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Capitalismo e popular music all’ombra di Spotify

La recente disputa fra Neil Young e Spotify ha riacceso l’attenzione attorno a questa piattaforma, considerata da molti il male assoluto del nuovo panorama della fruizione musicale.
La questione ha il suo fondamento ma è rintracciarsi in quale sia il ruolo del mercato, più sfacciatamente neoliberista, nella popular music quindi partiamo con ordine.

La questione Neil Young e Joe Rogan

La disputa scatenata da Neil Young che ha eliminato la sua musica dalla piattaforma seguito da Joni Mitchell, Stephen Stills, Graham Nash e altri, non verte sulla questione spinosa dei dividendi dati agli artisti ma sulla coesistenza con i podcast di Joe Rogan accusato di diffondere fake news e propaganda novax attraverso il suo The Joe Rogan Experience.

Neil Young non è nuovo a dispute con i siti di commercializzazione digitale. Nel 2015 aveva ritirato la propria musica dalle piattaforme accusate di diffondere audio di scarsa qualità proponendo in alternativa un proprio fallimentare sistema di ascolto ad alta qualità stile IPod chiamato “Pono Player” legato alla piattaforma “Pono Music” e poi creando un proprio sito a pagamento di streaming ad alta fedeltà: i Neil Young Archives.

Ci troviamo difronte a una disputa con Spotify che non verte né sulle royalties versate agli artisti né sulle pregresse polemiche sulla qualità audio, ma sulla coesistenza dei podcast di Rogan con la musica di Neil Young, occasione prontamente colta da Amazon Music e dai concorrenti di Spotify per cercare di rastrellare alcuni dei 6 milioni di ascoltatori/mese del cantautore canadese.

In questo quadro le accuse fatte da tempo sulle basse royalties di Spotify agli artisti non hanno nulla a che fare, sono temi che non hanno mai riguardato il cantautore canadese che non ha mai messo in discussione il sistema capitalista che governa il mercato discografico, né adesso né prima, quando i dischi venivano stampati dalla manodopera operaia delle fabbriche fordiste di manufatti.

Con tutta la stima e la simpatia che ho per questo artista è innegabile che questo si comporti come la maggioranza dei suoi colleghi, più o meno famosi, all’interno del sistema di produzione capitalista: come un professionista ingaggiato dal sistema industriale in base al proprio potere contrattuale di generare ricavi.

La crisi industriale del mercato dei supporti

Il fenomeno della popular music nasce e si diffonde nella società di massa nata come conseguenza del grande sviluppo delle forze produttive innescato dal capitalismo del ‘900 e si avvale dei suoi sistemi di produzione esattamente come avviene per le altre merci.

Questo vasto perimetro, diviso in innumerevoli segmenti che vanno dal canzonettaro sanremese fino al jazzista più rigoroso, impiega i modelli di produzione capitalisti applicati al settore musicale, un pezzo importante della famosa “industria culturale” di adorniana memoria.

L’industria musicale è concentrata ormai in poche multinazionali multimediali chiamate “majors” ma nei suoi settori collaterali è stata in grado di generare un universo di piccole imprese indipendenti in grado di favorire la propagazione di nuove tendenze atte ad alimentare i nuovi mercati emergenti, figli dei cambiamenti di costume e sociologici che sono insiti nella suddivisione in stili e modelli di consumo nei quali il vasto territorio della popular music si è articolato.

La fase che va dal secondo dopoguerra a fine secolo ha determinato una bolla espansiva del mercato della popular music essenzialmente legata alla necessità tecnica di diffondere i contenuti creativi tramite un supporto fisico.

Questa tendenza si è ridimensionata a causa dello sviluppo tecnologico che ha il crollo di interi indotti economici facendo retrocedere la produzione di popular music da attività altamente redditiva in grado di generare infiniti ricavi a un settore con capacità più limitate a causa del superamento dei supporti a favore della smaterializzazione del consumo.

