Basta «guerra» al terrorismo
Con un discorso drammatico, ma al tempo stesso sobrio, rivolto agli americani, domenica notte il presidente Obama ha annunciato la cattura e l’uccisione di Osama bin Laden. Ci ha ricordato l’orrore, il dolore, la tragedia e l’assurdità del massacro dell’11 settembre del 2001. Ci ha ricordato come, in quei lugubri giorni, «abbiamo riaffermato la nostra unità, come una sola famiglia americana… e la nostra determinazione a portare di fronte alla giustizia i colpevoli di quell’attacco crudele». Il presidente ha spiegato come la cattura e l’uccisione di bin Laden sia stato «lo sforzo più significativo finora nella nostra battaglia per sconfiggere Al Qaeda». E ha rieffermato che questo paese non farà mai la guerra all’islam. Per questa ragione, ha detto Obama, la «morte di bin Laden è una buona notizia per tutti coloro che vogliono la pace e la riaffermazione della dignità umana».
Il suo appello rivolto agli americani perché ricordino ciò che ci unisce, che «giustizia è stata fatta», è un’importante apertura che va presa al volo. È ora di mettere fine alla «guerra globale contro il terrorismo» con cui abbiamo vissuto nell’ultimo decennio. E’ ora di smettere di definire la lotta del dopo 11 settembre contro dei terroristi senza stato come una «guerra». Ed è ora ache di mettere fine all’assurda guerra in Afghanistan che è già costata al paese cosi’ tante vite e denaro.
Definire la lotta contro il terrorismo una guerra è stata una consapevole decisione di Bush, di Karl Rove e di altri nei primi giorni dopo l’11 settembre – una decisione che distrusse l’unità di cui ha parlato il presidente Obama domenica notte.
Rove aveva capito che se la lotta senza fine contro il terrorismo fosse stata definita una «guerra», sarebbe diventata la grande narrazione della politica americana. Che avrebbe portato con sé i danni collaterali di cui siamo stati testimoni negli ultimi dieci anni.
La metafora della «guerra» – come ha scritto l’ex ambasciatore americano Ronald Spiers in un articolo provocatorio pubblicato nel marzo 2004 sul Rutland Herald , «non è né precisa né innocua, poiché implica che c’è un punto finale, che sarà o una vttoria o una sconfitta… Una “guerra al terrorismo” è una guerra senza una fine in vista, senza una exit strategy, con dei nemici indentificati non a causa dei loro obiettivi ma per la loro tattica… Il presidente aveva trovato questa “guerra utile”, come una giustitifazione complessiva per quasi tutto quello che voleva – o non voleva – fare; la confusione serviva politicamente l’amministrazione. Ricorda la guerra ambigua e senza fine di Big Brother nel libro 1984 di Orwell. Una guerra contro il terrorismo è un impegno permanente contro uno strumento sempre a portata di mano».
L’amministrazione Bush e, purtroppo, troppo spesso anche quella di Obama, ha usato la «guerra» come giustificazione per minare i migliori principi americani. Siamo stati testimoni dell’abuso del ricorso alle norme internazionali sui diritti dell’uomo, dell’imprigionamento illegale di migliaia di donne e uomini e dell’accettazione della tortura.
Mi ricordo di aver guardato due anni dopo l’11 settembre la cermonia al memoriale di Washington dedicato alla Seconda guerra mondiale, e di essere stata spinta a riflettere a come, durante la tragedia di quella guerra, che fu una ben maggiore sfida all’esistenza del nostro paese rispetto alla situazione attuale, il presidente Roosevelt avesse dato all’America una visione di speranza e non di paura. Un decennio prima, durante la Grande Depressione, un’altra importante sfida allo spirito e all’unità del paese, Roosevelt aveva detto alla nazione che non c’è nulla di cui aver paura, a parte la paura stessa. Con il presidente Bush e il suo gruppo, abbiamo visto gente impegnarsi a fondo per convincere gli americani – attraverso una serie di imprecise analogie storiche – che non c’era nulla di cui aver paura, a parte la fine della paura stessa. Oggi, il presidente Obama e il suo gruppo hanno la possibilità di ridefinire la lotta al terrorismo.
Certo, viviamo all’ombra dell’11 settembre – un crimine enorme. Ma il terrorismo non è un nemico che sfida l’esistenza della nostra nazione; la nostra risposta non deve distruggere i veri valori che definiscono l’America ai nostri occhi e a quelli del mondo.
