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I ribelli visti da vicino

La vittoria della Nato e dei ribelli in Libia è molto più fragile di quel che le celebrazioni facciano immaginare in queste ore. La battaglia per la Libia comincia in effetti ora – come ben sanno tutti coloro che vi hanno messo anche solo un dito e sono tanti, emigrati, governi, Nato, petrolieri, servizi, e faccenderi. La prima ragione di fragilità è nel modo stesso in cui la guerra è stata combattuta: che sia stata tutta «esterna», cioè fatta dalle forze Nato, ha reso impossibile far maturare una guida politica dell’opposizione.

I leader attuali sono, infatti, come si vede dalle loro biografie, un’accozzaglia di vecchie volpi e nuove aspiranti volpi, segnati tutti da opportunismi di vecchia conoscenza, e manovrati dalle varie nazioni occidentali, ognuna delle quali si è scelta il suo «protagonista» di riferimento. Per molti versi si riproduce lo stesso schema della conquista di Baghdad: una relativamente facile vittoria militare «esterna» e un vuoto di classe politica dentro il Paese che ancora, ad anni di distanza, non si è riempito.

Il parallelo fra Tripoli e Baghdad non è, ovviamente, perfetto – la caduta di Gheddafi, a paragone di quella irachena, è stata certamente meno drammatica dell’invasione diretta di truppe straniere vista in Iraq, ha ramificazioni politiche minori perché minore è l’influenza della Libia nel suo contesto, di quella che aveva Baghdad fra Arabia Saudita e Iran, ma non è un caso che in queste ore negli ambienti politici internazionali si senta ripetere la frase «evitare gli errori del dopo-Saddam».

Dobbiamo aspettarci anche a Tripoli, dunque, una transizione lunga e senza esclusione di colpi di testa, e colpi di Stato. La seconda ragione per cui non si può immaginare un immediato, brillante futuro per la nazione oggi in festa è il contesto in cui questo cambio di regime è avvenuto. C’è infatti una profonda debolezza di sistema intorno alla Libia. Sull’incertezza nordafricana sappiamo tutto, ed è ovvio che dove e come andranno a finire le rivoluzioni arabe, a partire dai confinanti Egitto e Tunisia, avrà effetti profondi anche sul destino libico.

Meno invece si discute della debolezza anche del sistema occidentale, che ha promosso la guerra contro Gheddafi. La caduta del dittatore tripolino è un’indubbia vittoria nell’immediato della Nato, del presidente Obama e di quei leader europei, come i francesi,che più l’hanno cavalcata. Ma va notato anche che nei brevi sei mesi della durata del conflitto questi Paesi non sono più gli stessi. L’elemento forte di novità che agirà nel dopo Gheddafi è che la Nato che ha raggiunto la vittoria non è la stessa entità che ha avviato la guerra.

La crisi economica che scuote le nostre nazioni non è un fenomeno occasionale e l’esposizione della debolezza del nostro sistema economico sta indebolendo anche la forza politica, la capacità di gestione dei progetti internazionali avviati. Pomposamente questa tendenza si chiama «declino» della potenza occidentale, ma nel risvolto pratico ha aspetti piuttosto semplici da osservare. Tanto per fare un esempio, basti pensare che in Libia già prima della guerra operava una nutritissima presenza cinese (circa 23 mila se ne sono contati all’evacuazione), turca (altri ventimila) e di varie altre nazioni non occidentali.

La Libia è da tempo, infatti, e non solo per noi europei, la porta sull’Africa; quell’Africa che negli ultimi anni è già diventata il playground dell’espansione delle potenze emergenti. L’interesse di questi Paesi non diminuisce né viene escluso dalla vittoria Nato – ne è semmai acuito. Il punto è se un’Europa con una crescita in affanno, con spese militari destinate a (quasi) azzerarsi, e Stati Uniti in condizioni di incertezza politica interna come mai prima, saranno in grado di portare a termine in Libia quello che avevano cominciato solo sei mesi fa.

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