La contrazione del mercato ha cancellato letteralmente alcuni elementi della filiera e ne ha fortemente ridimensionati altri rischiando di riportare alcuni strati produttivi al livello di amatorialità extra-economica che aveva la “musica popolare” in epoca pre-industriale.

Sostanzialmente la figura produttiva di coloro che realizzano a livello creativo la popular music allo stadio “grezzo” non è quella di lavoratore subalterno salariato, piuttosto è quella di un professionista che contratta con il sistema industriale compensi in base alla propria capacità di divenire parte attiva nella realizzazione di un prodotto di consumo.

La capacità dell’autore-esecutore di generare plusvalore viene messa in atto immettendo il prodotto musicale “grezzo” nel sistema di produzione delle merci in cui le figure subalterne sono quelle tipiche dell’attuale sistema di produzione e distribuzione capitalista.

 

Artisti radicati come Neil Young o Paul McCartney, che provengono dall’età dell’oro della produzione dei supporti, si avvalgono di alcuni vantaggi oggettivi rispetto ai nuovi artisti-produttori: uno è quello di provenire dall’epoca storica dei grandi movimenti giovanili che avevano eletto gli artisti rock a bandiere della controcultura della contestazione, l’altro è negli enormi investimenti pubblicitari che venivano dispiegati fino agli anni ’90 attorno alle produzioni di popular music a fronte degli immensi ricavi di cui resta ormai solo un ricordo.

Il processo ristrutturativo innescato circa trent’anni fa dalla rapida diffusione dei sistemi digitali che ha coinciso con il crollo del mondo bipolare ha fatto sentire i suoi maggiori impatti proprio nei settori dell’audiovisivo e dell’editoria.

La rete e lo streaming

Nel quadro attuale, le ultime due fasi che abbiamo attraversato, frutto dello sviluppo delle forze produttive, quella del download e quella dello streaming, oltre ad aver dematerializzato i supporti, hanno anche determinato un radicale cambiamento nei modelli di consumo.

Le due fasi del digitale, infatti, hanno reso la fruizione del prodotto discografico sempre più ubiqua e frammentata permettendone un consumo estemporaneo e casuale che ha spostato sempre più la percezione dei nuovi consumatori della merce musicale come di una commodity.

La devalorizzazione della percezione del consumo musicale è iniziata nell’era delle copie pirata dei cd, si è acuita a dismisura nell’era dello “scarico selvaggio” grazie al file sharing e ha assunto dimensioni ancora maggiori nell’età dello streaming. Le logiche di redditività dello streaming sono decisamente diverse da quelle delle epoche precedenti e un brano musicale genera un ricavo medio per utente decisamente inferiore a quello di un 45 giri del 1965 o di una stampa in CD.

Ma un qualsiasi prodotto, pur eliminando i costi industriali di stampa di trasporto e di distribuzione fisica, deve ancora passare per processi produttivi complessi e costosi quali costi di registrazione, uffici stampa, management e marketing, booking, acquisti di spazi pubblicitari e mediatici, tutti elementi di una filiera produttiva che nell’attuale fase è costretta a concentrarsi su un numero limitato di merci in grado di garantire ricavi sicuri.

Le statistiche di download e di streaming di MRC Data del 2021 hanno, infatti, mostrato che negli USA il 70% dei consumi musicali verte su prodotti di repertorio.

L’industria, essendosi accaparrata i diritti sui cataloghi degli autori storici, si è arroccata su prodotti dei quali esiste la sicurezza di un consumo consolidato mentre si concentra su un numero ridotto di nuovi artisti conformi a modelli commerciali “sicuri” per avere maggiori certezze di redditività negli investimenti.

La questione Spotify

In questo quadro c’è la controversa posizione di Spotify, una delle prime piattaforme per diffusione fra gli ascoltatori. Lo streaming è una trasmissione “on demand” mediante sistemi digitali verso un solo ascoltatore alla volta.

Nei paesi sviluppati la trasmissione di contenuti musicali medianti altri sistemi, come la radio, è regolamentata secondo leggi locali. In Italia attraverso la SIAE solo i network pagano una percentuale ad autori ed editori compilando un borderò attraverso il quale si ripartisce il dividendo fra i vari brani anche in base a fasce orarie e bacini d’utenza.

