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“In difesa della Jugoslavia”, pubblicata la seconda edizione

Curata dal Coordinamento nazionale per la Jugoslavia (CNJ), è uscita la 2° edizione del volume “In difesa della Jugoslavia – La tragica vicenda di Slobodan Milošević da capro espiatorio ad accusatore per la distruzione del suo paese”, notevolmente più ampia rispetto alla prima, anch’essa edita da Zambon quindici anni fa e curata dalla Sezione Italiana del ICDSM (International Committee to Defend Slobodan Milošević). Da allora, scrivono i curatori del libro, «ulteriori gravi fatti sono accaduti, a partire dalla liquidazione fisica dello stesso Milošević nella galera de L’Aja», dopo l’uscita di quella prima edizione.

Nelle 540 pagine della nuova pubblicazione viene dunque presentata una gran mole di documentazione sul rigetto della richiesta di Milošević per cure appropriate; si riportano diversi interventi del prof. Aldo Bernardini, ordinario di Diritto internazionale e tra i personaggi-chiave della campagna per Milošević, scomparso nel 2020; a chiusura, una cronologia e una bibliografia ragionate.

Il pregio del lavoro consiste nel fatto che è praticamente l’unico testo che, nel panorama editoriale italiano, sia mai stato dedicato a documentare la figura Slobodan Milošević, allargandosi quindi al complesso del dramma jugoslavo.

Ed è tanto più prezioso per il lettore italiano, in quanto, nell’ultima delle nove sezioni di cui si compone, curata dal Segretario del CNJ, Andrea Martocchia, si dà conto, tra l’altro, delle innumerevoli azioni legali, relative ai tre mesi di aggressione NATO alla Jugoslavia nel 1999, intraprese sia a livello di istituzioni internazionali, che nei singoli paesi, compreso il nostro, con le numerose denunce (e, soprattutto, con l’assoluta inattività della magistratura italiana), presentate da varie organizzazioni contro diversi esponenti del governo D’Alema, complice attivo di quell’aggressione.

Prima che cessassero i bombardamenti NATO, protrattisi da marzo a giugno 1999, il 27 maggio il Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia (ICTY) accusava Milošević di crimini contro l’umanità. Più tardi, l’ex Presidente dirà: «Il significato della persecuzione contro di me è trasformare la Jugoslavia, vittima dell’aggressione, e me come suo leader, negli autori della tragedia che la NATO ha organizzato sul territorio del mio paese. Così, vorrebbero coprire i loro crimini. Ecco perché stanno cercando di mandarmi a L’Aia».

Il 1 aprile 2001, Milošević viene arrestato a Belgrado con un’accusa pretestuosa e, due giorni prima della scadenza della carcerazione preventiva, per l’assoluta mancanza di prove, il 28 giugno viene rapito dal carcere, trasferito in una base militare USA in Bosnia e, da lì, al ICTY a L’Aja: l’allora primo ministro Zoran Džindžić non aveva esitato a estradare Milošević, in cambio della promessa occidentale di sblocco degli “aiuti” finanziari a Belgrado.

Il 12 febbraio 2002 iniziava il processo. Milošević non uscirà più, vivo, dalla galera NATO a L’Aja, dopo esser rimasto sotto processo, nel tribunale NATO a L’Aja, fino al suo assassinio, nel marzo 2006. Il 28 febbraio 2004 Fox News scriveva: «Milošević sarà probabilmente assolto dalle accuse di genocidio», dato che dopo due anni di processo, era «convinzione diffusa» che i pubblici ministeri «non fossero riusciti» a sostenere le accuse.

L’avvocato canadese Christopher Black, capo della Commissione giuridica del Comitato internazionale per la difesa di Milošević, aveva sintetizzato la situazione: «il processo era necessario alla NATO per giustificare l’aggressione contro la Jugoslavia e il golpe supportato dalla NATO», che nell’ottobre 2000 aveva destituito Milošević, e dunque «non poteva che finire in uno dei due modi: o con la condanna o con la morte del Presidente Milošević… Ma una condanna era diventata chiaramente impossibile, dopo la presentazione degli elementi di prova», così che «la sua morte è diventata l’unica via di uscita possibile per le potenze della NATO».

Rispetto alla prima, nella seconda edizione del libro curato dal CNJ, ci sono anche moltissimi nuovi materiali pubblicati nelle cinque edizioni tedesche e in altri saggi, come ad esempio il libro di Vukašin Andrić, medico personale di Milošević, “Anatomia di un assassinio giudiziario”.

Milošević «non è morto di infarto l’11 marzo 2006» afferma Andrić, ma è stato «ucciso tra le 22.30 e le 23 del giorno prima nella sua cella E04 utilizzando “droperidolo”… sicuramente non avrebbe potuto lasciare vivo l’Olanda». Milošević, dice ancora Andrić «aveva ridotto in frantumi il Tribunale de L’Aia; demolito completamente tutte le accuse, e questo fu il motivo della sua liquidazione… Dopo che Carla Del Ponte si accorse che non poteva fare più nulla, ne seguì immediatamente la morte» dell’ex Presidente.

