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Le teorie Gramsciane, nuovo fascismo e il popolo delle scimmie nell’attuale contesto del Sud globale

L’intervista al professor Luciano Vasapollo, decano di Politica economica alla Sapienza, prende spunto da alcune sue lezioni riguardanti temi di grande attualità e riflessione. Il professore, profondamente fiero delle sue origini meridionali e grande studioso gramsciano, introduce e trasmette agli studenti l’amore per i popoli del Sud, promuovendo a grande voce il rispetto, lo sviluppo e l’autodeterminazione per tutti coloro che vengono definiti da Gramsci i subalterni, gli scarti da Papa Francesco, gli umili e gli oppressi. 

Il filo conduttore dell’intervista si colloca all’interno del nuovo contesto globale multipolare, e tende a mettere a sintesi l’attualizzazione del pensiero gramsciano come insegnamento necessario per individuare tutte quelle forme di sfruttamento e oppressione che il Meridione, non solo italiano, ha subito e che ancora oggi continua ad affrontare occupando una posizione ai margini dello sviluppo. 

L’aver ispirato movimenti di resistenza e alleanze tra popoli e contadini nel contesto di un’Italia dominata e disgregata dalle classi dominanti, fornendo gli strumenti necessari per comprendere e combattere il fascismo. 

L’analisi del professor Vasapollo in questa intervista mette in luce le dinamiche di sfruttamento e la necessità di una rivoluzione culturale e politica per emancipare le classi subalterne e integrare gli emarginati nella lotta per una società più equa e giusta.L’obiettivo è quello di esplorare quanto le continue riconfigurazioni dell’egemonia gramsciana  L’esempio della questione dell’Italia Meridionale unita al ruolo del Sud Globale nelle attuali dinamiche del Modo di Produzione Capitalistico ci dimostra che un’alternativa per il riscatto degli oppressi è possibile.

In questo contesto le teorie gramsciane ci fornisconotutti quegli strumenti critici e teorici per analizzare le dinamiche delle gerarchie di potere, del Fascismo italiano, dello sfruttamento e della colonizzazione dei popoli meridionali, che hanno lottato con tutte le loro forze contro la piccola borghesia, quella classe politica che Gramsci definisce «Il popolo delle scimmie».

Professore cosa intendeva Gramsci con l’espressione de «Il popolo delle scimmie»? E come coniuga lei questa categoria riferita alla questione meridionale?

Il Meridione d’Italia ha subito un vero e proprio esproprio coloniale con Garibaldi che ha trasformato l’impero borbonico in quello dei Savoia e i contadini che si sono ribellati per riappropriarsi delle terre, contro il latifondo, vennero etichettati come briganti. 

Gramsci nei suoi scritti sul Fascismo racconta di come la guerra civile, scatenata dalla classe borghese, abbia impedito alla grande massa dei contadini di organizzarsi e di ribellarsi al regime anarchico che andava via via instaurandosi e,in sostanza, fu proprio la classe borghese a scatenare la guerra civile che immerse la nazione nel disordine e nel terrore.

Secondo il pensiero gramsciano la questione meridionale non può essere risolta dalla borghesia col ferro e col fuoco: il fatto che nessuno abbia concretamente fermato il fascismo ha intralciato l’azione della classe operaia nel 1920 radicando ancor di più il problema nelle nostre società. 

La questione meridionale rimane il problema centrale di ogni rivoluzione attuale e futura nel nostro paese, con la classe subalterna che ha acquisito un’importanza enorme nel campo rivoluzionario. Gramsci prospetta uno scenario pesante: o le masse contadine riusciranno a crearsi degli alleati per combattere l’oppressione oppure si affideranno a dirigenti politici ai quali si abbandoneranno completamente. 

La questione Meridionale è anche una questione territoriale ed è da questo punto di vista che deve essere esaminata per stabilire un programma di governo operaio e contadino che abbia una grande ripercussione nelle masse (Antonio Gramsci, Il popolo delle scimmie, Einaudi editore, Torino).   

I contadini speravano che la spedizione dei Mille avrebbe permesso loro di ottenere la terra, ma invece furono brutalmenteuccisi e questo evento portò all’integrazione del Meridione nello Stato unitario in maniera totalmente Gramsci ci racconta come la borghesia sia la causa della disgregazione della nazione con l’intenzione di sabotare e distruggere l’apparato economico.