La differenza sostanziale è che nello streaming si è innanzi a un ascoltatore isolato che sceglie a suo piacimento il brano mentre nel caso della radio la trasmissione è verso migliaia di persone simultaneamente e la scelta avviene centralmente.

I dividendi derivanti dalla trasmissione di brani da parte di radio locali, che spesso raggiungono migliaia di persone e che pagano una tantum senza borderò, sono ripartiti con logiche interne alla SIAE che sostanzialmente hanno sempre favorito i “grandi autori”.

Anche nel caso di Spotify il complesso e poco trasparente meccanismo di ripartizione “pro-rata” per abbonamenti favorisce sostanzialmente i “grandi nomi” concentrati attorno alle majors. Il dividendo che viene erogato all’autore per singolo streaming è di 0,0034 dollari medi.

Uno stream è quindi economicamente ininfluente. Ma attraverso il meccanismo in essere circa 43 mila artisti su Spotify incassano il 90% dei profitti.

Altre piattaforme erogano dividendi maggiori arrivando anche a 1 centesimo per stream come nel caso di Tidal.

Molti autori si sono coalizzati attorno a Damon Krukowski e alla UMAW che, aumentando la forza contrattuale attraverso migliaia di piccoli produttori, vorrebbe ottenere un compenso maggiore per stream e trasparenza dei meccanismi di ripartizione. Lo UMAW si propone di realizzare delle dimostrazioni nel mondo difronte alle sedi di Spotify come descritto nel sito Justice at Spotify .

Ma non essere presente su Spotify significa in pratica non esistere, una scelta possibile soltanto ad artisti con posizione contrattuali forti.

Il vantaggio di cui si approfitta Spotify è ovviamente la sua posizione dominante sul mercato dello streaming di cui detiene, stando all’ultimo report condiviso da Midia Research, il 31%, seguito da Apple al 15% e Amazon Music al 13% (che non sono esattamente esponenti di un capitalismo “etico”).

Il mercato dello streaming rappresenta negli Stati Uniti l’83% di quello di tutta la musica registrata.

Questa supremazia genera due meccanismi, la necessità per i 43 mila artisti dominanti di restare ancorati a Spotify per ottenere un sostanzioso ricavo e per i restanti milioni di produttori minori di esservi presenti per meri motivi promozionali e di visibilità.

La presenza su Spotify, infatti, permette l’inclusione in playlist (realizzate da opinion leaders, disk jockey, stakeholders, radio in streaming e dalla stessa Spotify) di brani anche da autori minori che ottengono una visibilità altrimenti costosissima in termini pubblicitari.

Il meccanismo delle playlist sta diventando, oltre che al più diffuso strumento di consumo, un elemento promozionale strategico nel mondo dello streaming. Il costume delle playlist, inaugurato nell’epoca delle compilation in cassette e poi dei cd masterizzati, nell’epoca del digitale smaterializzato è il modello dominante che ha superato la classica aggregazione degli album decisa dagli autori o dai discografici.

La dimensione dominante assunta da Spotify, malgrado la lieve contrazione delle quote di mercato degli ultimi due anni (che nel 2019 erano del 34%), gli consente di essere considerato un vero ecosistema mediatico, come avviene più in grande con il Google Search di Alphabet, nel quale è necessario essere presenti solo per avere la possibilità di essere ascoltati.

Ma restando nel mercato dello streaming/download dal 2007 si è fatto spazio Bandcamp grazie al fatto di poter essere un vero marketplace dove vendere non solo il download e lo stream illimitato dei brani ma anche prodotti correlati, a partire da vinili, cd e cassette fino alla gadgettistica.

Rispetto ai concorrenti Bandcamp trasferisce i ricavi nel giro di 48 ore trattenendo il 15% sulle vendite digitali e il 10% su altre merci al contrario di Apple che trattiene il 50% su ogni vendita digitale. Il ricavo netto nelle tasche dell’artista diventa nel caso di Itunes, pagata la filiera, di 0,05 centesimi per brano.

