Qui di seguito la prefazione di Valerio Evangelisti al libro di Luciano Vasapollo e Lorenzo Giustolisi “Nel vento, come zingari felici”, edizione Efesto, Roma.
Il tema che vorrei trattare è il cambiamento radicale che episodi di conflittualità hanno portato all’interno di una regione specifica, l’Emilia Romagna. Bisogna pensare alla Romagna di fine Ottocento come una regione completamente diversa da quel che ci appare oggi, fatta di cespugli, intrichi di boschi, e caratterizzata da una forte umidità che permetteva il mantenimento di larghe risaie.
La popolazione, anch’essa selvaggia come la natura circostante, partoriva anche i briganti, di una tipologia particolare. Infatti, essi poco assomigliavano all’immagine del brigante meridionale: il più crudele e il più feroce in assoluto si chiamava il Passatore, soprannominato poi Cortese a seguito di una nota poesia, anche se cortese non lo era affatto.
Tuttora possiamo trovarlo sulle etichette dei vini, quali il Sangiovese, rappresentato con un improbabile cappello di taglio calabrese, con folta barba; immagine che si discosta totalmente dalla realtà.
Il Passatore visse a metà dell’Ottocento, portava un cappellino, e aveva la barba molto corta, che faceva crescere per nascondere le numerose ustioni che portava in viso. Era definito crudele perché, oltre ai furti e al largo ricorso alla tortura, per indurre a confessare il nascondiglio del patrimonio della malcapitata famiglia di turno, riuscì a conquistare il famoso teatro di Forlimpopoli. Una vicenda presentata come un episodio particolarmente brillante della sua carriera.
In realtà la sorella del celebre gastronomo Pellegrino Artusi impazzì, perché fu violentata dai briganti del Passatore che tanto buono non era, patriota men che mai. In Emilia Romagna c’erano quindi i briganti, che provenivano dalla miseria più cruda.
Si pensi che nel 1880, in occasione di un allagamento, c’erano braccianti – chiamiamoli così per il momento – che rifiutavano di essere salvati, perché preferivano annegare piuttosto che continuare a condurre la vita precedente.
La povertà dilagava: fenomeni come le ripetute guerre e la miseria strutturale avevano ammassato nella regione una quantità di gente, dal lavoro impreciso. Proprio per questo avevo posto precedentemente riserve sul termine braccianti, perché lo erano occasionalmente. Si trattava quindi di persone che in realtà erano disposte a fare un qualsiasi lavoro.
L’agricoltura assorbiva gran parte di questa manodopera, ma il fatto è che i lavori agricoli non durano più di cinque o sei mesi, per cui costoro rimanevano disoccupati per buona parte dell’anno.
In quei periodi si riducevano a far di tutto pur di poter mangiare: dagli spazzacamini agli incaricati dello sgombro delle strade dalla neve durante l’inverno, lavoro prezioso che fornivano le municipalità. Gente, pertanto, che aveva ben poche prospettive di sviluppo davanti.
Si trattava, più che di braccianti, di precari o di operai che lavoravano in un contesto agricolo, ed erano completamente diversi da altre figure tipiche delle campagne come i mezzadri, o i boari, come venivano chiamati in provincia di Ferrara.
Costoro erano personaggi effettivamente legati alla terra, vivevano sparsi, per lo più isolati gli uni dagli altri e facevano il loro lavoro con una notevole disciplina, anche perché la piccola quota che riuscivano ad accumulare durante l’anno, la usavano con inevitabile parsimonia.
La contessa Pasolini di Ravenna, che ha lasciato note molto importanti sulla vita nelle campagne, in special modo nella sua tenuta, elogia al massimo i mezzadri come esempio di famiglia modello, mentre tratta i braccianti come poco di buono. Questo comporta una serie di trasformazioni sul piano sociale.