L’amministrazione Bush ha sfruttato senza vergogna, per scopi politici, la paura del terrorismo negli Usa. Ma, come abbiamo imparato, una guerra senza fine iper-militarizzata può indebolire maggiormente la nostra democrazia e incoraggiare un nuovo stato basato sulla sicurezza, che sormontare seriamente la sfida. Dopo tutto, non siamo impegnati in primo luogo in un’operazione militare. Ma si tratta piuttosto di un’operazione di intelligence, di rafforzamento delle leggi, di uno sforzo diplomatico.
Il presidente Obama lundì sera ha usato termini umani e sobri. È stato un sollievo ritrovare nelle sue parole il riferimento a quei (tropo brevi) giorni dopo l’11 settembre, quando l’idea di un sacrificio condiviso, del rispetto del lavoro degli impiegati pubblici, dei pompieri, di coloro che per primi avevano reagito, di un ampio senso del bene comune avevano pervaso la nostra società e la politica. E dopo la cattura e l’uccisione di bin Laden, i leader politici avranno il coraggio di dire che quello a cui siamo confrontati non è una «guerra» al terrorismo?
Purtroppo, il presidente Obama ha proseguito troppe politiche di sicurezza dell’era Bush. Ma è al tempo stesso un presidente che capisce come le guerre siano una sfida per bloccare delle presidenze riformatrici e come minino alla base i migliori valori di questo paese. Se noi cittadini sfidiamo la definizione di «guerra», se rifiutano, dieci anni dopo il feroce attacco dell’11 settembre, di lasciare che la «guerra» definisca la psiche nazionale e la sua politica, se chiediamo ai nostri rappresentanti di smettere di piegare oggi virtualmente ogni discussione di politica estera in termini di terrorismo, abbiamo la speranza di costruire uno schema per la sicurezza nuovo e maggiormente efficace.
Shirin Ebadi, grande personalità nella difesa dei diritti delle donne e dei bambini, la prima donna musulmana ad aver ricevuto il Premio Nobel, una persona che ha fronteggiato il fondamentalismo nella sua terra natale, l’Iran, ha detto quasi dieci anni fa: «I governi non reprimono la gente solo con false interpretazioni della religione; a volte lo fanno con discorsi ipocriti sulla sicurezza nazionale».
* direttrice di The Nation
La gallina dalle uova d’oro
Nel 2006, in un viaggio di ritorno da Lahore, ho incontrato un amico di gioventù. Con qualche vergogna, confessò di essere un ufficiale dei servizi segreti e aggiunse che si recava a una conferenza europea per discutere sui migliori modi per combattere il terrorismo. Ne seguì la seguente conversazione (una versione più lunga può essere trovata in The Duel: Pakistan on the Flightpath of American Power – Il duello, Dalai editore 2008).
«Osama bin Laden è ancora vivo?»
Non rispose.
«Se non rispondi, ne deduco che la risposta sia sì».
Ho ripetuto la domanda. Non ha risposto.
«Sai dove si trova?»
È scoppiato a ridere.
«Non lo so, e anche se lo sapessi, pensi che te lo direi?»
«No, ma te l’avrei comunque chiesto. Qualcuno sa dov’è?»
Alzò le spalle.
Ho insistito, «nulla nel nostro meraviglioso paese resta per sempre un segreto. Qualcuno deve sapere».
«Tre persone lo sanno. Forse quattro. Puoi immaginare chi sono».
Potevo immaginare. «E Washington?»
«Non lo vogliono vivo».
«E i tuoi uomini possono ucciderlo?»
«Ascolta amico, perché dovrebbero uccidere la gallina dalle uova d’oro?»
Adesso gli americani hanno ucciso loro la gallina. Quale era il premio promesso e a chi?
Adesso metteranno fine alla guerra e all’occupazione, che per supposizione era combattuta per eliminare Osama e che ha causato un numero di morti tra la popolazione civile che, al minimo, è quattro volte superiore ai morti delle Twin Towers.
Lo faranno? Figuriamoci.
Bin Laden, il mio vicino di casa Da Abbottabad diretta su Twitter
Maurizio Matteuzzi
Frankenstein islamico L’ascesa e la caduta
Osama irruppe sulla scena mondiale l’11 settembre 2001. Nel giro di 10 anni è diventato la primula rossa del terrorismo internazionale, l’uomo più temuto, ricercato, odiato al mondo. E l’occasione – o il pretesto – per tutte le guerre che gli Usa e l’occidente hanno lanciato in questo decennio.
