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Elezioni turche, vincono tutti

I repubblicani di Kılıçdaroğlu che con 3 milioni e mezzo di consensi in più hanno risalito la china e registrato un 26% con cui incamerano 135 deputati, i nazionalisti dell’Mhp miracolati dopo gli scandali del bordello che riescono a superare di tre punti l’alto sbarramento posto al 10%. Lo stesso Bdp filocurdo che lo sbarramento non lo supera (6.6) ma invia in Parlamento 36 deputati presentati come indipendenti, fra cui la pasionaria Leyla Zana. Il discorso sfoderato da Erdoğan non è quello del leader d’un partito di maggioranza ma dello statista che guarda ai 74 milioni di cittadini, non solo ai suoi 21.400.000 elettori. Dice “Ha vinto il popolo mentre perde ancora una vota il sistema dell’illegalità e dei privilegi. Amplieremo la libertà e ciascuno potrà esprimere se stesso fino al meglio“. Chi pensa male di lui dirà che è obbligato a dirlo. Perché nel giorno d’una vittoria schiacciante non solo non ha raggiunto i 367 seggi su 550 che gli avrebbero consentito di decidere in solitudine come cambiare la Costituzione ma, paradosso del sistema elettorale, non incamera neppure i 330 parlamentari che l’avrebbero agevolato nel progetto sebbene da ratificare con un referendum. Il suo Akp, votato da un turco su due, si ferma a 325 deputati e pur riproponendo un monocolore sarà costretto a dialogare con altri attori.

Erdoğan coglie immediatamente il variegato senso del voto e lancia la collaborazione “Dico che se la maggior opposizione e gli altri partiti approveranno potremo sederci e dialogare attorno al tema della Costituzione liberale anche con associazioni non presenti in Parlamento. Est, ovest, nord, sud troveranno se stessi in questa Costituzione rivolta a 74 milioni di persone, curdi, turkmeni, aleviti. Una Costituzione di fratellanza, partecipazione, unità e solidarietà”. In un Paese litigioso, dove chi vince vuole tutto, il passo del premier sembra seguire logiche diverse. Pur forzato dallo stato delle cose lui sa che la riscrittura costituzionale dovrà necessariamente essere condivisa perché tocca questioni infuocate come i diritti delle minoranze, la libertà di stampa, le riforme religiose e il rapporto fra civili e militari. Quanto gli sarà possibile raggiungere, specie con forze che ad esempio sul ruolo della casta militare non vogliono cedere nulla, diventa la prova del fuoco della sua abilità politica. Intanto l’invito a collaborare per la soluzione dei grandi temi della nazione è una risposta partecipativa a chi l’accusava di esclusione e di voler ‘putinizzazione’ la politica interna. Certo quest’ennesimo mandato da premier sarà l’ultimo, come egli stesso ha sottolineato, ma in un’ipotesi di riforma in senso presidenziale della Turchia c’è chi giura che l’indole egocentrica prevarrà e nel 2015, a sessantuno anni, Erdoğan si presenterà in prima fila per l’agognata investitura.

Dopo le tante promesse d’una campagna elettorale intensissima il Paese attende conferme su fronte economico, dove la sfida della modernizzazione che la pone fra le 16 nazioni più avanzate del globo, è sempre aperta. Ma presuppone impegni gravosi correlati con quelle certezze energetiche che, come spiegavamo nei giorni scorsi, molto dipendono dalla geopolitica. Il volto tecnologico dato dai servizi di comunicazione con autostrade, treni veloci, nuovi scali aerei può continuare con ulteriori roboanti progetti come lo sbandierato secondo Bosforo, un canale artificiale lungo 150 km da scavare a ovest dell’originale, che consentirebbe un più rapido passaggio delle petroliere dal Mar Nero. Un lavoro da 20, e c’è chi dice 50, miliardi di dollari che ha fatto da traino alla campagna erdoganiana con la naturale promessa di enorme occupazione di cui però non si sono mai svelati i contorni su chi l’avrebbe finanziato e realizzato. Ecco, una delle sfide per il confermato premier resta sicuramente quella economica che ha fatto dell’Akp il partito interclassista in cui si riconoscono il mondo rurale aggregato attorno all’identità religiosa, la micro e macro impresa islamica in progressiva espansione e il suo proletariato dipendente raccolto attorno al sogno di grandezza di un neo ottomanesimo. Questo sogno ha preso corpo e può proseguire un percorso forse rivolto più all’egemonia in un’area politicamente instabile ma economicamente ricettiva qual è il Medio Oriente che verso quella vecchia Europa che teme e tuttora allontana i turchi. Seppure nella regione le difficoltà non mancano, come mostra il caso siriano, passato da partner a presenza ingombrante per i massacri ordinati da Assad.

Le restanti sfide con cui Erdoğan deve misurarsi riguardano libertà di stampa e la questione delle cosiddette minoranze. Sulla prima il premier aveva anche di recente registrato corto circuiti per la diatriba avuta col direttore del Taraf Ahmet Altan che, ricordando gli arresti di numerosi giornalisti, gli lanciava accuse di autoritarismo. Per riequilibrare la situazione dovrà dare segnali di distensione e accettare le severe stilettate della stampa d’opposizione. Rispetto all’elezione di rappresentanti curdi entrati autonomamente in Parlamento, un grosso nodo da sciogliere è la loro richiesta d’autonomia. Accettarla servirebbe a disinnescare l’annosa rivendicazione etnica che può assumere forme di lotta nuove rispetto alla lotta armata proposta da anni dal Pkk. Figure come Leyla Zana, eletta deputata, aumentano il consenso fra la propria gente con metodi non violenti ma non meno incisivi. Zana non fa sconti a nessuno, alla mano che l’altro politico mite – Kılıçdaroğlu – gli ha teso durante la campagna elettorale ha risposto con obiettivi precisi: consiglio di autogoverno nelle nostre regioni, nostra bandiera e istruzione in lingua madre nelle scuole. Nei distretti di Hakkari, Van, Diyarbakir, Mardin tutto ciò rappresenta un credo irrinunciabile. Seppure dietro l’angolo resta anche la richiesta che altri neodeputati curdi avanzano: l’amnistia verso i detenuti del Pkk, irricevibile per qualsiasi partito turco, islamista o laicista.

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