Menu

“In Libia è guerra civile”. Intervista a Lucio Caracciolo

Caracciolo, cosa sta succedendo in Libia? Quali sono le forze che si contendono il potere e il controllo delle ingenti risorse di quel territorio?

Si può parlare di guerra civile in atto, anche se in termini impropri. Dico in termini impropri perché una guerra civile per essere tale presuppone che esistano una qualche forma di stato e di società unitaria che poi vanno in frantumi. In realtà Gheddafi è riuscito a distruggere qualsiasi forma di istituzione statale nel paese. In questi 42 anni ha governato mantenendo un delicato ed a volte anche brutale sistema di equilibri tra le diverse fazioni e tribù libiche. Ora questo precario equilibrio si è rotto, anche perché dopo 42 anni di potere è difficile che le cose potessero proseguire come se niente fosse. Non sappiamo molto di quali siano le forze in campo. Sappiamo che le fazioni rivali di Gheddafi controllano ora buona parte della Cirenaica e qualche città anche più a ovest, e sappiamo anche che la controffensiva del governo le sta mettendo in seria difficoltà.

In effetti si sa veramente poco sulla fisionomia degli oppositori di Gheddafi. Sappiamo però che molti di quelli che compongono il cosiddetto Consiglio Nazionale Libico sono ex strettissimi collaboratori del Colonnello: funzionari, militari, in alcuni casi ex suoi ministri…

Questo è normale, quando un regime entra in crisi ci sono sempre quelli che si affrettano a saltare il fosso e a schierarsi dalla parte dell’opposizione. Però la radice della ribellione è rappresentanta dalle tribù della Cirenaica, la confraternita della Senussia che è una delle istituzioni tribali storiche di quella parte di Libia che durante il sistema gheddafiano si è sentita penalizzata rispetto alla rivale Tripolitania anche nella stessa ripartizione dei proventi delle risorse energetiche.

Alcuni analisti affermano che in maniera più trasversale una parte della borghesia libica si è sentita messa da parte, poco valorizzata dal regime…

E’ probabile, anche perché dal punto di vista economico e sociale non c’è dubbio che negli ultimi anni la Libia sia relativamente migliorata negli indicatori rispetto al resto dell’Africa e dello stesso Maghreb. Il reddito medio libico è paragonabile a quello di una regione dell’Italia meridionale; anche perché i libici sono pochi, tra i 6 e i 7 milioni di persone, e per un paese benedetto dai giacimenti di gas e petrolio – o maledetto, a seconda dei punti di vista – non è difficile redistribuire i proventi anche solo per tenere buone le fazioni avversarie. Ma quella di Gheddafi ora sembra essere una crisi seria: anche se dal punto di vista militare dovesse resistere o addirittura riconquistarel la Cirenaica nulla potrebbe essere come prima. Siamo di fronte ad una lunga fase di instabilità.

Quali sono le differenze, se ce ne sono, tra le varie rivolte che stanno attraversando il mondo arabo?

Noi dal punto di vista mediatico siamo abituati a mettere tutto in un enorme calderone, con i media che mescolano e ci servono il piatto pronto delle ‘rivoluzioni arabe’. In realtà ci sono moltissime differenze: se noi vediamo le rivolte in Tunisia oppure la rivoluzione ancora incompiuta in Egitto ci rendiamo conto che ci sono enormi diversità. Ad esempio quella egiziana è stata una rivoluzione con una forte base urbana in un paese di 80-90 milioni di abitanti egemonizzati da una metropoli di 20 milioni di abitanti… In Libia invece siamo in una zona scarsamente popolata, con enormi zone praticamente deserte e con la presenza di popolazioni provenienti da regioni dell’Africa centrale e sub sahariana reclutate per il lavoro sporco.

Si parla in alcune analisi e interventi politici – ad esempio di alcuni settori dell’estrema sinistra – di ‘rivoluzione democratica’ in Libia. Condivide questo giudizio?

