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Il tempo della libertà e il tempo della schiavitù

Tracciare le linee per una storia dell’istituto della schiavitù, e ancor di più di quello della libertà ove mai sia possibile, risulta compito assai arduo, anche per una rapida sintesi. Tuttavia, c’è un dato: i canoni per la definizione delle idee di libertà e di schiavitù sono variati nei diversi periodi della storia.

La volubilità di tali parametri è stata casuale, oppure stabilita dalle classi egemoni?

Sebbene non sia facile datare con precisione la nascita della schiavitù, appare abbastanza certo che già nel periodo a cavallo tra la civiltà minoica e l’epoca micenea, se ne potrebbero rintracciare i primi indizi.

In età antica, si diventava schiavo per vari fattori: prigionia conseguenza di una sconfitta in guerra; oppure vendita, con relativo acquisto da parte del padrone: la cosiddetta schiavitù-merce.

I mercati di schiavi erano collocati sia alla periferia del mondo greco, sia sui principali assi commerciali. Talune poleis democratiche, come Atene, hanno costituito la piattaforma per lo sviluppo di tale modello schiavistico; gli schiavi disponibili sul mercato, comunque, per la maggior parte erano Barbari, ‘altri’ rispetto ai Greci.

Se Atene piange, Sparta non ride. Mentre nelle città con ordinamenti democratici la maggioranza degli schiavi era stata acquistata, nelle poleis con costituzioni non democratiche, vigeva la schiavitù ilotica.

I dorici colonizzarono intere popolazioni ivi autoctone, riducendole violentemente allo stato di servitù agraria. Queste masse di uomini e donne, gli iloti, coltivavano le terre per la comunità degli aristocratici, consegnando loro buona parte del raccolto.

Si trattava, in ogni caso, dello squilibrato rapporto tra élite al potere ed esclusi da esso: sia a Sparta, sia ad Atene, con rispettivi ‘Stati satelliti’. Gli episodi di ribellione di tali etnie asservite sono stati numerosi, soprattutto dove veniva praticato l’ilotismo.

I più assidui traffici commerciali di schiavi furono praticati con l’impulso determinante delle élite dominanti delle città democratiche, ovviamente Atene su tutte. La democrazia ateniese aveva una necessità sociale, prima ancora che economica, del lavoro degli schiavi: questa contraddizione evidente, spesso non viene presa in considerazione dagli attuali alfieri dell’indispensabilità della democrazia liberale nelle società contemporanee, bisognosi di un riferimento storico ‘puro’ a cui appigliarsi.

Ma che, appunto, puro non è: la continuità della pratica schiavistica nel mondo antico, senza escludere dal novero la democrazia ateniese, è un elemento di cui tener sempre conto.

Forse, non è lecito parlare di un’economia schiavista, perché sovente la forza lavoro dei ‘non liberi’ fungeva da supporto all’organizzazione complessiva del lavoro interna alle poleis, ma definire quella greca come una società schiavista, sicuramente è un’affermazione storicamente legittima.

E nemmeno si è mai differenziata una corrente di pensiero antischiavista tra gli osservatori politici antichi: l’unico trattato specifico su tale fenomeno, Sulla libertà e sulla schiavitù, scritto da Antistene, allievo di Gorgia, purtroppo è giunto a noi solo con pochissimi frammenti.

Nemmeno tra gli altri sofisti, che pure erano in possesso di schiavi nelle loro proprietà, emergeva un’autentica barricata antischivista. Ma va dato ad alcuni di loro il merito di aver provato a introdurre nuovi argomenti ‘civili’ riguardanti il tema della schiavitù nel quadro della riflessione politica del periodo classico.

La libertà era l’opposto della schiavitù: un’enunciazione all’apparenza scontata, ma tra le diverse caratteristiche che segnavano la differenza di condizione tra i due status sociali, tale assunto ci indica una divaricazione fondamentale: quella del tempo.

Privo di capacità decisionale, lo schiavo consacrava il proprio tempo allo svolgimento delle attività all’interno dell’organizzazione del lavoro cittadina creata, tuttavia, dall’élite dei liberi, i quali, di contro, decidevano del tempo della propria libertà.

Nonostante il messaggio radicale del Vangelo e dei primi pensatori cristiani (secondo cui la schiavitù era una manifestazione umana da eliminare), e influenzato anche dall’eredità del diritto romano, nemmeno il medioevo cristiano seppe produrre una svolta considerevole rispetto alla pratica schiavistica.

“Fratelli in Cristo” in base alla dottrina della Chiesa, le figure del padrone e dello schiavo, nella loro impari relazione, di fatto, continuarono a sopravvivere a lungo dopo la caduta dell’Impero romano.

Il servo della gleba, utilizzato in agricoltura, non è esattamente sovrapponibile all’immagine dello schiavo antico, tuttavia, il tempo della propria condizione era decretato dalla scala gerarchica dominante, costituendo l’ultimo anello sociale, con rare possibilità di affrancamento.

