rappresentativo dell’altro polo dell’equazione lo costituiscono quelli che, sedotti dalla promozione mediatica di libri come Impero (2000) di Negri e Hardt – e altri autori con minor diffusione come gli anglosassoni Bill Warren, Nigel Harris e John Weeks, ecc. – credono illusoriamente che oggi le identità nazionali, le bandiere storiche e i compiti antimperialisti siano indeboliti, si siano rivelati inservibili e siano démodé poiché apparterrebbero al museo archeologico dei dinosauri della sinistra terzomondista. Si suppone che oggi vivremmo in un mondo “postcoloniale”, piatto e omogeneo, dove tutti gli Stati-nazione sarebbero equivalenti, in quanto a “narrative” da fiction basate sul “mito delle origini”. – Curiosamente nessuna delle bandiere nazionali avrebbe validità, con eccezione di quella statunitense a stelle e strisce, che nei film di Hollywood – che nel consumo da intrattenimento sono viste, secondo Fredric Jameson, dal 90% del pubblico mondiale – appaiono dappertutto come il prezzemolo.
Lontano dall’essere rimasto imprigionato nelle pagine ingiallite di un antica enciclopedia o un vecchio libro di storia, il pensiero politico di Miguel Enríquez ci insegna – non solo alle sorelle e fratelli cileni ma a tutte e tutti i latinoamericani – che non ci sarà “democrazia radicale” né democrazia sostanziale, né socialismo né autodeterminazione nazionale duratura se non si lotta e ci si scontra allo stesso tempo contro l’imperialismo nei suoi molteplici volti e travestimenti. L’imperialismo continua a esistere, è vivo e vegeto e perdura nonostante la sua crisi sistemica e multidimensionale e il suo declino crepuscolare, e ogni giorno, al di là della frivolezza della letteratura postmoderna, diventa più aggressivo e guerrafondaio che mai nella storia. – Il recente assalto al Campidoglio a Washington e le scandalose elezioni statunitensi non sono un semplice aneddoto o una nota di colore di una telenovela, bensì il sintomo di una crisi sistemica estremamente profonda.
Borghesie progressiste? Capitalismi nazionali?
Miguel Enríquez, seguendo con fedeltà gli insegnamenti del Che, non credette mai nel “progressismo” a parole delle borghesie locali e delle loro presunte capacità di affrontare realmente l’imperialismo. Era giunto alla conclusione, come molti e molte compagne della sua generazione, che le borghesie autoctone della Nostra America sono parte funzionale dell’ingranaggio mondiale di dominazione, anche quando queste utilizzino i fuochi d’artificio verbali, pseudo nazionalisti e pseudo democratici, per istituzionalizzare le proteste e neutralizzare tutte le ribellioni radicali.
Scontrandosi ideologicamente con quelli che intendevano tessere alleanze con la borghesia “nazionale” e le sue espressioni istituzionali, Miguel credeva che i soggetti delle trasformazioni sociali da realizzare non potevano né dovevano essere gli “imprenditori buoni”, quelli che producono, in opposizione agli “imprenditori cattivi”, quelli che speculano. Non esiste capitalismo buono e capitalismo cattivo, capitalismo dal volto umano e capitalismo dalla faccia mostruosa. Esiste il capitalismo. Esiste l’imperialismo. Entrambi sono parte di un sistema mondiale, piagato da asimmetrie e dipendenze, super-sfruttamento, sviluppo e scambio diseguale, geopolitiche di guerra e oppressione della gran maggioranza dell’umanità da parte di una ristretta manciata di aziende e imprese, protette dagli Stati imperialisti – per quelli che credono che quanto appena esposto nelle righe precedenti, costituisca un descrizione “romantica” da nostalgia sinistrorsa, completamente fuori dall’attualità, suggeriremmo di consultare il libro del marxista britannico John Smith: Imperialism in the Twenty-First Century. Globalization, Super-Exploitation, and Capitalism’s Final Crisis [L’imperialismo nel ventunesimo secolo. Globalizzazione, super-sfruttamento, e crisi finale del capitalismo, 2016, New York, Monthly Review Press. Si può scaricare gratis su internet].
Ai suoi tempi, Miguel Enríquez lo sapeva perfettamente. Non si confuse mai.