Si chiudeva così il cerchio aperto coi 78 giorni di bombardamenti NATO (in realtà, il via definitivo alla frantumazione della Repubblica socialista federativa jugoslava, era stato dato nel 1991 con la sponsorizzazione europeista e vaticana delle secessioni slovena e croata, che condussero alla guerra dei dieci giorni in Slovenia nel 1991, a quella in Croazia nel 1991-1995, in Bosnia nel 1992-1995; rimaste sole, Serbia e Montenegro diedero vita alla Repubblica federale jugoslava) proseguito con il golpe a Belgrado organizzato dalla CIA nel 2000, con la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo nel 2008 e coi tagliagole del UCK assurti ai vertici del nuovo “paese”.

Tredici anni dopo, non cessano le provocazioni anti-serbe, con la differenza che, oggi, il Presidente serbo Aleksandar Vučić, ammorbidendo di molto la linea di Belgrado, sembra aver interesse a fare tante concessioni a Priština, quante ne richiede Bruxelles per accogliere la Serbia nella UE.

Con un’altalena che ricorda le ripetute bizze del Presidente bielorusso Aleksandr Lukašenko nei confronti di Mosca, nel 2020 Vučić aveva firmato il cosiddetto accordo di Washington, in base al quale si era impegnato ad abbandonare le forniture energetiche dalla Russia (salvo oggi vantarsi di ottenere da Putin significativi sconti sul gas russo: in realtà, scrive l’esperto energetico serbo Miloš Zdravković, ciò è possibile semplicemente perché la Serbia si trova sul percorso del “Turkish stream”, e non per le capacità di Vučić) e, poco dopo, Belgrado aveva annullato la partecipazione alle esercitazioni militari congiunte serbo-russo-bielorusse “Fratellanza slava”, il giorno prima dell’inizio.

Quindi, la primo ministro Ana Brnabić, aveva firmato in Turchia una dichiarazione per una più stretta cooperazione con la NATO e un’integrazione euro-atlantica della regione. Quindi, la Serbia ha aderito alle sanzioni UE contro Minsk; durante le varie crisi in Kosovo, ha invitato formalmente gli USA a partecipare ai colloqui di Bruxelles, ma non ha invitato la Russia, quale principale garante della Risoluzione 1244, che definisce lo status di Kosovo e Metohija nella compagine serba.

Con gli Accordi di Bruxelles, sono stati ufficialmente liquidati tutti gli elementi dello Stato serbo in Kosovo e Metohija: sciolti amministrazione statale, ufficio del Pubblico ministero e magistratura, mentre agenti di polizia, giudici e Pubblici ministeri devono prestare giuramento davanti alla “costituzione” e ai simboli del cosiddetto Kosovo. In sostanza, Priština ha oggi quanto reclamava nel 1999.

Guardando alle conseguenze per il presente, qualche tempo fa il sociologo Zoran Milošević ha dichiarato che «L’aggressione della NATO capovolse verso occidente le politiche serbe e montenegrine, nel senso che iniziò il disfacimento dell’esercito e il trasferimento delle risorse economiche chiave, la penetrazione dei valori occidentali nel nostro sistema educativo, la subordinazione dei media».

Osservatori russi hanno scritto che «con l’esempio della piccola Serbia, l’Occidente ci ha mostrato cosa sarebbe successo a noi; solo una circostanza non ha loro permesso di condurci sullo scenario jugoslavo: l’arma nucleare».

E ancora: l’aggressione NATO del 1999 non fu che «la fase finale della strategia per il controllo totale dell’Occidente sui Balcani. La Casa Bianca aveva messo a punto i piani per la distruzione della Jugoslavia, come stato più ricco e strategicamente più importante della regione», sin dal 1984, con l’amministrazione Reagan.

Nel 2018, il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, ha ammesso candidamente che l’aggressione del 1999 servì a «prevenire ulteriori azioni del regime di Milošević», rimuoverlo con la forza e sostituirlo con «un altro, più adatto».

Sempre nel 2018, rispondendo alla domanda se l’aggressione NATO si ripetesse oggi, a suo parere, la Russia interverrebbe nel conflitto, il Ministro degli esteri serbo Ivitsa Dačič rispose: «Ne sono convinto… immaginiamo come sarebbe andata la storia se nel 1999 fosse stato presidente Putin, la Russia fosse stata la stessa di oggi e la nostra leadership avesse chiesto aiuto».

Nella nuova edizione di “In difesa della Jugoslavia”, oltre alla dettagliata dichiarazione di Milošević, in apertura del “dibattimento difensivo”, nel settembre 2004, c’è un’intera sezione dedicata a interventi, scambi epistolari, interviste, lettere di Milošević, prima e durante la sua carcerazione a L’Aja.

Viene riprodotta la lettera del ICDSM al Consiglio di Sicurezza dell’ONU e al Presidente della Corte d’Appello del ICTY, del 10 marzo 2006; ci sono stralci dall’intervista di Mirjana “Mira” Marković al quotidiano Novosti, del 14 marzo 2006.