La figura tipica dell’operaio agricolo, del bracciante, si discosta dalle altre figure soprattutto per ciò che riguarda le donne. Lo stato di miseria conduce queste popolazioni, molto numerose nel Ravennate e meno nel Forlivese, a comportamenti per qualche verso scandalosi. Vedono la terra come mezzo di guadagno, ma non è sicuramente la loro maggiore aspirazione.
Hanno anche costumi inaccettabili da parte del padronato o persino dai mezzadri: le donne, per l’appunto, molto spesso non portano il velo in testa, in un’epoca in cui coprivano i capelli non solo entrando in chiesa, ma anche durante il giorno.
I braccianti, inoltre, erano forti bevitori, nei limiti in cui potevano permetterselo, e ciò agevolerà l’azione di chi li vorrà organizzare. Avendo scarso senso religioso, i braccianti bestemmiavano, non frequentavano la chiesa, si esprimevano in maniera brutale ed erano facili alla collera e alla rivendicazione di qualcosa.
Ogni anno, infatti, arrivato l’inverno si radunavano in enormi folle davanti al municipio della loro città a chiedere di poter spalare la neve, e spesso questo tipo di rivendicazioni degenerava in piccoli scontri. All’origine erano, dunque, un fattore di turbamento.
Nella mia tesi di laurea, ripubblicata poco tempo fa, ho ricostruito la storia del primo Partito Socialista in Italia. Tutti credono che il Partito Socialista Italiano sia nato nel 1892, ma undici anni prima ne era nato un altro con il nome di Partito Socialista Rivoluzionario di Romagna fino al 1886, successivamente denominato Partito Socialista Rivoluzionario Italiano, e durò anche successivamente la nascita del Partito Socialista Italiano che conosciamo e che oggi pare essersi quasi estinto.
Era una corrente totalmente diversa, che derivava dalla prima internazionale delle sezioni emiliano-romagnole, di impostazione anarchica, rifacendosi a Bakunin piuttosto che a Marx, che a stento si sapeva chi fosse. Anarchici sostanzialmente, dunque, una parte dei quali, guidati dal loro leader maggiore Andrea Costa, portava avanti la tesi secondo cui l’astensione totale da qualsiasi forma di resistenza politica non permetteva una crescita reale ed era priva di risultati.
Già nel 1879, in una lettera intitolata Ai miei amici di Romagna1, Andrea Costa invitava a radunarsi con una formazione differente e a partecipare, non alle elezioni politiche generali ma a quelle amministrative; dopodiché Andrea Costa diverrà il primo deputato socialista italiano.
La proposta di carattere prettamente politico non mancava di risvolto sociale, Costa indicava chiaramente chi andava conquistato, non come, riuscendo a coinvolgere la classe lavoratrice, tra cui la maggior parte dei braccianti finora menzionati.
Fu un partito organizzato ma non in maniera ferrea, bensì sfilacciato pur conservando una propria identità, prendendo parte a determinate lotte che solo dopo un momento ben preciso assunsero un proprio carattere definito.
Questi lavoratori furono conquistati non solo tramite la forma partito e i relativi circoli che caratterizzavano la vita politica organizzata, ma anche attraverso un altro sistema di reclutamento. Le “cameracce”, un’invenzione dei repubblicani, dove si beveva, si giocava a carte e dove si svolgeva una parte del lavoro di reclutamento dei socialisti rivoluzionari.
Bisogna però capire chi fossero nel concreto questi socialisti rivoluzionari: moltissimi erano ex garibaldini, Andrea Costa stesso aveva combattuto nelle ultime battaglie di Garibaldi, alcuni erano andati in Francia partecipando alla Comune di Parigi, quasi per caso, ma rimasero conquistati da questo episodio tragico della storia francese.
Erano artigiani, fabbri, falegnami, sellai, ed uno di questi socialisti rivoluzionari era il padre di Mussolini, Alessandro, anch’egli un fabbro. Uscivano dal ceto medio-basso e riuscirono, vista la loro estrazione dal popolo, ad avere un rapporto tra loro ma anche ad avviare dei progetti: venne l’idea di raccogliere la manodopera senza lavoro in una cooperativa, là dove il lavoro era solitamente appaltato: un sistema selvaggio.