Polemizzando con quelli che promuovevano un processo rigido per tappe separate per le trasformazioni sociali del Cile e dell’America Latina, Miguel Enríquez sosteneva che la lotta per il socialismo non poteva rimanere relegata a un futuro lontano di un “più in là” imperscrutabile e vago come il famoso “dover essere” kantiano.
Benché il socialismo non si possa creare per decreto e in modo repentinohttp://www.marini-escritos.unam.mx/230_eurocomunismo.html, né costruirsi per capriccio o per mero arbitrio incondizionato, quando a chicchessia venga voglia, nemmeno dovrebbe essere rimpiazzato unicamente dalla “Democrazia” – così, democrazia e basta, in maiuscolo, senza storia, né tempo né luogo, senza determinazioni sociali specifiche né contenuto di classe -, né dalla “Repubblica”, ugualmente con la maiuscola e in astratto, come il titolo di quel vecchio e classico libro di Platone, per quanto si provi a incensarla, attribuendole diritti sociali e conquiste precise che nella storia terrena e mondana i diversi repubblicanesimi più che altro hanno negato -. Formulazioni che molte volte si presentano come “novità” nel colorato mercato delle ideologie ma sono tanto vecchie quanto l’eurocomunismo – per non tornare troppo indietro nel tempo! -.
Per chi creda che nei paragrafi precedenti “si faccia dire” al MIR cileno qualcosa che i suoi militanti mai pensarono né elaborarono, suggeriremmo di consultare la critica all’eurocomunismo formulata pochi anni dopo – nel 1979 – da Ruy Mauro Marini, membro del comitato centrale del MIR cileno, uno dei migliori pensatori della teoria marxista della dipendenza e uno dei principali teorici che dalla città di Concepción accompagnò Miguel Enríquez negli anni del suo apogeo rivoluzionario.
Per Miguel Enríquez e per la corrente collettiva di pensiero politico della quale egli si nutrì e per la quale egli dette la vita, la lotta per il processo di democratizzazione delle relazioni sociali è inseparabile dalla lotta per il potere rivoluzionario e il socialismo. Entrambi, inoltre, sono inscindibili dallo scontro antimperialista. Chi pretenda di scansare o mettere da parte la lotta antimperialista, mai ci porterà verso una maggior democrazia ne ci permetterà di avanzare verso il socialismo. Piuttosto sarà il contrario. Finiremo sottomessi, umiliati e colonizzati, tanto sul piano sociale, quanto su quello nazionale e culturale.
Con il cuore e le viscere a Cuba e la testa nel proprio paese
Miguel Enríquez, come molti e molte altre appartenenti a quella famiglia rivoluzionaria continentale che abbiamo menzionato al principio, ci ha anche lasciato una lettura creatrice, intelligente e antidogmatica della Rivoluzione Cubana. Amava Cuba – tanto quanto la amiamo noi – e visitò molte volte l’isola ribelle che ancora oggi sfida Golia. Per questo stesso motivo, rifiutò di trasformare il processo di lotta continentale aperto dalla Rivoluzione Cubana in una formula cristallizzata. Nulla di più lontano dal pensiero politico di Fidel, del Che e della direzione della Rivoluzione Cubana che un pensiero politico reificato.
Allo stesso tempo il MIR, con la direzione di Miguel, seppe combinare la difesa intransigente dell’eredità ribelle di Fidel e del Che con una politica specifica per il proprio paese che tenesse in conto le dinamiche che assume la lotta di classe interna e la battaglia antimperialista nella stessa società.
Miguel Enríquez i suoi compagni e le sue compagne furono entusiasti promotori della difesa internazionalista a oltranza del socialismo. Mai si lasciarono trascinare, neanche per un solo secondo, dall’anticomunismo mascherato da “progressismo”. Mantenevano la bussola ben ferma sulla rotta giusta.
Da questo angolo visuale, con questa ottica, segnarono una seria distanza dai regimi del cosiddetto “socialismo reale” dell’Est europeo. Un buon esempio di questo può essere riscontrato leggendo la dichiarazione che il MIR pubblicò rifiutando nel 1969 l’invasione sovietica della Cecoslovacchia.
La solidarietà internazionalista non poteva essere presa a motivo per appoggiare posizioni altamente discutibili che, a lungo termine, generarono un discredito enorme per la stessa Unione Sovietica – per quanto con la visione di oggi possiamo aggiungere che a loro volta le posizioni cecoslovacche completamente a favore del Mercato, promosse in nome della democrazia e del “socialismo dal volto umano” che precorsero la Perestroika gorbachoviana, non rappresentassero affatto una alternativa per i nostri popoli -.
Il miglior modo per difendere Cuba e la sua bellissima rivoluzione di fronte all’imperialismo è… lottare contro l’imperialismo e per la Rivoluzione in ogni paese in tutto il mondo.
Perché cadde il compagno Salvador Allende?
“Io non mi muovo di qui [Palazzo della Moneda,
giorno del colpo di stato] compierò fino alla mia morte
la responsabilità di presidente che il popolo mi ha affidato.
Adesso è il tuo turno Miguel…”
Salvador Allende
(Testimonianza di sua figlia Beatriz Allende)
Uno degli elementi più polemici e discussi che hanno avvolto il nome del MIR e di Miguel Enríquez ha a che vedere con il rovesciamento di Allende.
Miguel Enríquez spiegava pazientemente che la caduta del compagno Salvador Allende – entrambi avevano l’uno per l’altro un profondo e meritato rispetto personale – non fu dovuta a due presunti “estremi”. O, per dirlo con il tipico linguaggio della destra argentina, a “due demoni”. Da un lato, il demone della estrema destra autoritaria: Pinochet e le sue Forze Armate, comandati dagli Stati Uniti. L’altro, il demone dell’estrema sinistra, impaziente e infantile: il MIR, i “cordoni operai”, le occupazioni delle terre, ecc.
No! Assolutamente no! Questa leggenda che alcuni segmenti della sinistra europea si incaricarono in modo interessato di propagandare – per legittimare così il “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana e l’eurocomunismo, come corrente con ancora maggiori pretese – non era realistica.
Le forze rivoluzionarie che danno impulso e agiscono per approfondire i processi popolari non sono la causa della repressione, o delle sconfitte quando esse avvengono. Miguel Enríquez, come il Che Guevara, non si stancava di ripeterlo: le trasformazioni che non avanzano, retrocedono e cadono. La Rivoluzione Cubana è passata alla storia perché ha scelto il cammino inverso al cedimento. Quando a Cuba la destra spingeva e i colpi dell’imperialismo si indurivano, Fidel Castro spinse sull’acceleratore. Oggi il Venezuela bolivariano si trova di fronte a questo bivio storico e non è molto diverso il dilemma della Bolivia indigena, operaia e popolare. Una erronea lettura realizzano quelli che vogliono estrarre come corollario dal Venezuela e la Bolivia l’idea peregrina che si debba ricorrere a un terzo cammino tra il neoliberismo e una prospettiva antimperialista di socialismo.
Miguel Enríquez lo ha detto ripetutamente, la vera forza del governo di Allende risiedeva nella forza autonoma della classe operaia e nel settore povero della popolazione. Grave errore – tragico, sanguinoso, incluso per quelli che lo propiziavano – quello di credere che cedendo terreno ai militari, incluso incorporandoli al gabinetto di governo della Unidad Popular, si sarebbe fermato il golpe. Oggi tutto è oramai chiaro. Però Miguel Enríquez e la sua corrente già lo prospettarono all’epoca, mentre stava avvenendo. E lo stesso Fidel Castro, nel fare un bilancio in quel momento, concordò completamente. – Si possono consultare la Lettera di Fidel Castro a Salvador Allende del 29/7/1973, inviata in Cile un mese e mezzo prima del colpo di Stato del generale Pinochet e della CIA; così come si può consultare anche il discorso-bilancio di Fidel Castro su quanto avvenuto in Cile del 28/09/1973, solo due settimane dopo il golpe.
Bisogna chiarire che quando Miguel Enríquez parlava di “potere autonomo”, non voleva dire potere contro Allende, tutto il contrario. Potere autonomo significava potere indipendente dallo Stato borghese e le sue istituzioni politiche di dominazione “democratiche” e “repubblicane”.
Cambiare il mondo senza potere rivoluzionario?
Per tutta la sua corta e intensa vita politica Miguel Enríquez mise in risalto sempre la questione del potere. Questo è il primo problema di ogni rivoluzione. Al tempo di Allende e nella nostra epoca.
Quanta validità attuale hanno oggi le sue riflessioni! Soprattutto quando in alcune correnti del movimento di resistenza mondiale contro la globalizzazione capitalista sono penetrate le idee errate che ci dicono che “non dobbiamo proporci la presa del potere”. Idee equivoche che ritornano a riproporre, con altre parole, vestendo altri panni, con altre citazioni prestigiose di riferimento, la vecchia e consunta strategia della “via pacifica al socialismo”, che tanto dolore e tragedie costò al popolo cileno. In primo luogo all’eroico e carissimo compagno Salvador Allende, onesto, generoso e leale propiziatore di quella strategia, pur continuando a essere amico personale di Fidel e del Che.
Esiste un filo di continuità tra: (a) quella dottrina sovietica promossa da Mosca a partire dal 1956 della “transizione pacifica al socialismo”– nata insieme con la dottrina della “coesistenza pacifica” con l’imperialismo – ; (b) la dottrina eurocomunista del “compromesso storico” con lo Stato borghese e le sue istituzioni che si avvia in Italia, Francia e Stato spagnolo al principio degli anni Settanta, (c) la strategia del “cammino pacifico – senza prendere il potere – al socialismo” sperimentata in Cile tra il 1970 e il 1973; (d) la rinuncia di alcuni saggisti “autonomisti” delle ultime due decadi a qualsiasi strategia di potere che si fanno scudo, senza rappresentarlo, del nome prestigioso dello zapatismo messicano – o che parlano a suo nome… senza farsi carico del fatto che sono proposte loro, non necessariamente rappresentative della pratica politica e del pensiero zapatista -.
Tra (a), (b), (c) e (d) ci sono sfumature notoriamente differenti, però predominano i denominatori comuni. Nonostante le loro specifiche differenze, le conseguenze politiche sono convergenti.
Benché, se la compariamo con la rozza e rudimentale dottrina sovietica del 1956 o la fiacca dottrina istituzionale italiana degli anni ’70, negli ultimi due decenni questa vecchia dottrina si presenta in una veste teoricamente più attrattiva, in modo più rifinito e seduttore – impregnata di ingannevoli termini libertari, per esempio, o facendo appello alla indeterminazione di una gelatinosa “società civile”, presumibilmente senza lotta di classe nel suo seno.
Non abbiamo incluso in questa saga, come quinta corrente, l’orientazione “perestroika” perché non arrivò mai neanche a formulare un pensiero sistematico proprio. Fu semplicemente una capitolazione su ogni terreno, che non ridusse di un grammo la burocrazia e che non portò né più democrazia né maggiore socialismo, ma invece, semplicemente, la restaurazione brutale del capitalismo con tutta la sua spavalderia. Non per nulla una estremista neoliberista come Margaret Thatcher premiò ed elogiò fino al parossismo il patetico Gorbaciov.
Miguel Enríquez e le nuove generazioni
Tornare quindi a riscattare la riflessione politica di Miguel Enríquez sul problema del potere e della rivoluzione, realizzata non da uno Stato burocratico e invecchiato né da una comoda poltrona accademica universitaria, ma invece da una pratica politica vissuta al massimo della sua intensità negli anni della grande speranza cilena, costituisce un elemento di apprendistato insostituibile e imprescindibile per le nuove generazioni di militanti, del fraterno popolo cileno e di tutta la Nuestra América.
Continuiamo a credere, sentire e pensare che un altro mondo è possibile e necessario: il mondo socialista. Un mondo radicalmente differente e antagonista al sistema capitalista. Un mondo per il quale Miguel Enríquez, i suoi compagni e le sue compagne del MIR – nelle sue molteplici varianti – , così come i suoi fratelli e le sue sorelle del Frente Patriótico Manuel Rodríguez – FPMR, in tutte le sue tendenze – e l’insieme della Resistenza Mapuche hanno dato e continuano generosamente a immolare le loro vite.
1Si riferisce a una frase del Che, (n.d.t.).
*da medium.com/latiza
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