Osama bin Laden era nato a Riyadh, Arabia saudita, nel 1957, figlio numero 17 dei 52 di Muhammad bin Laden, uno yemenita che aveva fatto i miliardi con i Saud, e di una siriana, Hamid al Attas, sua decima moglie. La morte del padre, nel ’68, gli aveva reso disponibili centinaia di milioni di dollari. Osama si laureò in economia e in ingenergia civile alla King Abdul Aziz university di Gedda, dove venne in contatto con professori e studenti della corrente islamica più oscurantista, i wahabiti. L’invasione sovietica dell’Afghanistan, dicembre ’79, quando aveva 22 anni, cambiò per sempre la sua vita. Ci andò e si unì per un decennio alla guerra dei mujaheddin, conclusa con il ritiro dell’Urss dalla palude afghana – cimitero di tutti gli invasori-, nell’89.
La Cia, prima con Reagan poi con Bush padre, ebbe un ruolo di primo piano – come con i contras anti-sandinisti del Nicaragua – nell’addestrare e armare la resistenza afghana. Fra loro c’era Bin Laden.
Ma, finita la guerra, il suo odio per «il comunismo ateo seovietico» passò sugli sponsor Usa, che, per puntellare il prezioso alleato (petrolifero), mantenevano 300 mila soldati in Arabia saudita, patria dei due luoghi sacri dell’Islam, la Mecca e Medina. Allo scoppio della prima guerra contro l’Iraq di Saddam, nel ’91, giurò di vendicare quella «blasfemia». Nel ’93 fu tirato in ballo per l’attentato al Worl Trade Center di New York e nel ’95 per le bombe che uccisero 19 soldati Usa a Riyadh. Per le pressioni Usa dovette andarsene da Arabia saudita e Sudan.
Il posto giusto per lui era di nuovo l’Afghanistan, in piena anarchia post-ritiro dell’Urss, dove ritornò nel gennaio ’96 e dove 9 mesi dopo i taleban entrarono a Kabul. Nel febbraio ’98 lanciò una «fatwa» per conto del «Fronte mondiale per la guerra santa contro gli ebrei e i crociati», in cui si leggeva che «uccidere americani e i loro alleati civili e militari è un dovere individuale per ogni musulmano, ovunque sia possibile».
Sei mesi dopo saltarono in aria le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania (224 morti, la maggior parte africani), attentato che gli fu attribuito. Dalla sera alla mattina diventò il nemico pubblico n.1 degli Usa e il «most wanted dead or alive», una taglia di 25 milioni di dollari e la caccia delle «assassination squads», squadre per assassinarlo che Usa e Israele mandarono sulle sue tracce.
Ma lui sembrava inafferrabile e il suo mito di primula rossa della «riscossa» araba montava mano a mano che avanzava «lo scontro di civiltà». Venne l’11 settembre 2001 e la guerra di rappresaglia Usa contro l’Afghanistan dei taleban. Nel novembre di quell’anno sfuggì beffardamente a un attacco degli americani a Tora Bora, in Afghanistan . Cominciò a lanciare messaggi – video, radio, internet -, spesso attraverso al Jazeera, oculati e «a tempo»: nel febbraio 2003, vigilia del secondo attacco Usa a Saddam («Tutti i musulmani devono lanciare il jihad»); nel 2004, anno dell’attentato islamista ai treni di Madrid e solo pochi giorni prima delle elezioni Usa che avrebbero riconfermato Bush, in cui per la prima volta rivendicava l’attacco alle Torri gemelle.
Dato più volte per morto, ora è finita come doveva finire. Forse – si vedrà – «troppo tardi», come ha detto ieri un ufficiale afghano alla Bbc, perché intanto al Qaeda si è organizzata a prescindere da Bin Laden: «oggi c’è un Bin Laden in ogni strada».
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«Ora gli Usa se ne vadano»
Michele Giorgio
Dall’altra parte del Muro, nei territori occupati palestinesi sotto occupazione, l’uccisione dello sceicco di al Qaeda ha scompigliato le carte in tavola fra le principali fazioni palestinesi, a poche ore dalla firma (domani o giovedì al Cairo) di un atteso accordo di riconciliazione nazionale. La morte di bin Laden per Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen, è una «buona notizia». «L’uomo che è stato ucciso – ha aggiunto da parte sua il premier dell’Anp Salam Fayyad (un indipedente) – si era impegnato in un’opera di distruzione lungo la sua intera vita. Spero che la sua morte segni l’inizio della fine di questa epoca tenebrosa». Ma a Gaza il capo dell’esecutivo di Hamas, Ismail Haniyeh, ha denunciato «la politica oppressiva degli Stati uniti», sottolineando tuttavia che a livello teorico fra Hamas e al Qaeda sussistono «importanti differenze di interpretazione» dei testi sacri. «Noi condanniamo la uccisione di ogni mujahed (combattente islamico) e di ogni individuo, musulmano o arabo. Imploriamo Dio che gli garantisca la sua misericordia», ha detto Haniyeh, che poi ha criticato «gli spargimenti di sangue di arabi e di musulmani» perpetrati dagli Stati uniti.
Grande sdegno tra gli esponenti musulmani della regione, a cominciare dai rappresentanti dell’università di al Azhar del Cairo (una delle istituzione islamiche sunnite più importanti al mondo), ha provocato la decisione statunitense di gettare in mare il corpo di Osama bin Laden. L’ex imam di Milano, Hassan Mustafa Osama Nasr, meglio conosciuto come Abu Omar, raggiunto telefonicamente ad Alessandria d’Egitto dal manifesto, ha protestato con forza. «È stato un crimine contro la religione – ha detto Abu Omar – l’Islam afferma che il corpo delle persone decedute deve essere seppellito in un posto sicuro e protetto, e non gettato in mare». Osama bin Laden e al Qaeda hanno fatto «cose sbagliate e cose buone», ha spiegato Abu Omar, «hanno ucciso civili in tutto il mondo ma allo stesso tempo hanno combattuto contro gli Stati uniti impedendo la penetrazione americana nei paesi islamici».
L’ex imam di Milano è stato vittima di uno dei più noti e meglio documentati casi di «rendition» durante la «guerra ad al Qaeda»: i trasferimenti segreti di «sospetti terroristi islamici» compiuti dai servizi statunitensi.
L’America ieri festeggiava l’uscita di scena di bin Laden – ma non regge la tesi della sparatoria, con ogni probabilità l’amministrazione Obama ha ordinato di ucciderlo, ritenendo ingestibile e un pericolo per la sicurezza nazionale la detenzione e un processo negli States del leader di al Qaeda – ma il qaedismo non è certo finito, come hanno giustamente fatto osservare diversi analisti. Anzi a leggere quanto scrivevano e dichiaravano ieri i gruppi ed esponenti jihadisti in giro per il mondo, l’America ora deve attendersi la vendetta. Per il sito «Shabaket Ansar al Mojahedin», «Bin Laden è stato un grande combattente e ha fatto soffrire gli Stati uniti». «Al nostro nemico», aggiungeva l’autore del testo, «annunciamo che la vendetta è vicina.Aspettate e vedrete». Un altro sito web qaedista «Assad al Jihad» scriveva sulla sua homepage che «la morte del cavaliere dell’islam (Osama bin Laden) rafforza la nostra determinazione, ci rende più forti e pronti a colpire più a fondo». Simili le dichiarazioni dello sceicco Hassan Taher Ewais, leader dei somali «Shebab al Mohajedin» e dello sceicco Omar Bakri, un portavoce di al Qaeda fuggito dalla Gran Bretagna e ora a Tripoli del Libano.
Potrebbe essere Ayman Zawahri, 60 anni, il medico egiziano attuale numero 2 di al Qaeda, a succedere a Osama Bin Laden. D’altronde negli ultimi anni Zawahri è stato il volto e il leader di fatto dell’organizzazione. Ma tra i candidati ci sono anche un altro egiziano, Saif al Adel: 50 anni, capo del braccio militare di Al Qaida; Anwar al-Aulaqi, 39 anni, nato negli Stati Uniti e fuggito in Yemen; e infine Suleiman Abu Ghaith, kuwaitiano di 46 anni, uno dei principali portavoce di Al Qaeda.
Giuliano Battiston
Taleban: la guerra continua
Gli studenti coranici hanno mal sopportato la presenza a Kabul di ObL. A sdoganarlo fu il mullah Omar
La morte di bin Laden, ha dichiarato ieri mullah Zaeef, già ministro taleban in Pakistan, ora «mediatore» tra i movimenti antigovernativi e il governo Karzai, non fermerà la guerra: perché sulle catene dell’Hindu Kush si combatte «una guerra condotta dagli afghani», contro «un’occupazione ingiusta».
Orgoglioso di aver «fatto giustizia» con l’uccisione di Osama bin Laden, il presidente Barack Obama ha ricordato che negli ultimi dieci anni lo sforzo militare americano ha portato importanti risultati, come la destituzione del governo taleban, che aveva garantito un rifugio sicuro al milionario saudita e al suo network terrorista. La vendetta americana non fa dunque che riaccendere gli interrogativi sulla legittimità dell’intervento in Afghanistan, e sulla reale collusione tra al Qaeda e il movimento dei taleban. Interrogativi a cui di recente hanno cercato di rispondere due ottimi ricercatori e giornalisti di base a Kandahar, Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn, con «An Enemy We Created: The Mith of the Taliban/Al Qaeda Merger in Afghanistan, 1970-2010» (Hurst). Un libro importante che riprende i temi già sollevati dai due autori nel saggio «Separare i taleban da al-Qaeda: la chiave del successo in Afghanistan», pubblicato alcuni mesi fa per il Center on International Cooperation della New York University.
La loro tesi, per quanto solida e articolata, è semplice: tra i due movimenti c’è sempre stata incompatibilità di fondo, e se c’è stato un avvicinamento tattico, è stato causato dalle politiche della Nato e degli Stati Uniti. Quanto al primo punto, secondo Alex Strick van Linschoten e Felix Kuehn l’orientamento dei maggiori leader di al Qaeda, tra cui lo stesso Osama, si è modellato sugli eventi regionali del mondo arabo, all’insegna delle ideologie islamiste e panislamiste di pensatori come l’egiziano Sayyd Qutb, che a partire dagli anni Sessanta hanno contribuito a riscrivere il rapporto tra religione e politica nel «grande Medio Oriente» (si veda su questo Le altissime torri di Lawrence Wright, Adelphi). La vecchia leadership taleban invece è cresciuta in un ambiente perlopiù impermeabile agli sviluppi dell’islam politico degli ultimi decenni, e si è aperta alle influenze del jihadismo transnazionale soltanto nei tardi anni Ottanta, quando la guerra contro l’invasione sovietica ha richiamato a Kabul gruppi disparati di militanti provenienti da aree diverse del globo.
Pur intrattenendo rapporti occasionali di collaborazione tattica con questi gruppi, alcuni dei quali in seguito avrebbero dato vita ad al Qaeda, quelli che sarebbero poi divenuti i leader taleban hanno continuato a mantenere una visione «apolitica» del jihad – inteso come un dovere personale del credente di combattere contro l’invasore – e sono tornati nelle loro comunità o nelle scuole coraniche con il ritiro dei sovietici. La visione «domestica» e locale adottata allora avrebbe condizionato anche la nascita e l’affermazione dei taleban nel 1994.
Non è un caso che, quando nel maggio del 1996 Osama bin Laden fu costretto a lasciare il Sudan, arrivò sì in Afghanistan, ma non nei territori allora controllati dai taleban, e non dietro loro invito. Come ha ricordato in un’intervista recente con chi scrive mullah Muttawakil, già braccio destro e portavoce di mullah Omar e ministro degli Esteri dell’Emirato islamico d’Afghanistan, bin Laden venne invitato in Afghanistan dall’ex leader mujahedin Burhanuddin Rabbani, allora presidente del paese e in rotta di collisione con i taleban, che ospitò il ricco saudita a Jalalabad.
Quando i taleban conquistarono la città, «ereditarono» anche l’ospite straniero. Da allora, i rapporti sono stati sempre ambigui, e la presenza del leader di al Qaeda ha dato luogo a ampi dibattiti interni: il mullah Omar vedeva in bin Laden uno strumento per connettere il movimento afghano all’intera Ummah (comunità dei credenti) islamica, mentre un gruppo di opposizione interna riconducibile al mullah Mohammad Rabbani (morto nell’aprile 2001), a capo della shura dei leader di Kabul, temeva che il suo attivismo mediatico e dinamitardo potesse compromettere il riconoscimento internazionale del governo taleban.
Nel corso degli anni i rapporti sono rimasti sempre tesi e fragili, anche perché bin Laden, seguendo un’agenda politica personale, ha assunto spesso decisioni in diretta violazione delle direttive specifiche del mullah Omar. Con l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, le cose si sono complicate: molti comandanti di alto livello e diversi leader taleban, offesi per la manipolazione di cui erano stati fatti oggetto, suggerirono a mullah Omar di consegnare il saudita. Dopo aver consultato i servizi segreti pakistani, che lo rassicurano che gli Usa avrebbero reagito in modo «lieve», come in seguito agli attentati africani del 1998, mullah Omar, poco esperto di politica internazionale, rispose di non essere d’accordo, anche per paura di alienarsi la simpatia dei movimenti islamici di tutto il mondo.
In seguito all’intervento armato americano, la politica del presidente Bush del «o con o contro di noi» ha contribuito a far avvicinare i due gruppi, ma solo tatticamente, mentre le strategie americane che mirano all’uccisione dei leader taleban di alto grado hanno frammentato la catena di comando, marginalizzando la vecchia guardia incline al dialogo e rafforzando le nuove reclute meno «nazionaliste» e più inclini al jihadismo senza frontiere.
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