Il provvedimento governativo denominato “Spending Review” è stato emanato con l’intento di controllare la spesa pubblica.
La realtà di questi “tagli”, però, è tutt’altra: la rimodulazione delle spese statali riguarderà in grossa parte i settori della sanità e dell’istruzione pubblica, ovvero due apparati essenziali per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e delle lavoratrici italiani. Ancora una volta lo Stato è pronto a difendere gli interessi di una classe – quella dei capitalisti, dei tecnici, del settore privato – a scapito di un’altra, quella della classe dei
lavoratori, dei salariati.
Il rifinanziamento continuo di Istituti di Credito e Società d’Investimento, la scelta di spendere enormi quantità di denaro pubblico in spese militari e per la casta dei politici,
sono decisioni che perciò non ci devono meravigliare, soprattutto se messe a confronto con la durezza degli interventi di riforma, a detta loro, “risanatori”. La lotta fra le classi si sta estendendo a tutti i campi dell’esistenza diventando più brutale e non risparmiando nemmeno le fasce della classe media sempre più in via di proletarizzazione.
Per quanto riguarda l’istruzione pubblica, anch’essa è sotto il continuo attacco di “riforme” almeno dal 1999. Riforme che hanno il duplice scopo di smantellare i vecchi insegnamenti e rimodularli secondo le nuove esigenze del Capitale: SPECIALIZZAZIONE, RIDUZIONE DEI SAPERI, CLASSISMO, MAGGIORE PRODUTTIVITA’.
Ma cosa vuol dire classismo e selezione di classe?
Ad esempio, le ripercussioni pratiche della “selezione di classe” diventano di giorno in giorno sempre più evidenti anche nell’Ateneo Pisano per cui a settembre ci siamo trovati
difronte a:
-aumento delle tasse universitarie del 7%
– nuovi test per accedere ai corsi di laurea a numero chiuso
– borse di studio e agevolazioni per il diritto allo studio
dimezzate
-riduzione dell’offerta didattica e accorpamento della Facoltà
nei Dipartimenti multidisciplinari.
L’Università di Pisa, purtroppo, si distingue dalle altre perché è stata fra le prime ad attuare, seppur con alcune modifiche, le direttive imposte dalla Riforma Gelmini e dalla
Riforma Profumo, allo scopo di accaparrarsi il titolo di “ateneo virtuoso”. Tutto ciò avviene ovviamente a discapito di altri studenti di altre Università italiane e secondo una
legge che crea atenei di SERIA A e di SERIE B, aumentando in questo modo ancora di più le diseguaglianze all’interno del medesimo sistema d’istruzione fra studenti di regioni diverse.
Tuttavia, nonostante la celerità attuativa dell’Ateneo Pisano c’è chi nel frattempo trova il tempo per aumentare i proprio guadagni di “indennità di carica” per i membri di alcuni
organi collegiali (Consiglio d’Amministrazione, Nucleo di Valutazione d’Ateneo) e monocratici (Rettore, Prorettori e Direttori di Dipartimento).
Dall’istituzione della “scuola di massa” negli anni ’70 la situazione è perciò davvero mutata: le esigenze sistemiche di profitto hanno costretto lo Stato e i singoli atenei (all’interno del percorso di “autonomia didattica” inaugurato nel 1999 con il Bologna Process) a ridurre drasticamente la possibilità di accedere, da parte di tutti, a un’istruzione altamente qualificata. Non dobbiamo però cadere nel errore di definire a priori l’insegnamento universitario come una “formazione di qualità” o altamente qualificata.
Difatti, cosa vuol dire formazione di qualità?
In una società in cui le divisioni di classe emergono, con la crisi, in maniera ancor più preponderante, occorre mettersi d’accordo su cosa significa davvero, nella fattispecie di una formazione scolastica, la nozione di “qualità” dell’insegnamento.
Dal punto di vista capitalistico, a seconda del parametro adottato, può essere ritenuta di qualità anche una formazione offerta da un’Università che istruisce a svolgere specifiche
funzionalità o determinate attività lavorative ma lascia gli studenti privi, per esempio, di una formazione di tipo classico-umanistico o limita la ricerca scientifica di base a
favore di quella “industriale”. Dopo una premessa quantomeno essenziale, se non si definiscono i parametri di valutazione e il contesto socio-economico, continuare a discutere di “Formazione di qualità” vuol dire annullare ogni tipo di critica radicale o ancorata alla realtà.
E’ per questo che il nesso tra Università e mercato del lavoro diventa centrale per comprendere queste trasformazioni. Le decisioni dei Governi europei, in linea con ciò che è il sistema universitario negli U.S.A., portano avanti da anni (Riforma Ruperti) il loro disegno di riduzione delle conoscenze e dei saperi. Il piano governativo è formare i
futuri lavoratori in base alle nuove esigenze dettate dai cambiamenti tecnologici avvenuti nel mondo della produzione. Il riferimento è qui all’introduzione della microelettronica
nei processi produttivi e alle trasformazioni epocali che ciò ha comportato: eliminazione di figure professionali, passaggio di conoscenza dal lavoratore alla macchina e parcellizzazione
dei saperi del lavoratore e, non per ultimo, “riduzione della forza lavoro” e creazione di un esercito di disoccupati.
E la produttività e il profitto?
Il processo di aziendalizzazione dell’Università va avanti da circa venti anni. L’ingresso dei privati nel Consiglio d’Amministrazione (CDA) è l’emblema di come il mondo della
formazione faccia gola agli interessi padronali e di come quest’ultimi si servano della “formazione di qualità” per formare la futura classe lavoratrice (dequalificata e spogliata di conoscenze).
Ad esempio, fra gli effetti di tale processo aziendalizzatore vi è senza dubbio la sostituzione delle Facoltà con i nuovi dipartimenti. Ciò ha già generato un’offerta della didattica estremamente ridotta e un’Università riformata a esamificio dello “studia, consuma, crepa”. Si tratta, comunque, di una formazione sempre più parziale e limitata, che si riduce per lo studente/futuro lavoratore a circoscritte conoscenze settoriali. Tale formazione incatena gli studenti a ristretti sbocchi lavorativi e li dequalifica sul mercato del lavoro, trattandosi di un sapere legato unicamente alle particolari necessita’ di quelle stesse aziende che promuovono questi percorsi.
In parallelo alla riduzione degli insegnamenti e alla riduzione dell’ampiezza della formazione universitaria, in un panorama desolante, aumentano invece i finanziamenti statali per le scuole d’eccellenza ovvero quelle in cui si forma e si formerà la futura classe dirigente italiana.
Perciò, in un contesto in cui le forze del capitalismo cercano disperatamente nuovi luoghi in cui accrescere i margini di profitto, è facilmente spiegabile la programmazione di nuove
alleanze tra Università e aziende. Pensiamo per esempio al patto tra la FIAT e il Ministero dell’Istruzione allo scopo di formare, già negli anni universitari, i futuri ingegneri del
più grande gruppo industriale italiano. Pensiamo anche al peso crescente che, dentro un percorso di studi, detengono stage e tirocini lavorativi non retribuiti. Infine, un altro esempio eclatante del processo di mercificazione del sapere e’ la collaborazione tra FINMECCANICA e l’Istituto Sant’Anna di Pisa, nell’ambito della ricerca industriale. La partecipazione a tali progetti e’ stata poi estesa, in veste di tirocini e/o tesi di laurea, agli studenti in ingegneria di tutto l’ateneo pisano. Frutto di tale collaborazione e’ la ricerca e lo sviluppo di tecnologie ampiamente sfruttate in ambito militare!
Anche queste collaborazioni a “fini di guerra” vengono portate avanti in nome di una maggiore fluidità tra il mondo della conoscenza e la produzione industriale. Ma non si deve
chiudere gli occhi su quello che ci propinano come formazione di qualità e connessione tra conoscenze e mercato del lavoro e invece è GUERRA e SFRUTTAMENTO.
A questo punto cosa fare?
Siamo convinti che l’unico modo di opporsi ai cambiamenti in negativo e dunque ottenere miglioramenti delle nostre condizioni nell’Università, nella società e nel mondo del lavoro, sia partecipare attivamente alla lotta anticapitalista con assemblee orizzontali, creando nuove concrete forme di lotta e riutilizzando quelle del passato come occupazioni e
autogestioni.
Ora più che mai è necessario che tra le diverse lotte in corso si creino legami più stretti. La prospettiva non può chiudersi entro i confini di uno Stato. L’orizzonte deve essere
INTERNAZIONALE. Non solo perché l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro viene condotto a livello europeo, ma soprattutto perché la risposta degli sfruttati deve superare i ricatti e le divisioni imposte con la violenza dai governi e dal Capitale. Per questo il 14 novembre ha costituito un minimo ma importante esempio e ci permetterà di rispondere
all’uragano della crisi con il terremoto sociale!
Il nostro compito, quindi, è quello di ripartire dalla lotta ancorata ai meccanismi della realtà, radicata nelle scuole, nelle fabbriche, nei luoghi del “lavoro interinale e precario”, dal basso e collettiva, nuovamente di massa.
È fondamentale, quindi, organizzarsi collettivamente tramite assemblee orizzontali, occupazioni e autogestioni, creare, rafforzare e diffondere momenti di controinformazione e solidarietà. Una pratica, quest’ultima, da riprendere necessariamente per contrastare in maniera unita e compatta i continui attacchi padronali e statali che, tramite i loro apparati repressivi, i movimenti di LOTTA di lavoratori e
studenti subiscono.
Per questo siamo convinti che è giunto il momento di RIALZARE LA TESTA!.. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI
COLLETTIVO AULA R- PISA
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