Il grande pensatore italiano identifica la vera classe nazionale nel proletariato, si riferisce alla moltitudine degli operai e dei contadini, dei lavoratori italiani che non vogliono vedere la disgregazione dello Stato perché l’unità nazionale è l’unico potere reale che ancora può costringere i borghesi a sottomettersi (Antonio Gramsci, Il popolo delle scimmie, Einaudi editore, Torino).    

Il libro di Nicola Zitara, anch’egli un grande meridionalista, intitolato «Unità d’Italia, storia di una colonia», sosteneva che il Sud era diventato un mercato coloniale per le fabbriche del Nord, che si sono sviluppate grazie ai dazi che hanno penalizzato le esportazioni meridionali come, per esempio, l’olio della Puglia e gli agrumi della Sicilia. Con grande evidenza possiamo affermare che il mondo dei Sud tende ad essere isolato e scartato sotto ogni punto di vista per questo è necessario rendere più che mai attuale la questione Meridionale.

Gramsci definiva il Risorgimento come Rivoluzione mancata durante la quale i contadini che tentarono di avviare un processo di cambiamento, vennero uccisi e incarcerati. Anni fa, dopo aver trattato della morte di centomila contadini per mano dei garibaldini, Pino Aprile, un giornalista del Sud, nel suo libro Carnefici, dimostra con documenti parlamentari che tra il 1860 e il 1870 furono uccisi 900.000 meridionali, ovvero il 10% della popolazione di allora.

Le classi dirigenti dell’Italia unita, incluse le componenti più avanzate, non hanno affrontato la questione agraria, fondamentale per il Sud. Con riguardo all’oppressione dei popoli rivoluzionari Gramsci ricorda l’avvenimento similare dell’anno 1920, durante il quale sono stati brutalmente uccisi 1.500 italiani nelle vie e nelle piazze da parte della pubblica sicurezza e dal Fascismo.

Tutto questo è stato nascosto o esaltato dai giornali: l’obiettivo del Fascismo nascente era proprio quello di fermare e sopprimere ogni reazione fisica e psicologica nella popolazione tanto da sottometterla completamente.

Gramsci scrive: «Duemilacinquecento italiani sono stati uccisi nel 1920; 1500 italiani sono stati uccisi nei primi sei mesi del 1921; ma erano di bassa casta, ma erano del bestiame popolare che è troppo numeroso, che è troppo ingombrante per le disponibilità in viveri, che è troppo esuberante per la possibilità produttiva dell’apparecchio capitalistico industriale e agricolo; perciò nessuna protesta per la loro uccisione, nessun lutto, non lacrime, non desolazione per la loro fine violenta.» (Antonio Gramsci, Il popolo delle scimmie, Einaudi editore, Torino).

Per il filosofo di Ales, dunque, il Fascismo è stato l’ultima «rappresentazione» offerta dalla piccola borghesia nel teatro della vita politica nazionale, quest’ultima perde ogni importanza e finisce nel dimenticatoio. Il Parlamento si trasforma in una «bottega di chiacchiere e scandali», profondamente corrotto e perde qualsiasi appoggio da parte delle masse popolari che individuano come unico strumento di controllo e di opposizione al potere amministrativo l’azione diretta, la Rivoluzione.

A questo punto la piccola borghesia cerca in tutti i modi di conservare una posizione rilevante nel sistema, «scimmieggia la classe operaria», è così che Gramsci descrive le azioni del popolo borghese.

Secondo diverse novelle il popolo delle scimmie crede di possedere tutta l’intelligenza, l’intuizione storica e lo spirito rivoluzionario rispetto agli altri popoli della giungla, allo stesso modo la piccola classe borghese credeva di essere la migliore ma in realtà non era altro che una classe che si era servita del potere della corruzione parlamentare per sottomettere il popolo.

Ecco qui che Gramsci critica fortemente la piccola borghesia, tanto da definirla «serva del capitalismo» incapace di svolgere un ruolo storico importante e dice: «Il popolo delle scimmie riempie la cronaca, non crea storia, lascia traccia nel giornale, non offre materiali per scrivere libri» (Antonio Gramsci, Il popolo delle scimmie, Einaudi editore, Torino). 

Professore, secondo lei possiamo considerare le teoriegramsciane sul movimento storico del Risorgimento italianocome esempio per risanare le divergenze di un’Italia ancora oggi divisa? 

Gramsci nutriva un profondo affetto per l’Italia, un amore che ben traspare nei suoi scritti, infatti è proprio durante la sua prigionia sotto il regime fascista che sviluppò una critica acuta verso le dinamiche di potere che opprimevano il popolo italiano. Come ho detto in precedenza, egli evidenziava in che modo le classi dirigenti, spesso corrotte e lontane dai bisogni reali del popolo, impedissero il progresso, l’unità nazionale e l’emancipazione delle classi subalterne, credeva fermamente nella necessità di una rivoluzione culturale e politica per abbattere le forze oppressive e costruire una società unita dal senso di comunità.

Questi desideri popolari rivelavano un’Italia ancora molto frammentata, con un disperato bisogno di trovare un sensocomune di unione. Questo fu uno dei passi più significativi nella storia italiana, un periodo caratterizzato dal fervente desiderio di unità popolare che viene ricordato con il nome di Risorgimento.

Nella sua opera Sul Risorgimento, il grande filosofo di Ales, analizza il movimento storico sotto molti punti di vista e ad un certo punto rivela che un elemento indispensabile per raggiungerela vittoria era quello di nutrire costantemente la coscienza dell’«unità culturale» insita negli intellettuali italiani e non solo, era anche necessario garantire l’indipendenza della penisola italiana dall’influenza di  corrotti desiderosi di potere(Antonio Gramsci, Sul Risorgimento, Editori Riuniti, Roma). 

È evidente come oggi noi non possiamo trascurare l’attualità di questo movimento, le dinamiche di unità e divisione che caratterizzarono quell’epoca trovano ancora riscontro nell’Italia odierna, con la persistente dicotomia tra Nord e Mezzogiorno.

Già in quell’epoca il divario tra il Meridione ed il resto della penisola italiana si manifestava simile a quello di una grande città contro una grande campagna che andava a rafforzare gli elementi di un conflitto di nazionalità che non si è mai spento e che non è stato mai risolto. Ad oggi, l’Italia rimane disgregata, spaccata e frammentata, con il Meridione costantemente vittima di disoccupazione, di sfruttamento, di povertà, di squilibri salariali e risorse sociali inefficienti.

Il parallelismo tra l’epoca di allora e il nostro presente è evidente, Gramsci scriveva che il Mezzogiorno era ridotto ad un «mercato di vendita semicoloniale», una fonte sicura di imposte, disciplinata attraverso misure di repressione spietata contro ogni movimento di massa, uccisioni e politiche favorevoli al ceto dominante. In questo modo, lo Stato sociale, che avrebbe dovuto organizzare e difendere il popolo del Sud, diventava invece uno strumento della politica settentrionale. 

Siamo dunque di fronte ad una riflessione che ci aiuta a comprendere il presente: come durante il Risorgimento, anche oggi, il tema dell’unità d’Italia è caratterizzato dallo scontro tra forze reazionarie e forze democratiche, entrambe ancora incapaci di un’azione unitaria incisiva. Studiare e interiorizzare le teorie gramsciane è fondamentale così come rifarsi agli insegnamenti profondi del grande filosofo rivoluzionario sardo per sradicare tutte le radici delle politiche corrotte e fasciste ancora insediate nel nostro paese.

Gli scritti di Antonio Gramsci sono un esempio eccellente per imparare a ragionare in maniera critica, la sua capacità di analizzare la società, la politica e la cultura con profondità offre lezioni preziose su come comprendere e affrontare le dinamiche del potere, ci insegna l’importanza di vedere oltre le apparenze e di comprendere le radici profonde dei problemi sociali. 

Egli andò oltre il feticismo di un’unità statuale meramente formale, cercando i filoni più profondi dei processi di aggregazione sociale e istituzionale, perciò fu indispensabile una rottura reale della formula binaria che continua tutt’oggi a caratterizzare l’organizzazione della nostra Repubblica. 

Noi oggi, come cittadini dobbiamo comprendere le dinamiche profonde della lotta contro il potere dominante dello Stato a favore delle autonomie locali, occorre agire secondo una grande operazione culturale sulla via della lezione gramsciana, imparando a superare i nostri limiti culturali in un ritrovato senso dello Stato e del prevalere dell’interesse generale sugli interessi dei singoli (Francesco Cocco, Il Risorgimento in Gramsci: per capire i problemi odierni, liberacittadinanza).