E’ più un augurio che un’analisi. Speriamo che possa prevalere qualche forma di democrazia. Ma i dati che abbiamo non indicherebbero una così ovvia possibilità, anche perché la democrazia presuppone uno Stato. E in Libia di Stato non si vede proprio traccia. Nella migliore delle ipotesi possiamo parlare di intenzioni democratiche di una parte dei rivoltosi, ma si tratta di ricostruire – se si vuole tenere insieme il paese – un vero e proprio stato unitario.

Uno stato che – nel senso moderno del termine – i libici non hanno mai avuto visto che il paese nasce dalla competizione tra i diversi colonialismi europei…

Appunto. I libici l’hanno avuta un’esperienza di Stato che è stata quella dello stato coloniale italiano, e da quell’esperienza i libici non hanno tratto nulla di buono, confermandosi nella loro idea che in fondo lo Stato non sia poi questa gran cosa…

Venendo al posizionamente della comunità internazionale rispetto alla guerra civile libica, lei pensa che un intervento militare diretto sia possibile?

Allo stato non mi sembra, almeno non a breve termine. Prima di andarsi a impelagare militarmente nella guerra civile libica in molti preferiscono pensarci bene sopra; e questo vale sia per gli americani che per gli europei. Inoltre al momento non ci sono né le disponibilità finanziarie né le risorse militari necessarie per andarsi ad accollare i costi militari, umani ed economici di un intervento diretto in Libia, che credo venga spesso evocato per intimidire Gheddafi e per dare l’idea alle proprie opinioni pubbliche che si sta facendo qualcosa. La guerra non la vedo alle porte…

Le sembra più probabile lo scenario descritto ieri dal quotidiano britannico The Indipendent quando ha affermato che l’amministrazione Obama ha chiesto ai sauditi di sostenere economicamente e militarmente i ribelli libici. Questo eviterebbe all’occidente un intervento militare diretto ma al tempo stesso consentirebbe di far pendere l’ago della bilancia dalla parte dei rivoltosi?

Questa è l’ipotesi che allo stato appare più convincente. Fin dai primi giorni i paesi occidentali hanno mandato in Libia i propri consiglieri militari, delle missioni d’intelligence, degli addestratori a sostegno delle truppe ribelli. Parlo di Stati Uniti, di Gran Bretagna, di Francia, e forse anche l’Italia sta facendo la propria parte. L’altra ipotesi, quella intermedia, è la cosiddetta ‘no fly zone’, cioè l’interdizione al volo per i velivoli impiegati dall’esercito di Gheddafi che dovrebbe quindi favorire le capacità belliche dei ribelli sul terreno. Il problema è che la no fly zone implica una vera e propria guerra, come ha chiarito lo stesso ministro statunitense Gates che ha ricordato la necessità di bombardare le installazioni della contraerea a terra per poter istituire la zona di non volo e mettere in sicurezza i caccia e gli elicotteri impiegati dai paesi occidentali. Questa ipotesi implicherebbe tra l’altro l’uso delle basi italiane degli USA e della Nato, come ad esempio quella di Sigonella.

Come valuta il comportamento dei media internazionali e di quelli italiani nella copertura della crisi libica?

Al Arabiya e soprattutto al Jazeera si sono comportate, in tutte le rivoluzioni e le rivolte in corso nel nord Africa, più che da media da ‘organizzatori’. Al Jazeera ha avuto un ruolo centrale in Egitto, Al Arabiya ha avuto un ruolo più importante in Libia. Sono state diffuse come quasi sempre avviene in questi casi, una quantità di informazioni false: penso alle famose fosse comuni che poi erano in realtà il cimitero di Tripoli, o alle cifre incredibili sui morti diffuse dopo pochi giorni dall’inizio della rivolta come Al Arabiya che parlava di 10 mila vittime e così via. Questo fa parte della disinformazione scontata in ogni conflitto. Però i nostri media dovrebbero essere più attenti nel valutare e diffondere notizie incontrollate di questo genere, a maggior ragione in tempo di guerra.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *