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Neofascismo e revisionismo di Stato: è tempo di reagire

Domenica scorsa il ministro Franceschini si è assunto la responsabilità della nomina di Andrea De Pasquale alla guida dell’Archivio Centrale dello Stato. Lo ha fatto minimizzando indecentemente l’episodio della santificazione di Pino Rauti, di cui De Pasquale fu responsabile.

La reazione delle associazioni delle vittime delle stragi fasciste è stata ferma: «La nomina di De Pasquale è un vulnus intollerabile, una operazione che sembra serva a tranquillizzare quegli apparati che ancora oggi hanno paura della verità. Noi non solo vigileremo ma non ci fermeremo qui». Se, come spero, impugneranno la nomina, avranno ottimi argomenti per vincere.

Sarebbe importante, perché ormai da anni è in corso un’agguerrita guerra culturale da parte di una destra più o meno apertamente fascista: una battaglia il cui obiettivo è niente meno che un revisionismo di Stato. E cioè la cancellazione della storia che racconta cosa fu davvero il fascismo, e cosa è stato il neofascismo criminale della seconda metà del Novecento.

Non si può nascondere che alcune battaglie revisioniste siano state vinte, grazie alla debolezza politica e culturale dei vertici della Repubblica. La legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah) rappresenta il più clamoroso successo di questa falsificazione storica.

In una coraggiosa lettera aperta, lo storico Angelo D’Orsi ha accusato il presidente Mattarella di aver fatto «un grave torto alla conoscenza storica» con il «discorso del 10 febbraio [2020], in cui non si è limitato a rendere onore a quelli che, nella narrazione corrente, ormai sono i “martiri delle foibe”, ma ha usato ancora una espressione storicamente errata, politicamente pericolosa, moralmente inaccettabile: “pulizia etnica”. Ella, signor Presidente, è caduto nella trappola della equiparazione del grande, spaventoso crimine, il genocidio della Shoah, con gli avvenimenti al Confine Orientale, tra Italia e Jugoslavia, fra il 1941 e il 1948, grosso modo».

Le cose, ha invano spiegato D’Orsi al Capo dello Stato, andarono diversamente: «la storiografia ci dice tutt’altro […]: le vittime accertate, ad oggi, furono poco più di 800 (compresi i militari), parecchie delle quali giustiziate, essendosi macchiate di crimini, autentici quanto taciuti, verso le popolazioni locali: nessun generale italiano accusato di crimini di guerra è mai stato punito».

La falsificazione agisce a tutti i livelli. Così Matteo Salvini prova a rovesciare la storia, sostenendo che il sottosegretario leghista Durigon, invocando il ritorno dell’intitolazione del Parco di Latina ad Arnaldo Mussolini, non farebbe altro che difendere una storia ininterrotta fino al provvedimento di «un sindaco di sinistra» che nel 2017 lo dedicò a Falcone e Borsellino.

È falso: quel parco cambiò nome (come la stessa città, che si chiamava Littoria…) dopo la Liberazione, e solo nel 1996 un sindaco dichiaratamente fascista recuperò la dedica al fratello del Duce (peraltro senza atti formali, ma solo facendo realizzare alcuni cartelli stradali).

Quel sindaco, Ajmone Finestra, non era un “innocuo” nostalgico: per i suoi crimini a Salò il pubblico ministero (che era Oscar Luigi Scalfaro…) chiese la pena di morte. È questa la storia che Durigon difende, e questo l’osceno grumo di neofascismo che Salvini accoglie, e su cui Mario Draghi vergognosamente tace.

Ed è questo il quadro culturale in cui si colloca un De Pasquale che, da direttore della Biblioteca Nazionale di Roma, accoglie la donazione del Fondo Rauti con un comunicato che definiva il fascista Pino Rauti «statista», e «organizzatore, pensatore, studioso, giornalista, deputato dal 1972 al 1992. Tanto attivo e creativo, quanto riflessivo e critico».

Pura propaganda di parte: che negava la ragione stessa per cui quel fondo andava accuratamente studiato, e quindi eventualmente accettato dopo averne messo in chiaro la natura – giacché era evidentemente stato creato con finalità apologetiche che avrebbero dovuto essere sottoposte a serrata critica, e non amplificate sui media.

Quel che la Destra vuole ottenere è nientemeno che la negazione radicale del presupposto della nostra Costituzione, la quale è anche «un comando sui vinti», cioè sui fascisti: dal 1948 in poi, in Italia il fascismo non è in alcun modo equiparabile all’antifascismo, né è un’opzione praticabile per il futuro. È un tabù assoluto: e tale deve rimanere, se vogliamo che la democrazia sopravviva.

Un leghista bolognese ha difeso la nomina di De Pasquale auspicando che faccia emergere dai fondi dell’Archivio Centrale dello Stato «qualcosa occultato per anni». Dalla riabilitazione dei Ragazzi di Salò perpetrata da Luciano Violante alla legge sulle Foibe, dal parco di Latina al sostegno leghista a De Pasquale l’obiettivo è sempre lo stesso: riscrivere la storia dalla parte del fascismo. Sapendo benissimo che l’unico modo per farlo, è falsificarla.