Ma fenomeni pienamente schiavistici seguitarono a verificarsi nella complessità delle società medievali più mature: per esempio, nelle Repubbliche marinare italiane, anch’esse riportate come governi democratici.

Il progresso dei costumi, riguardanti anche la schiavitù, ha lentamente modificato l’approccio al fenomeno (così come gli studi del periodo moderno e contemporaneo dimostrano).

In questo senso, molto si deve ai filosofi illuministi che hanno ipotizzato un nuovo “diritto naturale” e hanno cercato la realizzazione dell’esistenza umana sulla scorta di argomentazioni puramente razionali. E, parzialmente, eredi anche di quella missione morale di svolta radicale indicata dal Vangelo: il programma di fratellanza degli esseri umani rielaborato in chiave laica trova i prodromi, altresì, nella divulgazione del Cristianesimo delle origini.

Da qui in avanti si sono determinate sostanziali obiezioni alla schiavitù, principalmente come istituzione giuridica. Locke, ma anche Montesquieu – sebbene quest’ultimo abbia concesso qualche deroga alle esigenze politiche del suo tempo, tollerando la schiavitù nei paesi tropicali e giustificandola con le dure condizioni di vita dei colonizzatori europei.

E, poi, Rousseau del Contratto Sociale: celebre la citazione secondo cui la libertà civile è reale quando “nessun cittadino deve essere abbastanza ricco da poterne comprare un altro e nessuno così povero da essere obbligato a vendersi” (II, 11).

In quest’ottica, era vera democrazia quella ateniese e le altre ad essa retoricamente ispirate nella storia politica? Certamente: una democrazia antica con schiavi. E non quella decontestualizzata e quasi astorica che per troppo tempo ha edulcorato la narrazione liberale, alla ricerca delle radici di una forma culturale e politica, resistente e vincente nei secoli.

Una storia che, appunto, non tiene.

Nel 1776 prende vita la Dichiarazione di Indipendenza americana, che segnò il primo passo verso una graduale limitazione della schiavitù, ma ci vorrà ancora un secolo e tanta violenza per decretarne l’abolizione legale (e solo legale!). Anche in questa occasione, i democratici sostennero, fino alla fine della guerra civile americana, la legittimità della pratica schiavista.

L’istituzione giuridica della schiavitù, quindi, è stata gradualmente eliminata, e solo in un recente storico: ma siamo sicuri che ad essa sia associata anche l’eliminazione del fenomeno schiavistico?

Lo spartiacque tra le società capitalistiche e quelle precedenti è stato scandito proprio dai nuovi sviluppi economici che hanno reso e rendono il nuovo uomo salariato schiavo del lavoro e dei processi di sfruttamento, sempre più articolati e alienanti. Ad eccezione dell’attività artistica, in virtù della “connessione armoniosa” che si crea tra l’artista stesso e la realizzazione della propria opera, almeno secondo Marx.

Se, dunque, da un lato la schiavitù era giuridicamente superata o, comunque, in via di superamento in gran parte del mondo occidentale, essa si conservava nella necessità, economicamente fisiologica del nuovo ordine produttivo, di perpetrare l’asservimento rispetto ai tempi e ai meccanismi del moderno processo lavorativo ai danni del nuovo esercito di salariati.

Se, però, gli ultimi due secoli sono stati caratterizzati da una visione collettiva, almeno in molte società nazionali, anche il concetto e la pratica della libertà – e con esso anche lo sfruttamento schiavistico, diretto o meno diretto – hanno attraversato complessivamente tale senso comunitario. Con annesse lotte per i diritti, siano esse sfociate in vittorie o sconfitte.

Dalla contrapposizione novecentesca tra la libertà dell’Occidente al cospetto della ‘non libertà’ dei paesi dell’est, è scaturita l’egemonia della “libertà di mercato”, diventata globalizzata, più che globale. E con essa, negli ultimi trent’anni, abbiamo assistito all’atomizzazione dei diritti sulla base del mantra sociale, sempre più artificialmente costruito, della centralità della “libertà individuale”, sola ed esclusiva.

Libertà che semanticamente è stata sempre più braccata da ambienti e movimenti conservatori, se non proprio reazionari: l’individuo ha sopraffatto il collettivo, la moltitudine ha smembrato la classe.

Ma anche la condizione di schiavitù, non accedendo a una visione di classe e a una prospettiva di società, si è atomizzata afferendo anch’essa alla sfera dell’individualità.

Questo non vuole dire che si è limitata e addolcita la forza animalesca dello sfruttamento. Tutt’altro. Si è affievolita, quanto disgregata, la capacità collettiva di farsene capo. Ognuno vive nel suo schiavismo, un po’ meglio o un po’ peggio della condizione schiavile dell’altro.

Nello smantellamento della forma collettiva a tutti i livelli, anche la schiavitù è diventata una questione individuale: ‘fatti tuoi, basta che non intacchi la mia libertà‘; che si tramuta, sovente, in libertà di essere schiavo.

