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Venezia e “le maschere” dimenticano Gaza

Negli scorsi giorni sono andati in scena due premiazioni importanti per la cultura e l’arte nel Belpaese.

Il primo, Le Maschere del Teatro. Il secondo – ancor più prestigioso, considerandone la storia e la valenza internazionale – il Festival del Cinema di Venezia.

Ebbene nessun attore, regista, drammaturgo, sceneggiatore, scenografo, costumista ecc – ad eccezione di Lino Musella e Laura Morante, che si sono presentati al Lido l’uno con una maglietta dove era stampata la bandiera della Palestina con la scritta Free Palestine e l’altra con un ventaglio con Stop Genocide; nonché la regista israeliana Sarah Friedland, che ha dedicato il suo Leone del Futuro a Gaza: artisti dei quali vanno decisamente encomiati il coraggio e la sensibilità umana prima ancora che politica – nessuno, dicevamo, ha avuto l’audacia di invocare la fine del massacro in atto e di riconoscere Israele quale stato genocida. Men che meno durante le due serate finali di consegna dei premi.

Come nessuno ha denunciato la criminale condotta dei governi europei che, per sostenere un paese apertamente nazista, gettano soldi in armi determinando una macelleria sociale nei loro stessi confini e una tragedia umanitaria di cui a pagare il prezzo è il popolo ucraino.

Per tacere del razzismo russofobo che ormai pervade l’intero occidente. A cominciare proprio dai prodotti cinematografici e dell’audiovisivo, spesso apertamente antirussi.

Un silenzio vergognoso e colpevole – rotto solo da un appello contro il genocidio del popolo gazawi perpetrato dallo Stato sionista – di quegli ambienti culturali che dovrebbero costituire l’alveo in cui coltivare e far crescere il pensiero critico e divergente.

Ambienti, artisti e intellettuali – italiani e internazionali, ben inteso – che viceversa si sono distinti per ignavia, letteralmente omologati all’indifferenza generale e all’ideologia dominante.

Conformisti della peggior specie a spasso nella fiera delle vanità. Narcisisti per i quali l’unico credo è l’Ego tracimante nel nulla del profitto e del lavoro. Un lavoro in alcuni casi -specie in teatro – anche sottopagato.

Non è più neppure il “tengo famiglia” a imporre una simile perdita di coscienza politica e di dignità.

È l’imporsi invece di un Io piccino e schiavo del successo e della fama – quando arrivano – regalate dal sistema e da chi ne tira le fila. Da quei Mangiafuoco, per intenderci, che fanno e disfano i destini dei burattini.

Altrimenti ad imporsi è la paura dell’anonimato. E quando si ha paura, si ha già perso. Innanzitutto sé stessi.

Infine, una nota a margine sul Premio Le Maschere. Riconoscimento da sempre piuttosto frivolo, creato dal frivolissimo Eliogabolo del teatro italico.

Quel Luca De Fusco, amico stretto di Gianni Letta, parvenu dei salotti di destra e lacchè di quella parte della borghesia reazionaria.

Un parvenu che sta al teatro come Marchionne stava al lavoro operaio. Mentre altri lacchè siedono su poltrone “progressiste”, sia chiaro.

Il Premio Le Maschere fu pertanto istituito dal sunnominato per gratificare “gli amici degli amici”. Vale a dire i Teatri Stabili Nazionali con il loro scandaloso sistema degli scambi tra direttori: tu vendi uno spettacolo a me, io ne vendo uno a te.

Orbene, la serata della consegna, tenutasi al Teatro Argentina – ormai casamatta teatrale di Fratelli d’Italia – e mandata in onda da Rai1, ha messo in scena, qualora ve ne fosse ancora bisogno, la morte del teatro. Almeno di quello italico.

Con tutto il rispetto per artisti del valore di Umberto Orsini, Peter Stein, Franco Branciaroli, Gabriele Lavia – tutti ormai ultra-ottuagenari o addirittura novantenni  – veri e propri monumenti dell’arte scenica, non credo che lorsignori abbiano ancora bisogno di veder riconosciute le proprie qualità con un premietto. Per loro andrebbero semmai costruiti monumenti.

E analogo ragionamento si potrebbe fare per un grandissimo attore come Massimo Popolizio. Meno anziano, ma ormai un habitué delle Maschere.

Possibile che le giovani generazioni abbiano tanto poco da offrire?!

Sorvolo su Maria Paiato – attrice sopravvalutata – e Liv Ferracchiati. Entrambi protagoniste di lavori incentrati su tematiche che oserei definire ormai l’ossessione della “sinistra al salmone” nostrana. I diritti civili, la cultura gender e il woke.

Uniche note felici, a mio sindacabilissimo giudizio, Peppino Mazzotta – il cui lavoro e la cui bravura conosco da trent’anni – che ha vinto il premio come miglior monologo per Radio Argo Suite.

Spettacolo potente e lacerante scritto dalla corrosiva mano di Igor Esposito. Drammaturgo capace di scavare a fondo tra le macerie della storia per farne poesia che rapisce l’intelligenza prima ancora del cuore.

E Manuela Mandracchia, premiata come miglior attrice non protagonista. Una signora del teatro dalle indiscutibili qualità attoriali.

Il resto è spettacolo del conformismo e teatrino dell’Ego.

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1 Commento


  • Pasquale

    Narcisisti per i quali l’unico credo è l’Ego tracimante nel nulla …..

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