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Un’intervista impossibile, ma plausibile, con Alessandro Manzoni

L’immaginazione può superare, se opportunamente controllata dalla ragione storica e dalla critica letteraria, i confini spazio-temporali che ci separano dalla figura e dall’opera di Alessandro Manzoni. Con l’aiuto di questi strumenti – immaginazione, ragione e critica – abbiamo avvicinato, a centocinquant’anni dalla sua morte, l’autore dei “Promessi sposi”, spingendoci in quella regione dell’aldilà dove egli si trova e dove, con il superiore permesso dell’Onnipotente, ci ha concesso la seguente intervista.

Va detto che la conoscenza delle discussioni e dei problemi, anche recenti, che hanno contrassegnato la cultura italiana, europea e mondiale – conoscenza che traspare dalle sue risposte alle domande – non deve meravigliare se si tiene conto che egli è stato costantemente informato intorno ad essi dai vari e qualificati ‘addetti ai lavori’ che della sua opera si sono occupati e che lo hanno via via raggiunto là dove egli si trova.

Fra questi desideriamo citare, per affinità di orientamento e di sensibilità con l’intervistatore, almeno questi: Alberto Moravia, Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti e Alberto Asor Rosa.

Signor conte…

Ma che conte e conte. Chi è lei, che cosa vuole?

Mi scusi se la disturbo, Maestro (mi permetta almeno di chiamarla così, per antica deferenza), ma, veda, io mi sono arrischiato fin qua per parlare un po’ con lei: avrei alcune domande da farle… e l’Altissimo mi ha autorizzato a conferire con lei. Sia compiacente anche in grazia del mio gravoso mestiere…

Che sarebbe?

Il professore: parlare di lei ai ragazzini e ai ragazzi le assicuro che è un compito ingrato. Mi vorrà scusare per la franchezza: dicono che lei è una “pizza”, per di più è poco attuale e poco divertente, e puzza di sacrestia…

Hanno ragione…

Davvero?! Lei mi spiazza, ma, considerato che ben conosco la sua arguzia e il suo realismo, non mi sorprende.

Sì, dico, hanno ragione i ragazzi a pensarla così. Veda, caro professore, la mia peggiore disgrazia è di essere finito sui banchi di scuola e fra le vostre mani.

In effetti, Maestro, è pur vero che lei nei “Promessi sposi” si rivolgeva a un pubblico che possedeva le chiavi di lettura indispensabili per comprendere il contesto sociale del Seicento e interpretarlo alla luce dei riferimenti all’Ottocento, in modo da trarne gli insegnamenti etico-politici essenziali.

Lei vorrebbe che io dicessi: brutti tempi, caro professore, la cultura è “debole”, la scuola è in crisi, come la famiglia, la religione, lo Stato… Le ripeto: costringere dei ragazzi o, ancor peggio, dei ragazzini a sorbirsi il mio romanzo, e per di più con un profluvio di note esplicative di commentatori vari, è un’operazione sadica, altro che!

Debbo riconoscere che i frutti che i ragazzi ricavano dalla lettura del suo romanzo sono, malgrado gli encomiabili sforzi profusi da tanti miei colleghi per farne conoscere la profonda umanità e bellezza, quanto mai scarsi. Può bastare questa prova a confermare l’anzidetta constatazione: si fermi un quindicenne a tradimento, ma anche un qualsiasi adulto mediamente alfabetizzato, e gli si domandi come hanno inizio “I promessi sposi”. Nove volte su dieci, costoro diranno, sbagliando: “Quel ramo del lago di Como…”. Il romanzo inizia invece così: “L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo”.

Egregio professore, mi permetta allora, con tutto il debito rispetto nei confronti della scuola e degli insegnanti, di trarre l’inevitabile conclusione: smettere di far leggere “I promessi sposi” agli studenti non significa salvare la scuola da Manzoni; significa salvare Manzoni dalla scuola. E soggiungo, in tema di interpretazione letteraria, che ciò che ho scritto è, per dirla con Umberto Eco, un’“opera aperta”: ognuno può leggervi quel che vuole, anche distorcendo il senso del messaggio. D’altronde, è il destino dello scrittore: egli viene usato, consumato e magari logorato.