E, di particolare rilevanza, una tra le innumerevoli rivelazioni di Wikileaks (ovviamente ignorata dai media) che nel 2011 mostrava come l’ex direttore della galera de L’Aja, Tim McFadden, informasse costantemente l’ambasciata USA in Olanda sullo stato di salute di Milošević.

Interessanti anche la quinta e l’ottava sezione del volume: una, relativa al contributo dato dal Nobel per la letteratura Peter Handke alla causa jugoslava e al “caso Milošević”; l’altra, con le analisi di Edward S. Herman e David Peterson sul sistema mediatico di demonizzazione di Milošević, con il silenzio sui nazionalismi croati e bosniaci, di contro alla esagerazione del “nazionalismo di Milošević”, il quale, in realtà, auspicava «fratellanza e unità per la sopravvivenza della Jugoslavia» multinazionale.

Nello specifico della Repubblica federale jugoslava e dei preludi dell’aggressione del 1999, è il caso di ribadire come l’Occidente, sfruttando le ambizioni separatiste degli albanesi del Kosovo, non esitasse a inscenare stragi e attribuirle a crimini serbi, invocando quindi il “diritto” di “proteggere” la popolazione albanese.

Su tale sfondo, si arrivò agli incontri di Rambouillet del febbraio 1999, con il cosiddetto “Gruppo di contatto” (USA, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Russia), per sistemare la situazione attorno al Kosovo. Il “Gruppo” non poteva che partorire ciò che altrove, sin dall’inizio, era stato concepito: il cosiddetto “accordo” prevedeva che il Kosovo sarebbe rimasto sotto amministrazione NATO, come regione autonoma jugoslava, con lo spiegamento di 30.000 (!) soldati NATO; contemplava un illimitato diritto di transito per le truppe NATO in territorio jugoslavo e l’immunità per il personale NATO di fronte alla legge jugoslava.

Il sacrosanto rifiuto di Milošević di firmare (anche la Russia non firmò) tale obbrobrio, venne preso a pretesto per i quasi tre mesi (dal 24 marzo al 10 giugno 1999), di bombardamenti del “Occidente collettivo”.

Per quanto riguarda le altre accuse mosse a Milošević, oltre che per il “Kosovo”, nel 2001 lo si imputò di coinvolgimento nella “pulizia etnica” di croati e di altra popolazione non serba sul territorio della Croazia nel 1991-1992; seguì l’accusa di partecipazione al genocidio durante il conflitto bosniaco nel 1992-1995.

Qualche mese fa, vari siti russi riportavano la testimonianza dell’ex agente della CIA Robert Baer al giornale bosniaco WebTribune, secondo cui negli anni 1991-’94 la sua sezione disponeva di milioni di dollari per le attività in Jugoslavia, in particolare per la secessione delle varie repubbliche.

Alla domanda su quali esponenti bosniaci fossero al soldo della CIA, Baer faceva i nomi di «Stipe Mesić, Franjo Tudžman, Aliya Izetbegović», ma anche «molti funzionari e membri del governo in Jugoslavia, generali serbi, giornalisti, ecc.; per qualche tempo pagammo anche Radovan Karadžić, ma lui smise di prendere soldi quando capì di poter essere sacrificato e accusato dei crimini in Bosnia, organizzati in realtà dall’amministrazione statunitense».

La stessa cosa di quanto avvenuto nel 1995 con Srebrenitsa, che, come hanno poi dichiarato ex agenti della CIA, «ricade su bosniaci, serbi e americani; ma, di tutto furono accusati i serbi. Molte delle vittime sepolte come musulmane erano serbe e di altre nazionalità… Srebrenitsa fu il risultato di un accordo tra il governo USA e i politici bosniaci… fu sacrificata per dare all’America il pretesto per attaccare i serbi».

Insomma, invece di investigare sulla legalità delle azioni della NATO, il ICTY, come rilevò nel 2017 il Ministro degli esteri russo Sergej Lavrov tirando le somme dell’attività del tribunale, aveva indirizzato l’80% del proprio lavoro esclusivamente contro i serbi.

A dir poco beffarda, e di un cinismo che supera ogni immaginazione, appare dunque quella sentenza di cui scriveva nel 2018 il New York Times, secondo cui un ex pilota USA avrebbe intentato causa alla Serbia per il “trauma morale” da lui subito per aver partecipato ai bombardamenti su Belgrado del 1999. Il colmo era che il giudice aveva riconosciuto “legittime” le sue motivazioni, stabilendo che il risarcimento fosse a carico della Serbia, “responsabile della guerra”.

Per tutto questo, ma non solo, e nel quadro delle odierne strategie “planetarie” di una NATO che spazia dal Pacifico all’Oceano indiano, al mar Nero, all’Africa, ci sembra difficile sopravvalutare il valore di “In difesa della Jugoslavia – La tragica vicenda di Slobodan Milošević da capro espiatorio ad accusatore per la distruzione del suo paese”.

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