Mi sento quindi di ribadire che il Risorgimento italiano in chiave gramsciana è l’unico elemento che si pone con continuità nella vita nazionale attraverso i secoli, nell’assenza di una unità nazionale politica nella storia infatti per Gramsci «è l’azione delle masse popolari che muove le forze motrici fondamentali della storia italiana». (Antonio Gramsci, So, Editori Riuniti, Roma).

Professore, dato che la mancata Unità d’Italia ha creato le condizioni per la nascita di forme di Resistenza dopo il Fascismo italiano, è possibile collegare la Resistenza italiana ai movimenti di liberazione del Sud Globale? Esistono ancora nel mondo di oggiforme di fascismo’ che separano i popoli?

Innanzitutto, il Risorgimento italiano e il Sud globale sono strettamente connessi attraverso temi comuni di lotta per l’emancipazione, la giustizia sociale e la sovranità nazionale, in cui entrambi i contesti rappresentano movimenti contro l’oppressione e il dominio straniero, sia esso coloniale o interno.

Durante il Risorgimento, l’Italia ha lottato per liberarsi dalle potenze straniere e dalle divisioni interne che frammentavano il paese, il movimento ha avuto come obiettivo quello di unificare e di costruire uno Stato nazionale che rappresentasse gli interessi di tutti gli italiani, superando le differenze regionali e sociali. Allo stesso modo, il Sud globale, composto da paesi come America Latina, Africa e Asia, ha lottato contro il colonialismo, il neocolonialismo e l’unipolarismo per ottenere indipendenza, sovranità, dignità e riconoscimento. 

Ancora oggi questi movimenti continuano costantemente a combattere per affermare i diritti dei popoli oppressi, per migliorare le condizioni economiche e sociali e per ottenere un ruolo di potere nella visione mondiale.

Antonio Gramsci, con la sua analisi della questione meridionale e del ruolo degli intellettuali nella società, offre un ponte tra queste due realtà, infatti sottolinea tutti gli ideali che ritroviamo Sud globale.

La mancata unità d’Italia ha segnato un periodo di divisione e frammentazione del paese creando le condizioni per una lotta di liberazione più complessa, infatti dopo la caduta del regime fascista nel 1943, l’Italia si trovò divisa tra le forze alleate che avanzavano dal Sud e le truppe tedesche che occupavano il Nord. Questa situazione portò alla nascita della Resistenza italiana, un movimento di lotta armata contro l’occupazione nazista e il regime fascista rimasto al potere in alcune zone. 

La Resistenza fu caratterizzata da una vasta gamma di gruppi e formazioni politiche unite dalla comune causa antifascista contro le violenze e le deportazioni nei campi di concentramento oltre che di rappresaglie contro la popolazione civile. 

In questo contesto, il concetto di unità nazionale acquisì una nuova e profonda dimensione, con l’obiettivo di superare le divisioni del passato e costruire una società realmente più unita, libera da forme di schiavitù fisiche e mentali. La storia ci racconta che è proprio in questo contesto che i partigiani, svolsero un ruolo cruciale nella liberazione della penisola italiana dalla schiavitù, combattendo contro le truppe tedesche e i fascisti rimasti al potere. 

Sull’esempio dei partigiani italiani, possiamo riscontrare numerosissime forme di resistenza nel contesto globale dei popoli del Sud. Luigi Rosati, grande storico e scrittore, ha spesso trattato nelle sue opere la storia del genocidio di milioni di africani, iniziato negli anni ’90 e che continua ancora oggi a perpetuare le radici violente di un fascismo senza fine. Non si tratta di un ricordo del passato, bensì di una realtà che si diffonde senza sosta e senza freni.

Analogamente a quanto avvenne in Italia con i Briganti – contadini e pastori che, dopo l’unificazione, si ribellarono contro le nuove autorità sardo-piemontesi – il popolo africano ha organizzato forti movimenti di resistenza culturale e armata per combattere la colonizzazione e promuovere l’indipendenza nel continente africano. 

La lunga tradizione storiografica africana ci racconta infatti che sono state tantissime le resistenze africane, i leader indipendentisti e panafricanisti che hanno animato il processo di decolonizzazione e tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60, cercando di individuare i nessi tra queste leadership e il movimento di massa che ha condotto l’azione di liberazione dalla colonizzazione. 

Possiamo definire quindi l’attuale neocolonialismo africano non altro che una forma di fascismo, una costruzione economica incentrata su rapporti violenti basata sulla conquista armata, sulla negazione dei diritti di autodeterminazione e di unione tra popoli. 

Viviamo una fase aspra della competizione globale nella quale i confini nazionali non hanno più senso, in cui manca l’unità e il riconoscimento reciproco, dove le multinazionali dislocano le proprie attività, allungano gli artigli predando le risorse e sfruttano la manodopera in una maniera razzista e genocida. Le multinazionali arrivano a importare da regioni remote sulla base di accordi bilaterali e flussi di risorse, mentre nei paesi del Sud si assiste ad un mancato sviluppo indotto e alle espropriazioni sistematiche di terre, di risorse e uomini.

Gli attuali eventi mostrano che il Fascismo è ancora intorno a noi sotto forma di mentite spoglie: il razzismo, la violenza, la comunicazione deviante, la vasta operazione culturale ed epistemica di inferiorizzazione del mondo meridionale, gli squilibri salariali, lo sfruttamento e i limiti nella libera espressione sono tutte forme nascoste di assolutismo che si incanalano tra le radici di un mondo che tenta di lottare per abbattere una visione del potere unico, unipolare, che non tiene minimamente conto del prossimo. 

Oggi più che mai è necessaria un’alternativa che parta dall’unione dei Sud, questo è il filo conduttore di decolonizzazione in risposta alla mondializzazione capitalista e imperialista caratterizzata da un rapporto di dominanza tra popoli egemoni e popoli egemonizzati. 

Alla luce dell’attualizzazione del pensiero gramsciano, e le profonde connessioni con l’attuale periodo, come vede il ruolo delle moderne resistenze culturali e sociali? Un’alleanza tra i popoli dei Sud potrebbe costituire un fronte contro le forme di oppressione contemporanea?

Il sottosviluppo è una conseguenza della dipendenza dal colonialismo, infatti, non è un caso che Martí promuoveva l’idea di una patria libera, indipendente e unitaria, chiamandola Nuestra America che comprendeva i fratelli africani deportati come schiavi. La liberazione e l’emancipazione di tale comunità, secondo l’ideale di Martí, significava miglioramento e progresso per vivere i diritti dell’umanità e non solo quelli individuali ma anche quelli collettivi.

Il progetto Nuestra América di José Martí era una necessità storica, essa racchiudeva tutti gli elementi che partecipavano alla definizione identitaria di un popolo; era la cultura il terreno sensibile su cui si giocava la partita politica. Il nuovo continente quindi non doveva soccombere all’ideologia del progresso a tutti i costi, la strada più opportuna era soggettiva, e andava trovata autonomamente.

Le osservazioni fatte sull’imperialismo, e quindi inevitabilmente interessate a tutto il continente americano che ne stava assaggiando i primi effetti, lo portarono a teorizzare una strategia politica di assoluta attualità, in cui l’arma centrale risiedeva nella cultura, fulcro irrinunciabile di ogni lotta che voleva definirsi efficace. Le riflessioni che fece abbracciarono aspetti come la letteratura e l’educazione, la poesia e la pedagogia, l’etica e il razzismo.

Il pensiero di Martí quindi si intreccia profondamente con quello di Antonio Gramsci. I fatti e i versi legati all’opera martiana trovano una fertile punto di incontro con le riflessioni gramsciane contenute in alcuni temi sulla questione meridionale. Qui il pensatore sardo accompagnava le analisi politiche, rilevando la capacità di costruire consenso attraverso immagini e stereotipi che il dominatore offriva al dominato per giustificarne il proprio dominio, visione che si avvicinava molto a quella che era la situazione dell’Italia postunitaria.

Lo scopo di Martí era quello di raccogliere attorno alla cultura tutta la frammentazione sociale che immobilizzava il continente latinoamericano e allo stesso modo, la questione centrale delle teorie gramsciane era quella di creare una cultura del popolo che fosse in grado di rappresentarlo, nella quale esso potesse riconoscersi.