Maestro, lei mi sembra molto pessimista sul valore oggettivo dell’arte. Ha forse cambiato idea rispetto ai princìpi che informano la sua poetica fondata sul realismo? «La poesia deve proporsi per oggetto il vero…».

Poetica fondata sul realismo“, che parole grosse! Anche in vita mi ha sempre tormentato il problema del vero: quanta letteratura non è che finzione, dolce oppio per evadere dalla realtà in un mondo fantastico! Specialmente oggi è ben difficile distinguere il vero dalle sue mistificazioni. Comunque, per rispondere alla sua domanda, ho cambiato solo prospettiva: le sembra poco vedere le cose da un’altra angolazione? E qui torna in ballo la scuola.

In che senso?

Perché lo scrittore che è assunto come emblema dei valori educativi da una certa classe dirigente, deve in qualche modo corrispondere al mandato che gli viene conferito. È toccato a me come a tanti altri, ben più importanti di me, Dante compreso, che il vostro ministro della Cultura considera il “fondatore del pensiero di destra”, mentre per me è il massimo contestatore di un cristianesimo mondanizzato, diciamo pure all’italiana. Del resto, le confesso, mio caro professore, che io non credo ai “critici cattolici” che sono più o meno schierati a mio favore in contrasto con quelli laici che mi mettono in discussione. La professione di fede è una cosa distinta dalla intelligenza e dal gusto estetico, che sono doti affatto umane. Pensi ad Attilio Momigliano o a Luigi Russo, che hanno scritto su di me pagine e commenti finissimi e non erano cattolici…

Capisco. Purtroppo, Maestro, se proviamo a spingere lo sguardo oltre i confini della cultura nazionale, vi è da dire che lei non è molto ammirato fuori d’Italia. La maggior parte dei giudizi che mi è capitato di ascoltare quando ho toccato l’argomento con lettori stranieri, magari acuti quando parlano di altri romanzieri europei, sono diminutivi: «Non riusciamo a capire che cosa ci troviate». «Ci sembra che voi italiani gli diate un’importanza eccessiva». «“I promessi sposi” sono un romanzo d’avventure come altri, ma noioso perché pudico, untuoso, reticente e pieno di preti». «È pleonastico di fronte ai romanzi non italiani che lo hanno preceduto».

Non vedo perché si pretenda che io sia, che so?, Flaubert o Balzac, artisti peraltro insigni. Uno scrittore deve essere accettato per quello che vi è di autentico nel suo messaggio, non in rapporto alle attese ideologiche dei lettori.

Difficile rispondere alle obiezioni degli incolti; ancora più difficile rispondere alle persone colte su quello che conoscono distrattamente e senza gusto. Bella scoperta che nel suo romanzo non si respira la grande aria di libertà spregiudicata di uno Stendhal, di un Balzac, di un Flaubert. Lei, Maestro, offre altri piaceri, di natura strettamente intellettuale. Occorre un certo sforzo per giungervi; occorre soprattutto credere che valga la pena di farlo. Diversamente, si finisce col credere che lei sia ovvio e un po’ pedante, mentre è uno degli scrittori più intricati e complessi che siano mai esistiti. E per di più lei fa finta di essere semplice, cosicché chi la prende in parola non riuscirà mai ad entrare nel suo mondo, in cui i vuoti, le lacune hanno spesso più importanza delle cose dette.

La ringrazio, egregio professore, per queste osservazioni che colgono, per un verso, uno dei significati meno evidenti della mia tanto celebrata ironia e, per un altro verso, un aspetto spesso trascurato del mio modo di elaborare l’identità, sempre sfuggente e sempre da me strenuamente perseguìta, tra la realtà e la verità, tra la fede e la storia, tra l’uomo e il mondo dell’uomo.

E poi mi si lasci dire che l’atteggiamento “aristocratico”, “nettamente di casta pur nella sua forma religiosa cattolica”, che Gramsci mi attribuisce, è un’esagerazione. Gramsci, che pure ha il merito di distinguere nettamente la critica ideologica da quella estetica, non comprese l’orientamento religioso che è alla radice della mia ispirazione.

In realtà, io sono lontanissimo da qualsiasi idea aristocratica (da buon illuminista, vorrei aggiungere). Ecco perché non ebbi mai nulla da spartire con le tendenze controriformistiche o “gesuitiche” dell’ideologia religiosa. Per me la fede è il radicalmente altro.

Sennonché l’interpretazione gramsciana nella sua forma più ‘dura’ è stata ripresa dal Sanguineti, per il quale il successo economico di Renzo novello imprenditore «è già l’archetipo, ideologicamente promozionale, di ogni romanzo intellettuale ‘tradizionale’ borghese, orientato apologeticamente nel senso dell’integrazione, per tradimento di classe, di chiunque sappia farsi da sé».

Povero Renzo, ridotto alla dimensione di un borghese piccolo piccolo. Certo, l’ho fatta grossa con quel finale del romanzo: dovevo lasciare i nostri eroi al loro paesello, a coltivare il giardino (anzi la vigna…).

Certo, Maestro, se posso esporre un’impressione personale, la “morale” di Renzo, alla fine della “favola” («Ho imparato a non mettermi ne’ tumulti, ho imparato a non predicare in piazza…»), mi pare proprio simile a quella di un “galantuomo”, come il mercante dell’osteria di Gorgonzola che ragiona con la logica del suo “particulare”: una logica che combacia perfettamente con l’ideologia dei potenti: «Chi farebbe viver la povera gente, quando i signori fossero ammazzati?». Ragionamento degno di Menenio Agrippa, che non gli impedisce di essere un feroce forcaiolo per amor di “giustizia” nei confronti dei facinorosi, fra i quali mette anche Renzo.

L’accostamento mi pare audace. Semmai è Bortolo, suo cugino, che per molti aspetti ha la psicologia, utilitaristica e reazionaria (non a caso è fautore dell’oligarchia veneziana), del tipico borghese, appunto, come il mercante di Gorgonzola.

Comunque, tornando a Renzo, chi ha detto che il “sugo” del romanzo coincida con il suo “ravvedimento” o che io sposi senza riserve la sua mentalità di buon padre di famiglia, finalmente accasato e senza grane? Orbene, non è affar mio difendermi dalle accuse dei detrattori; vorrei solo precisare che i criteri di lettura del romanzo non sono affatto univoci e che narratore, personaggi e lettori conservano una loro autonomia di giudizio di cui si deve tener conto.

I personaggi, poi, rappresentano la multiforme esperienza del reale che nessun “sistema” potrebbe rendere coerente. Lo stesso narratore non è ‘a priori’ onnisciente e concede ai personaggi, il più delle volte, la responsabilità del giudizio, sottolineando la molteplicità dialettica dei punti di vista. Basti, a tale proposito, evocare la questione dell’“oppresso” e dell’“oppressore”, che sorge nel capitolo VIII dei “Promessi sposi” dai rapporti reciproci di don Abbondio e di Renzo nella notte degli imbrogli e dei sotterfugi.

Ma è solo un caso in cui io stesso intervengo per sottolineare l’ambiguità della situazione e dei giudizi, giacché in molti altri casi è il lettore che deve cogliere la parzialità delle prospettive. In ogni modo, il narratore, anche quando fa sentire la sua voce e, quindi, la sua ‘posizione ideologica’, non pretende mai di rappresentare, con la sicumera di don Ferrante, la verità.

Men che mai, io pretendo di esprimere o di sostituire l’occhio di Dio, che vede e giudica il male di questo mondo. Anche il mio spazio è dialettico e appartiene, sì, alla mia personalità di credente e di intellettuale, ma è circoscritto anche dai doveri dell’umiltà evangelica.

Il risalto esemplare che nel suo romanzo assumono i personaggi – sia quelli principali sia quelli secondari – è, tuttavia, così forte che porta a dimenticare i limiti del loro modo di vedere e di capire i fatti. Pertanto, è facile estrapolarne giudizi ideologici e affibbiarli all’autore.

Per quanto riguarda il problema della mia ‘posizione ideologica’, devo confessarle che mi troverei molto imbarazzato a riconoscermi in una delle posizioni che, a torto o a ragione, mi vengono attribuite e che derivano, per lo più, dall’assolutizzazione dei punti di vista dei personaggi. Insomma, il senso del mio romanzo si ribella a questa riduzione ideologica ed è molto più complesso, sfuggente, “ambiguo”. Per poterlo afferrare, questo benedetto “sugo” della storia, occorre che il lettore recuperi una posizione critica adeguata.

E cioè?

Guardi, professore, le dirò che, a patto di ridurre il tono enfatico della considerazione finale, che poco si addice al mio senso della misura, uno dei critici che hanno colto meglio il significato dei “Promessi sposi” in quanto romanzo storico è Gyōrgy Lukács, con il giudizio del quale, caratterizzato da quell’ottica essenzializzante che è tipica di uno studioso straniero, mi sembra giusto conchiudere (ma non concludere) questa intervista:

«Manzoni descrive direttamente soltanto un episodio concreto della vita del popolo italiano: l’amore, la separazione e il ritrovarsi di un giovane e di una fanciulla, entrambi di condizione contadina. Ma nella sua rappresentazione il fatto si sviluppa in modo da diventare la generale tragedia del popolo italiano in una situazione di avvilimento e di spezzettamento nazionale. Senza mai uscire da una concreta cornice locale e temporale, da una psicologia condizionata dall’epoca e dalla classe sociale, il destino dei due protagonisti diventa ‘la’ tragedia del popolo italiano in genere. Con questa grandiosa e profonda concezione storica Manzoni crea un romanzo che per l’efficacia dei sentimenti umani supera perfino il suo maestro [Walter Scott]».

Con questo ‘fulmen in clausula’ – la battuta finale che lascia stupito l’ascoltatore – lei, Maestro, supera qualunque aspettativa io potessi nutrire a proposito della sua arguzia, della sua profondità e della sua spregiudicatezza. Non mi resta che presentarle i miei omaggi, ringraziarla per l’attenzione che mi ha dedicato così come per le conoscenze che mi ha trasmesso, e prendere commiato da lei.

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3 Commenti


  • Yak

    bell’articolo


  • Emiliano

    Ogni giorno a lezione vedo decine di quindicenni con i quali da ottobre-novembre tento approcci al capolavoro manzoniano. Ho effettuato la prova suggerita dall’articolo e il risultato è stato il seguente.
    “Ragazzi, come inizia il romanzo?”
    “Prof, può ripetere la domanda?”
    “Certo. Ricordate le prime volte in cui abbiamo parlato di Manzoni e de “I promessi sposi”? Il documentario… il ‘600… il manoscritto… Alberto Angela che passeggia in mezzo ai monti…?”
    “Ah sì! Quella storia dell’indovino con quei due che litigavano…”
    “Quella era l’Iliade, quel giorno stavamo facendo epica”.
    “…?”
    “Epica… guerra di Troia…”
    “Ah, quello che la pischella l’aveva tradito…”
    “Elena?”
    “Eh, quella!”
    “Stiamo parlando de ‘I promessi sposi’…”
    “Che non si potevano sposare perché le ragazze non potevano entrare nella scuola di magia nera?“
    “Quello era ‘Il mulino dei dodici corvi’, l’abbiamo letto l’anno scorso…”
    “Eh, prof, era difficile, non ci capivo niente…” [romanzo per ragazzi del 1974, n.d.r.].
    È andata avanti fino alla campana, ma “Quel ramo del lago di Como” no, proprio non c’è stato verso di sentirglielo dire.
    Sarò stato sfortunato.
    Precisazione: anche se l’episodio è un collage di fatti reali e letteralmente all’ordine del giorno che mi sono limitato a unire senza modificare una virgola, nessun intento polemico, volevo solo esternare un po’ di frustrazione autoironica 😉


  • Leonardo

    Un bel modo per ‘conchiudere’ la giornata …
    Grazie.

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