Si è così determinato un ordine sociale, economico, politico fondato sul finto benessere individuale (o sarebbe meglio dire malessere): dal ‘conosci te stesso‘ al ‘pensa (solo) a te stesso‘.

Eppure, le forme della schiavitù sembrano avere connotati comuni e inelluttabili che hanno attraversato le diverse età, da quella antica alla contemporanea: come mai non si riesce più a vedere con chiarezza queste forme anche nella dissoluzione di un mondo passato e l’arrivo, tardivo, di un altro?

Proprio in questo chiaroscuro va programmata una lotta avanzata, sociale e culturale. È necessario riconsegnare una diversa forza semantica, oltre che filosofica, politica e, soprattutto, sociale alla dualità libertà-schiavitù?

Obbligatorio è ripensare, riformulare: la concezione della libertà non è stata mai pura, neutrale e unitaria, ma è variata in base all’opportunità delle epoche e, spesso, delle rispettive classi dirigenti che ne hanno determinato tempi e schemi. A volte anche per la necessità della conquista di taluni diritti, non necessariamente borghesi, almeno nel ‘900, rientrando, poi, non casualmente nella logica economicistica.

Nel XXI secolo, tuttavia, l’idea di libertà rischia di avere connotati quasi esclusivamente negativi a cui bisogna contrapporre un altro paradigma, seppur non esaustivo, inserito in un modello di idee, coerente e condiviso, diverso dalla deriva dominante. Uno sforzo ideale, sistemico insomma, che unisce anche le frazioni di pensiero e posizioni, ormai diventate eccessive anche nel panorama politico e culturale presente.

Anzi, l’atomizzazione politica segue proprio questo criterio dominante di libertà conservatrice. In quest’ottica, sarebbe un’autocritica che talune componenti antagoniste dovrebbero valutare.

La schiavitù resta quasi sempre una costante. Certo, la schiavitù riguarda la forma morale: Platone parlava anche dello schiavo delle passioni, dei vizi, ossia, in termini moderni, delle dipendenze, per esempio, dal profitto.

Inoltre, la schiavitù ha sempre rappresentato una forma di lavoro. Estremo, forzato, violento, ma comunque una forma di lavoro, non necessariamente palesato dalle catene di ferro.

Al contrario della manifestazione schiavile, la libertà può attuarsi solo quando “l’uomo socializzato, i produttori associati regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, anziché essere da esso dominati come un forza cieca” ed esterna da sè, scriveva Marx nel Capitale.

Anche quest’ultimo, insieme all’ateniese, cestinato dal pensiero liberale nel novero dei filosofi promotori di “società chiuse”. Sarebbero quelle liberali contemporanee, invece, le “società aperte”? Nell’ottica dell’élite ‘demo-liberale’, certamente sì; dal punto di vista dei nuovi asserviti, probabilmente no.

In seno al cambiamento radicale delle forme di lavoro all’interno del sistema produttivo, se possibile ancora più spietato, che questo secolo sta vivendo e vivrà, interrogarsi sul mutamento delle forme individuali di schiavitù è un ulteriore sforzo necessario, non solo dal punto di vista intellettuale.

In questo senso, le tracce per seguire il percorso dell’asservimento attuale sono relativamente più visibili, anche osservando il corso della storia, ma soltanto in uno stadio di consapevolezza diversa, maggiore e più avanzata.

La schiavitù ha sempre occupato la forma del tempo, e in questo non è mai cambiata. Tale dimensione rappresenta una costante storica.

Il tempo che avevano gli schiavi antichi, così come i servi medievali, oltre alla fatica, era scarsissimo, praticamente nullo. Il tempo che hanno gli ‘schiavi contemporanei’ è davvero poco, ma meno apparente.

Il tempo degli esclusi deciso in un ‘altrove da sè’ rappresenta un legame tra la schiavitù antica, la servitù medievale e il lavoro salariato nell’organizzazione sociale capitalistica: una costante a vantaggio delle classi egemoni.

Il tempo oltre al lavoro (anch’esso sempre più lasco e indefinito) è cadenzato da rituali ben ponderati dal modello capitalistico. La smania di acquistare cose materiali è uno di questi, ossia il desiderio di sentirsi un libero ricco in potenza: instillare sistematicamente l’idea di realizzazione in base alla materialità che si compra con quel poco che si guadagna realmente, è un’operazione minuziosa e ormai inesorabile, che viene da lontano e che prosegue nel modello formativo, comportando anche un finta soddisfazione psicologica.

Una riduzione del tempo che comporta una minore la partecipazione alla sfera pubblica, creando un’autentica contrazione della democrazia, che sta portando a forme di apatia popolare di cui si possono intravedere molti indicatori.

L’altro tempo, insomma, si è indotti a passarlo davanti a un qualsiasi ‘schermo di compagnia’ che consiglia acquisti, con annessi stimoli al tempo del ‘desiderio materiale di possedere’ e consumare. Davvero un capolavoro di raffinatissima, quanto disumana fattura. E siamo ancora in un ordinamento democratico.

C’è libertà oltre il lavoro e lo schermo.

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