La chiamata al lavoro era singolare. Bisogna considerare che i ceti bracciantili non vivevano nei campi, non avevano case nei luoghi di lavoro. L’appaltatore, arrivata la mezzanotte, suonava una tromba possibile per il lavoro pubblico; i braccianti correvano con le loro carriole artigianali, verso il luogo di lavoro, ma solo i primi venivano assunti poiché corrispondevano ai più forti, mentre rimanevano esclusi quelli più malconci, che non potevano correre chilometri spingendo una carriola.
I socialisti credono che questo sistema vada superato attraverso la costituzione di società cooperative, totalmente differenti da quelle odierne, tra le altre l’Associazione Generale Operai e Braccianti del comune di Ravenna, guidate dal socialista rivoluzionario Nullo Baldini.
Questa associazione, dopo non pochi contrasti, riesce a farsi affidare dai comuni occupazioni che gestisce in una maniera totalmente diversa rispetto agli appaltatori: si lavora a turno – non c’è più bisogno di correre con le carriole – i compiti vengono ripartiti e questo sistema riuscì a sfamare, non dico tutti, ma sicuramente molti.
Il passo successivo che compie questa associazione è finalizzato a dare da mangiare a quanti sono rimasti digiuni, ossia farsi affidare un lavoro di portata notevole che garantisca un reddito per un tempo abbastanza lungo.
Questo lavoro viene trovato non solo in ambito comunale, ma lo si riceve in appalto dalla municipalità romana: Roma era circondata da paludi, dilagava la malaria, c’erano torbe di insetti più numerosi degli abitanti stessi, una situazione apparentemente irrimediabile.
Più volte il Vaticano si era mosso per cercare di correggere questa situazione, ma il lavoro fatto era senz’altro insufficiente. Venne organizzata una spedizione di lavoratori ravennati, che partirono in treno muniti di paletto – una specie di vanga che veniva usata nelle bonifiche delle paludi, tecnica largamente conosciuta in Romagna – e fazzoletto rosso al collo.
Si dirigono verso le paludi dell’Agro romano, trovando una situazione indescrivibile, che fa quasi desistere la maggioranza. Armando Armuzzi, il vice di Baldini, riesce comunque a convincere i braccianti a rimanere.
Vengono ospitati in dei casermoni e lì nasce qualcosa di nuovo: diventano falansterio, una specie di piccola società socialista. Sono divisi in squadre, ricevono un compenso non in moneta corrente ma in una moneta stampata dalla stessa Associazione Generale Operai Braccianti, che serve per comprare gli alimenti o servirsi dei ristorantini all’interno dello stesso casermone; tutto viene diviso equamente e si comincia questo lavoro disumano.
Devono portare via l’acqua dalle paludi con il paletto, e molti muoiono di malaria. Non venivano neppure sepolti, poiché gli abitanti del posto credevano che il cadavere, una volta seppellito, potesse generare altre malattie. Fu un sacrificio umano enorme, che durò fino ai primi del Novecento e oltre. Le paludi dell’Agro romano sparirono del tutto e costoro si integrarono nella società locale.
Durante la presentazione di un libro che trattava questo argomento, fui interpellato da un giovane dall’accento fortemente laziale/romano, che si scopre essere un discendente dei lavoratori ravennati, e la stessa bisnonna era stata citata nel mio libro, fatto che aveva molto emozionato il ragazzo.
La bisnonna faceva parte della categoria di eroine – forse il termine risulta anche inadeguato considerando il loro valore – che nel corso della vita riuscirono a modificare la sofferenza di chiunque abitasse l’Agro, come del resto coloro rimasti in Romagna stavano facendo.
Azioni che vennero largamente contrastate dagli agrari locali e invece molto appoggiate dalla parte più erudita della classe dominante; una minima parte, ma che riusciva a comprendere ciò che i braccianti stavano facendo.