Mi sono dimesso dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali per protestare pubblicamente contro l’arroganza del ministro della Cultura Dario Franceschini, e denunciare l’umiliazione di quello che dovrebbe essere il massimo organo tecnico-scientifico del patrimonio.

Sabato il Consiglio Superiore aveva inviato al ministro una nota in cui lo invitava a «tenere in adeguata considerazione» le forti obiezioni espresse dalle associazioni dei familiari delle vittime delle stragi di Bologna, Brescia, Milano sulla nomina di Andrea De Pasquale, «anche alla luce dell’importante ruolo di garanzia attribuito dalla normativa vigente all’Archivio medesimo per la conoscenza della memoria storica dell’Italia contemporanea».

Franceschini non ha risposto, ma domenica ha annunciato che la nomina ormai era fatta. Le associazioni hanno risposto che la nomina «sbatte la porta in faccia alle associazioni e alle tante donne e uomini di cultura che si sono associati alle nostre preoccupazioni», e ribadito che «la nomina di De Pasquale è un vulnus intollerabile, una operazione che sembra serva a tranquillizzare quegli apparati che ancora oggi hanno paura della verità».

La nomina del responsabile dell’archivio centrale della Repubblica spetta al presidente del Consiglio dei ministri, che se ne è lavato le mani: così il ministro della Cultura si è trovato a godere di una insana autarchia. Nel modo in cui l’ha usata si intrecciano tutti i fili della involuzione del governo del patrimonio culturale.

La rosa dei candidati era straordinariamente esigua: perché da anni i ranghi degli archivisti di Stato vengono massacrati dal letale definanziamento imposto da una politica senza cultura e senza memoria.

Il progressivo svuotarsi della tutela consente l’espandersi dell’arbitrio del livello politico, sempre più insofferente ad ogni limite. E una parte dei funzionari rinuncia volentieri alla propria autonomia, genuflettendosi alla politica e ottenendo così una rapida carriera da yes-men.

Questa fatale deriva, che segna la fine del governo autonomo del patrimonio culturale secondo scienza e coscienza, è esattamente ciò di cui si dovrebbe occupare il Consiglio Superiore. Perché affidare l’Archivio Centrale a un non archivista che si è prestato a una aggressiva campagna neofascista, significa privare quel cruciale istituto di ogni autorevolezza scientifica, e dunque renderlo un docile strumento della politica.

Mentre l’unica garanzia che la verità storica non venga occultata o manipolata, sarebbe un soprintendente tecnicamente indiscutibile, culturalmente autorevole e indipendente dalla politica.

Ho inutilmente chiesto che il Consiglio condividesse la reazione delle associazioni alla nomina, stigmatizzando il mancato ascolto da parte del ministro. La risposta del presidente, il professor Marco D’Alberti (da qualche mese divenuto consigliere giuridico del Presidente del Consiglio Draghi) è stata che «qualunque ulteriore presa di posizione del collegio sarebbe inopportuna e istituzionalmente impropria».

Così il Consiglio continuerà a fare nomine in organi purtroppo inutili (consigli scientifici e consigli di amministrazione dei musei autonomi soggetti all’arbitrio dei super direttori), ad approvare finanziatissimi progetti speciali dei quali non riceve adeguata documentazione, e a tenersi accuratamente lontano dai problemi veri.

Clamoroso il caso del PNRR e della conseguente istituzione di una Soprintendenza speciale: ci è stato consentito di parlarne solo dopo che il Consiglio dei Ministri aveva preso la decisione. E allora qual è il ruolo del Consiglio nel governo del patrimonio?

Dimettendosene, il 28 maggio 1960, Ranuccio Bianchi Bandinelli scriveva che «il Consiglio Superiore non è tenuto quale organo attraverso il quale alcuni competenti specialisti sono chiamati ad affiancare e orientare le direttive ministeriali, ma piuttosto come strumento per avallare e coprire decisioni già prese, spesso provocate da pressioni che possono dirsi politiche solo nel senso deteriore del termine, cioè del tutto particolaristico e clientelistico».

È ancora così: e se quelle decisioni rappresentano un’apertura al revisionismo fascista, è il momento di dare l’allarme. Non lascio il posto di combattimento: lascio un Consiglio Superiore reso inutile, ma resto nel Comitato tecnico scientifico delle Belle Arti, presidio di tutela dell’interesse generale.

In Assemblea Costituente, Concetto Marchesi spiegò quale fosse la colpa degli intellettuali fattisi zona grigia intorno all’avanzata del fascismo: «Perché è avvenuto tutto questo? Per mancanza di capacità e di cultura? No: per mancanza di coscienza civile. È avvenuto […] perché si trattava di una scienza, di una cultura, di un’arte interessata, e quindi destinata a volgersi verso tutti gli approdi sotto la spinta di ogni vento».

Per la piccola parte che dipende da me, la storia non deve ripetersi.

*Storico dell’arte, rettore dell’Università per stranieri di Siena

Da: volerelaluna.it

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2 Commenti


  • Liliana

    Tutto ciò è da vomito.


  • Serena luciani

    Concordo pienamente. Una china pericolosa.

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