L’approccio di Bandcamp è distintivo rispetto a    quello di Spotify che però è percepito come una radio on demand su abbonamento.

Bandcamp permette una fidelizzazione dei propri clienti, attraverso campagne di marketing via mail, campagne di lancio e preo-ordine e attraverso una maggiore personalizzazione della pagina dedicata a quello che è sostanzialmente un negozio on line in cui convergono più sistemi di vendita simultaneamente.

Inoltre, Bandcamp è raggiungibile senza l’intermediazione di etichette, distributori e mediatori vari, altrimenti necessari su Spotify (come sugli altri sistemi di streaming e di vendita on line) e consente, al netto delle trattenute già citate, di incassare direttamente i ricavi sul proprio Paypal.

Ma allora, perché ci si ostina a voler alimentare gli oscuri meccanismi di Spotify?

La risposta è articolata, innanzi tutto su Bandcamp non c’è alcun meccanismo incluso di playlist o di associazione algoritmica fra autori in base alle affinità dei propri ascoltatori, non vi sono suggerimenti per similitudine, non ci sono, quindi, meccanismi di marketing insiti nella piattaforma.

Il marketing e la promozione sono tutti a carico dell’autore, ogni singolo consumatore va portato sulla propria pagina esattamente come in un normale sito.

Inoltre gli abbonati di Spotify utilizzano una specifica app con un proprio “search” attraverso il quale si aspettando di reperire tutto il materiale sonoro disponibile, altre soluzioni obbligherebbero il consumatore ad uscire da quell’ambiente, utilizzare il world wide web e pagare un nuovo fornitore per ascoltare o scaricare altra musica.

La fidelizzazione del consumatore attorno al proprio modello di consumo è uno degli elementi chiave della supremazia di mercato di Spotify.

Malgrado Bandcamp sia diventato il tempio delle etichette e degli artisti indipendenti molti di coloro che sono presenti come artisti su Spotify non intendono rinunciare alle prerogative offerte da distributori e label che raggiungono di solito tutto il parco di centinaia di portali di streaming/vendita e che offrono anche servizi aggiuntivi di promozione inclusi negli accordi con l’artista. Garantiscono, in sostanza, la presenza di un prodotto in quello che è l’indotto del mercato capitalista della musica.

Ma c’è solo il mercato?

In questo scenario Spotify è un attore difficilmente eliminabile non solo per la quota di mercato e per il modello di consumo adottato ma anche per le possibilità promozionali che offre.

Il punto centrale della questione è che la popular music nel momento in cui diviene una “professione” automaticamente adotta le logiche e le dinamiche del mercato capitalista e malgrado queste siano state altamente vantaggiose nel passato anche per i produttori oggi ripartiscono utili sempre minori.

L’era del digitale ha indubbiamente scardinato la filiera produttiva industriale classica ma contemporaneamente ha dato spazio a una miriade di autoproduzioni altrimenti escluse da qualsiasi possibilità produttiva all’interno del vecchio sistema.

Il digitale ha permesso la diffusione di nuovi linguaggi e nuove estetiche della popular music completamente estranee all’industria, anche a quella underground legata alle piccole produzioni delle etichette indipendenti.

Prolificano etichette e autori che producono e diffondono nuove formule di popular music incise e confezionate direttamente in casa e che sono in grado di distribuirla all’ascoltatore finale impiegando soluzioni totalmente indipendenti come lo stesso Bandcamp e, volendo, immettendosi con relativa facilità anche nella rete dei portali di streaming senza il bisogno di alcuna disintermediazione industriale.

Chiaramente a questo infinito spazio virtuale di produzioni casalinghe manca la macchina di marketing e promozionale messa in moto anche dalle label indipendenti e si aprono faticosamente spazio attraverso i nuovi social e la rete. Ma sostanzialmente dimostrano una cosa: che ci può essere musica oltre il mercato. Non è solo un “lavoro” inserito nei meccanismi di produzione del plusvalore, può essere anche altro.

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