Nei primi del ‘900 vengono organizzate altre spedizioni come quelle che avevano trasformato l’Agro romano, alcune verso la Sardegna, altre verso l’estero come in Grecia; un primo movimento, dunque, di trasformazione del territorio. Ai tempi di Andrea Costa, costoro non erano riformisti, si chiavano rivoluzionari perché sostenevano che non si potesse uscire dal capitalismo senza una rivoluzione.
In realtà facevano poco da questo punto di vista, a parte qualche scontro. Diventano totalmente riformisti quando si impongono Turati e il suo gruppo milanese di operai, piuttosto che di contadini o braccianti. Lì nasce il vero riformismo, che non va però confuso con il moderatismo – dato che non lo erano affatto, visti episodi come i frequenti scontri contro i crumiri.
Il loro modo di fare era finalizzato a costruire un contropotere. I socialisti del primo ‘900, volevano costruire una società all’interno di un’altra società, come a Molinella: spacci a prezzi contenuti senza profitti reali, c’erano scuole, infatti, l’istruzione aveva un peso preponderante all’interno della cultura socialista dell’epoca – orologi come quelli Roskoff riportavano scritte come “otto ore per lavorare, otto ore per istruirsi e otto ore per riposare”.
Poi c’erano gli organismi di lotta, chiamati leghe di resistenza (o di miglioramento, leggermente differenti, però, nelle funzioni). In questo caso si trattava di veri e propri organi sindacali con alla testa il Capo lega e i suoi braccianti (o mezzadri) socialisti.
In altri paesi le lotte per o sulla terra nascono quasi apolitiche, come il laburismo inglese che nacque addirittura nelle chiese protestanti; l’Italia è l’unico paese dove si verifica questo fenomeno di lotta politicizzata.
I primi del ‘900 sono pieni di correnti, non c’è un socialismo unico: c’è il gruppo di Turati, sempre più forte in parlamento, ed altre correnti che si fanno guerra fra loro, la cui punta estrema è caratterizzata dai massimalisti, coloro che erano indifferenti alle finalità dei minimalisti, ovvero quelle di cambiamenti concreti all’interno della vita quotidiana, che si caratterizzavano per appoggiare la lotta finale e la presa del potere.
Altra corrente diversa che tralascio nei dettagli, poiché non più esistente, è quella dei sindacalisti rivoluzionari: nel film Novecento2, girato nei dintorni di Parma, il contesto era dominato non dai socialisti riformisti, né dai sindacalisti, bensì dai sindacalisti rivoluzionari che volevano un futuro organizzato come un organo sindacale, dove le strutture avrebbero rappresentato i nuovi organi di governo.
Queste correnti si fanno guerra reciproca, ma nessuno alla base è pacifista; vengono organizzate forme di lotta completamente radicali: una di queste fu il boicottaggio, che prevedeva che nessun boicottato avesse dei rapporti sociali, che nessuno poteva esser servito nei negozi, o parlare a chicchessia; una specie di “embargo” sociale che determinava un isolamento totale dalla vita della società.
Una volta resa fertile l’Emilia Romagna, arricchita, i braccianti riescono ad acquisire posizioni sempre più forti. Ad un certo punto appare una parola d’ordine, “l’imponibile di manodopera”, ossia tutto va a capo non più a colui che a mezzanotte suonava la tromba, bensì agli uffici di collocamento dei sindacati.
Quest’ultimi potevano valutare quanti braccianti dovevano essere usati in certe tenute e fornivano essi stessi la manodopera: una rivoluzione per quelle regioni. Nasce quasi una guerra aperta, nascono correnti più violente come quelle dei Giovani socialisti (il segretario era Amadeo Bordiga).
Con la Prima Guerra Mondiale le cose cambiarono ulteriormente; il ruolo delle donne è sempre più protagonista, non si parla più di veli, le donne prendono in mano le loro sorti: i mariti sono in guerra e loro devono portare avanti l’agricoltura, per cui si occupano dei lavori che tradizionalmente erano maschili.
Questo cambia molte, forse troppe cose dal punto di vista del padronato, che porta al noto fenomeno dopo la guerra dei fascisti. Sono circa duecento gli omicidi attribuiti ai fascisti negli anni ’20-’21, dopo che l’occupazione delle fabbriche e i vari esperimenti nelle campagne, nei due anni precedenti, avevano rafforzato le posizioni dei socialisti e dei lavoratori.
Ciò avvenne, ma non senza reazioni: nella Prima Guerra Mondiale, aveva lottato un corpo speciale, chiamato gli Arditi, di impronta non proto-fascista, come è stato scritto: erano una cosa assai più complessa.
I primi Arditi erano presi dalle carceri, erano perseguitati politici, spesso socialisti o anarchici che venivano spediti in prima linea (sovente alla morte) con un trattamento completamente diverso rispetto a quello riservato agli altri soldati.
Infatti, costoro vestivano in maniera diversa, venivano alimentati meglio, non venivano mandati in trincea ma stavano alla base delle montagne che ospitavano le trincee, e avevano una serie di favori finalizzati a nascondere il fatto che erano stati “condannati a morte” con quella spedizione.
Curioso il contrasto tra Arditi e carabinieri, quest’ultimi si trovavano anch’essi alla base della montagna per contrastare qualsiasi tipo di disobbedienza dei soldati semplici; 10.000 soldati furono, infatti, fucilati da parte dei carabinieri.
Gli Arditi, per dimostrazione della loro diversa natura, di notte andavano a bastonare i carabinieri e qualche volte li uccidevano. Una parte di questi formarono poi un gruppo armato chiamato gli Arditi del popolo, di orientamento socialista, che combattevano i fascisti con armi da fuoco. Costoro furono per un po’ di tempo l’avanguardia della lotta antifascista, anche se oramai era troppo tardi.
Qualsiasi reato, anche minimo, di un antifascista veniva represso con grande violenza, mentre qualsiasi reato non fascista veniva totalmente trascurato dalla polizia: possedere dunque un coltello poteva comportare la galera per un numero imprecisato di anni per un antifascista, mentre possedere un fucile non comportava nulla per il fascista.
Gli Arditi del popolo sembravano essere la creatura adatta per la nuova forza dei Giovani socialisti, che divennero poi comunisti. Nel 1921 si verificò una scissione drammatica del movimento operaio, in cui i socialisti si divisero dai comunisti, che formano un loro partito molto più agguerrito.
I comunisti non ne vogliano che sapere degli Arditi del popolo, poiché non erano comunisti: tra le fila troviamo socialisti, cattolici, anarchici etc. Vengono, quindi, creati degli organismi esclusivamente comunisti – come gli Arditi comunisti – e l’unico esercito popolare che ci fosse stato fino quel momento e che potesse occasionalmente contrastare i fascisti, gli Arditi del popolo, viene lasciato a sé stesso.
L’istituzione e la nascita del Partito Comunista implicò una posizione settaria, ma possedeva delle virtù, a parte quella di avere tra i capi personaggi come Antonio Gramsci, che tra l’altro prese le difese degli Arditi del popolo e che contrastò la separazione tra comunisti e Arditi.
Negli anni del fascismo l’unico partito di sinistra che in qualche modo si muoveva in Italia, era per l’appunto il Partito Comunista.
I socialisti si dissolsero, in gran parte andarono all’estero, sempre mantenendo la separazione tra riformisti e massimalisti, mentre i comunisti svolgevano un’attività capillare distribuendo una stampa per quelle condizioni copiosa, pubblicavano giornali clandestini per gli operai, per le donne, per i bambini addirittura. Rimasero quindi sul terreno della lotta e come soggetti di contropotere; gli errori che aveva compiuto il loro partito furono pian piano riparati.
Ma il soggetto trasformatore nelle campagne, ossia i lavoratori della terra, in questo contesto in parte si rassegnarono; Nullo Baldini, pur di mantenere in piedi le cooperative, si compromise in maniera molto grave con i fascisti una volta che questi divennero regime.
Nelle campagne rimase però il dissenso e anche embrioni di lotta clandestina. Il proletariato trasformatore, privato da qualsiasi potere di trasformazione, ridotto in condizioni pessime, con salari minimi, tuttavia, cercava di mantenere le antiche strutture, seppure la gran parte fossero state prese dai fascisti e governate in maniera fittizia.
Qualcosa però continuava a vivere, e lo si vide quando iniziò la guerra civile, ossia la lotta partigiana che cominciò anche prima della caduta vera e propria del fascismo. Le regioni in cui queste classi sociali erano presenti e avevano avviato grandi processi di trasformazione furono quelle in cui la resistenza era composta da veri e propri eserciti: per esempio la provincia di Ravenna.
Aveva ormai cambiato aspetto, non vi erano più boschi, cespugli o briganti, era divenuta un terreno piatto eppure, in questo piattume, prolifera un vero e proprio esercito fatto in maggioranza di braccianti e altre categorie contadine. Riuscirono a sopravvivere e ingannare i tedeschi sottraendosi alle loro ricerche, muovendosi con un’abilità estrema in questi terreni spogli grazie all’aiuto degli abitanti.
C’erano ovviamente i romagnoli che detestavano i partigiani poiché li accusavano di attirare le rappresaglie tedesche, ma c’erano anche coloro che aiutavano senza essere neppure militanti: le donne, ad esempio, per comunicare l’arrivo dei tedeschi o dei fascisti mettevano un certo tipo di biancheria alla finestra, cosicché i partigiani capivano che dovevano andarsene.
Furono tantissimi gli episodi di questo genere e solo ora si riscopre il ruolo delle donne all’interno della resistenza, parte di un complesso enorme: addirittura sebbene fossero quasi tutti comunisti, i partigiani ravennati furono inglobati nell’esercito inglese, con la divisa dell’esercito britannico e il fazzoletto rosso, così numerosi da costituire un reggimento.
Finita la guerra, questi braccianti non rimasero alla coltivazione della terra, ma divennero operai o anche operai specializzati nelle stesse campagne. Da qui è l’inizio di una storia del tutto diversa, la storia degli operai urbani con la loro connessa complicata vicenda spesso dalle tinte molto tristi. Intanto le campagne erano in via di industrializzazione e, seppur presentassero una prosperità maggiore rispetto agli anni antecedenti la riforma agraria, i braccianti preferirono lasciare i campi piuttosto che trovarsi in una condizione mezzadrile, o quasi.
I braccianti li troviamo dunque alla testa e mescolati alla classe operaia, una componente che lascia ancora un’eredità che prima o poi qualcuno possa raccogliere, ispirandosi a questi esempi, come tanti altri, in cui la civiltà è stata costruita attraverso la lotta di classe, con vicende alterne tra sconfitte vittorie.
Se termina la lotta di classe anche lo sviluppo economico ne risentirebbe, poiché senza opposizione non c’è né democrazia né progresso.
*****
Dialogo con Luciano Vasapollo del video di Radici per aria3.
L.V.: «Caro Valerio questo libro riparte in pratica po’ dalla fine del tuo intervento, cerco di dare un’interpretazione degli anni ’70 che ci hanno visti un po’ “testimoni del tempo”; ma io non mi sento testimone del tempo come non lo sei neanche tu, noi siamo attori del nostro tempo, non bisogna mai mitizzare nulla ma chi è attore non è solo testimone.
La storia si fa, si costruisce e quindi anche quello che avviene negli anni ’70 e anche l’involuzione successiva, deriva tutto dalle vicende economiche, sociali e politiche del dopoguerra ma direi, deriva da ciò che ci hai descritto con il tuo intervento, cioè che tipo di unità di Italia si è fatta, che tipo di costruzione di uno Stato plurinazionale non si è fatto.
Mi interessa far capire ai ragazzi che anche quando sentono anni ’70-’80, la storia non va mai letta come momenti, è una lumaca che fa la sua strada, è un divenire e quindi probabilmente anche gli anni ’70 si interpretano non solo come tali, ma facendo riferimento anche al dopoguerra e alla dinamica storico-politica successiva».
V.E.: «Dopo aver visto il documentario, non è che abbia molto da aggiungere, hai detto tutto, mi ha anche commosso questa tua storia, che poi rivendica tante altre storie; venivo da una condizione meno disagiata, i miei erano maestri elementari, io ero nato in una casa in cui la stufa era una specie di grosso barattolo dove avevano tagliato una sorta di sportellino per accenderla. Cosa mi spinse a un certo punto a ribellarmi a tutto questo?
Intanto l’Italia di allora era qualcosa di terribilmente arretrato, basti pensare che fino gli anni ’60 se un uomo uccideva la moglie per gelosia, veniva assolto; era assolutamente previsto il delitto d’onore dal Codice Penale e questo lo si vedeva in tutti i minimi dettagli, lo si vedeva anche nell’educazione che ricevevamo; mi ricordo tantissimi aspetti come il fortissimo sessismo, che seppur erano state introdotte le scuole miste da qualche anno, uomo e donna erano considerati due specie assolutamente differenti, ricordo ingiustizie spacciate per legge naturale.
Ad un certo punto c’era anche un bisogno che non va taciuto, nel mio caso avevo bisogno di gente che avesse la mia stessa, o perlomeno simile, visione filosofica del mondo. Arrivarono prima i maoisti, “servire il popolo”, due giorni dopo ero anche io di fronte la scuola con un fazzoletto che raffigurava Mao, la bandiera rossa ma non funzionavano molto bene.
Andai ad una manifestazione era il 1969, ero lì con questi maoisti, c’erano dei giapponesi turisti che ci fotografavano, e tutti a dire “i cinesi, i cinesi, ci sono i cinesi” e tutti a salutarli con il pugno chiuso, mentre alla fine erano giapponesi. Ero lì che perdevo tempo in questa maniera, eravamo vicino piazza maggiore al centro di Bologna, quando sento un grido possente “Lotta continua! Potere Operaio!”, proveniente da un altro corteo che neppure ci considera, ovviamente.
Erano dei giovani che più che camminare, correvano. Io e un compagno di scuola, consegnai il fazzoletto con Mao e la bandiera, e andai dietro al loro corteo. Lì trovai un altro mondo di valori che scoprì coincidere con il mio, quindi dalle esperienze personali e sociali, tutto spingeva in qualche modo verso una rivolta generalizzata.
Non mi sono mai pentito poiché non ne vedo il motivo, non solo fu un periodo ed una lotta utile per la stessa società italiana, ma fu qualcosa di un’importanza sconfinata dal punto di vista esistenziale, qualcosa di bellissimo. Io ho dispiacere per coloro che non ha vissuto quegli anni e che senza la testimonianza della vita dell’epoca non potrà forse capirli. Era una cosa bella, manifestavamo odio ma era in realtà un atto d’amore.
Una piccola curiosità, nel filmino di Novecento4, ad un certo punto si vedono alla stazione dei bambini con delle bandiere rosse, era uno sciopero contadino di sindacalisti e rivoluzionari a Parma del 1909, dato che non lavoravano e neppure mangiavano, decisero di mandare i bambini presso famiglie operaie di altre città, partirono con questi treni e trovarono ad attenderli folle gigantesche. Massimo Gorki era spettatore di uno di questi fatti, vide arrivare il treno con i bambini che gridavano “Viva il socialismo!”.
La folla alla stazione stava invece in silenzio e i bambini si misero paura. Un bambino ebbe il coraggio di mettere piede sulla banchina e un gigantesco portuale gli corse addosso, il piccolo fece per ripararsi, il portuale lo prese e lo sollevò in aria e tutti cominciarono a gridare “Viva il socialismo! Viva il socialismo!”. Aldilà del socialismo reale, questo era lo spirito socialista vero, quello è il destino che nell’ipotesi migliore potrebbe avere la società».
L.V.: «Grazie Valerio in effetti, anche per il titolo che mi hai suggerito di dare a questo ciclo seminariale, Costruttori di civiltà, vale la pena sottolineare che la civiltà vera è quella che crea, e non che distrugge, umanità. Noi pensiamo di essere nel nostro piccolo, caro Valerio, di essere costruttori di civiltà perché realizziamo quotidianamente un atto d’amore come lo chiamava Gramsci ma anche gente come Che Guevara, Martí, Bolivar: diamo noi stessi per costruire progetti e processi di civiltà, per mettere in atto umanità che cammina».
1 A. Costa, Ai miei amici di Romagna, pubblicata sul giornale “La Plebe”, Lodi, 27 luglio 1879.
2 Film Novecento, di B. Bertolucci, 1976.
3 Intervista a L. Vasapollo, Radici per aria, 2021.
4 Film Novecento, di B. Bertolucci, 1976.
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Qualche spunto in vecchi interventi per capire la narrativa di Evangelisti…
Valerio Evangelisti, «… et mourir de plaisir» (1995):
«Colonizzare l’immaginario. Sembrava impossibile, eppure basta disporre degli strumenti opportuni. Televisioni, mass-media, una stampa docile, un trend culturale. Finisce che intere generazioni si trovano immerse in un sogno, e lo scambiano per realtà. Ora, quali sono le caratteristiche di un sogno? Che si vive una vicenda priva di antecedenti e di conseguenze nel futuro. Esiste il presente e basta.
In un sogno analogo siamo immersi ormai da un decennio, con un’accentuazione negli ultimi anni. Sotto gli occhi ci scorrono immagini senza origine e senza spessore. Esalazioni di gas nervino uccidono o mandano all’ospedale migliaia di persone nella metropolitana di Tokyo? La notizia ci viene data in tempo quasi reale, eppure pare che accada su un altro pianeta. Nessuno si scompone più di tanto, se non per un tempo misurabile in minuti, o addirittura in secondi. Nella ex Jugoslavia si susseguono i massacri? Anche qui la commozione è legata ai singulti di un qualche telecronista, analoghi a quelli che accompagnerebbero una qualsiasi calamità naturale. Perché quella gente si massacra? Non lo sa nessuno, forse nemmeno i diretti interessati. Questione genetica, di razza, di religione. Ciò che importa è che la versione corrente faccia appello a eventi incontrollabili, in cui la volontà e la logica non abbiano parte alcuna. Così la notizia perde tutti i suoi contenuti nel momento stesso in cui viene diramata.
[…]
Il neoliberismo ha saputo, attraverso un uso quasi scientifico dei mass media, penetrare nei cervelli e svuotarne gli angoli più riposti di ogni contenuto non funzionale.»
Valerio Evangelisti, «Una narrativa adeguata ai tempi» (2000)
«Sempre in tema di allucinazioni, un autore italiano di fantascienza, Vittorio Curtoni, scrisse una ventina di anni fa alcuni racconti che avevano al centro una guerra futura. Le parti in lotta avevano fatto uso di armi psichedeliche. La conseguenza era stata quella di creare un’umanità ormai incapace di distinguere il vero dal falso, e anche di riconoscere se stessa come appartenente a un’unica comunità solidale…
Chi abbia ancora in mente l’orgia di false notizie, presentate dalle fonti più autorevoli, che ha accompagnato la guerra nel Golfo e quella nel Kossovo, ha già capito a cosa alludo. I neonati che gli uomini di Saddam Hussein avrebbero strappato alle incubatrici, i 700 bambini kossovari che sarebbero stati rapiti e sottoposti a trasfusioni di sangue a favore dei soldati di Milosevic… Altrettante false notizie, che inducono a pensare che la guerra allucinogena sia veramente cominciata.»