La constatazione di quanto fosse importante il movimento di emancipazione a livello internazionale, scatenava quel senso di identificazione e di appartenenza in ogni umile e ogni oppresso del mondo; è questa l’idea che lega profondamente le teorie gramsciane dei subalterni ai popoli oppressi della Nuestra America (Simone Vegliò, Josè Martì e Antonio Gramsci,file:///C:/Users/hp/

Martí attraversa il mondo con il suo popolo, lottando per l’umanità e soprattutto per Cuba, con un amore profondo per la sua patria, simile a quello che Gramsci provava per l’Italia. Sappiamo che entrambi sono stati deportati, ma il loro legame con la patria e l’affetto per il loro popolo restano integri. Mi sento quindi di affermare che Martí affronta i grandi problemi delle Americhe, esattamente come Gramsci si confronta con quelli del suo paese.

L’esperienza di Martí inoltre, sebbene non fosse marxista, si intreccia anche con quella di Marx nell’analizzare le contraddizioni di classe e si concentra anche in questo caso sulla tradizione emancipatrice della Nuestra America oltre che sulle contraddizioni dovute alle atrocità della schiavitù e dell’oppressione coloniale. Anche Marx era molto critico verso le classi dirigenti liberali, specialmente per quanto riguarda le politiche coloniali.

Infatti Marx scrive: «La profonda ipocrisia, l’intrinseca barbarie della civiltà Borghese ci stanno dinanzi senza veli. Non appena dalle grandi metropoli, dove esse prendono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude».

Vediamo inoltre che marxismo, teorie gramsciane e pensiero martiano si intrecciano con le idee più illuminate di Manzoni e Leopardi tanto che il pensiero leopardiano, con la sua caratteristica scientifica, si manifesta come un processo storico e dialettico. Anche senza dichiararlo esplicitamente, Leopardi nelle sue poesie affronta temi che si avvicinano al materialismo storico, come il suo rapporto con la natura e la filosofia della prassi di Gramsci, esplorando la capacità dell’uomo di uscire dalle tenebre dello sfruttamento. 

La questione attuale riguarda l’integrazione degli umili e degli emarginati, dando loro voce e spazio nella globalizzazione per uscire dall’eurocentrismo e dalla cultura eurocentrica, cercando di decolonizzare i saperi. Il valore della cultura si esprime in molte forme, come il ballo e la danza e la questione contadina non è superata così come il patrimonio dei saperi della Terra rimane rilevante.

Per concludere, i temi di Gramsci e Martí si intrecciano ed enfatizzano l’importanza di integrare i contadini nella lotta e di formare alleanze, concetto che Gramsci chiama egemonia, per contrastare il sistema economico dominante. Entrambi riconoscevano l’oppressione e lo sfruttamento che il colonialismo imponeva sui popoli e sulle culture locali, e vedevano nella lotta per l’indipendenza e l’autodeterminazione una necessità fondamentale per la giustizia sociale e il progresso umano. In passato il centro erano regioni sfruttate e colonizzate erano la Calabria e la Puglia; oggi si tratta invece del Sud globale, di Cuba, Venezuela, Africa e Asia.

Ci sono sempre più studiosi che promuovono un progetto euro-afro-mediterraneo, coinvolgendo paesi del Nord Africa e del Medio Oriente con economie complementari e risorse abbondante, opponendosi alla mercantilizzazione e all’economia del profitto. Possiamo quindi affermare la centralità dell’unione delle visioni di Martí e Gramsci per uscire dall’eurocentrismo, dal nordcentrismo e dell’occidentalcentrismo, affrontare il lavoro precario, il lavoro mentale, le nuove forme di schiavitù, i migranti, i subalterni gramsciani, cercando una risposta per un mondo più giusto e multicentrico. 

Più centri di potere ci sono, meglio è, necessitiamo di un mondo sempre più pluripolare, basato su alleanze fra popoli che devono amarsi e non farsi la guerra. Questo è il Sud allargato che si oppone alle politiche economiche imperialiste, che promuove il concetto di delinking di Samir Amin e che si applica anche alle periferie dell’Occidente, come Portogallo, Italia, Grecia e Spagna, come alternativa alla catena egemonica dei paesi dipendenti. Per comprendere appieno le idee di Martí e Gramsci, è sempre necessario considerare il contesto storico in cui sono nate tuttavia, queste idee possono assolutamente essere sviluppate e applicate anche oggi.

 * da Il  Faro di Roma

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