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Liberati i giornalisti italiani, la guerra continua

Il segretario di Stato americano Hillary Clinton invita i ribelli libici a mostrare fermezza contro le «violenze estremiste» e stima che le prossime settimane saranno «critiche » in Libia. «Vigileremo per assicurarci che la Libia non venga meno alle proprie responsbilità e assicuri che le armi non minaccino i paesi vicini o finiscano nelle mani sbagliate e che si mostri ferma contro la violenza estremista», ha affermato Hillary Clinton in una nota. Comincia insomma a emergere quel “fronte interno” qaedista alle formazioni “ribelli” che invece era stato fin qui smentito sdegnosamente da portavoce e giornalisti embedded. Emerge anche che la Nato ne era perfettamente consapevole.

La scena e il fronte sono monopolizzati in queste ore dalla battaglia per Tripoli e la caccia a Gheddafi, con le sparatorie fin sull’uscio dell’hotel Corinthia sotto gli occhi di decine di giornalisti occidentali. Ma la guerra in Libia, come tutte, sembra celare ancora sottotraccia atrocità ben più dure: il ritrovamento di cadaveri chiaramente giustiziati, dell’una e dell’altra parte, rivela esecuzioni incrociate e lascia intendere che una campagna di vendette sia già iniziata. I corpi di oltre 30 uomini, con ogni probabilità soldati lealisti di Gheddafi, sono stati rinvenuti, crivellati da colpi d’arma da fuoco, soprattutto in un accampamento militare nel centro di Tripoli, in una delle aree dove negli ultimi giorni si sono concentrati gli scontri, riferisce un inviato della Reuters sul posto. Almeno due erano ammanettati e questo potrebbe significare che gli uomini sono stati ‘giustiziatì. Alcuni dei cadaveri indossavano uniformi militari, ma altri erano in abiti civili e a indicare che si trattava di soldati fedeli al rais è il fatto che nell’accampamento c’erano le bandiere verdi del regime e immagini del colonnello. Alcuni dei morti erano uomini di colore, e potrebbe dunque trattarsi di mercenari. Segnali simili e tracce di analoghi accanimenti sono stati rilevati anche sui corpi di 17 civili accolti in un ospedale di Tripoli, suscitando il forte sospetto che siano stati giustiziati negli ultimi giorni dalle forze fedeli al colonnello Muammar Gheddafi nel compound del rais. «Ieri è arrivato all’ospedale un camion con a bordo 17 corpi», ha detto un’infermiera inglese, Kirsty Campbell, all’ospedale vicino alla base aerea di Mitiga. «Sono stati trovati a Bab al Aziziya, quando i ragazzi (i ribelli, ndr) sono entrati lì. Quegli uomini sono stati giustiziati nel compound», ha affermato, aggiungendo che altri cadaveri di giustiziati potrebbero venire scoperti. Il ritrovamento di un camion pieno di cadaveri crivellati di colpi con ogni probabilità vittime dei lealisti di Gheddafi è confermato anche da un medico dello stesso ospedale vicino alla base aerea di Mitiga. Secondo il dottor Moez, che ha parlato con Sky News, «i 16 o 17 corpi erano crivellati di colpi. A molti di loro hanno sparato alla testa, ma avevano ferite dappertutto». Una delle vittime, secondo il medico, era ferita ma ancora viva e ha raccontato di essere stata catturata insieme agli altri dai lealisti di Gheddafi. Poi sarebbero stati tenuti in ostaggio per qualche giorno in una scuola vicino al centro città e infine giustiziati. «Questi – ha detto il dottore – sono i crimini per i quali Gheddafi dovrebbe essere processato dalla Corte penale internazionale. Sono sicuro che fatti analoghi sono avvenuti in molte parti della città e del Paese». Un’altra strage di civili, secondo quanto riferito dai ribelli, è avvenuta durante la battaglia per la conquista del bunker di Gheddafi: 30 morti, tra loro anche donne e bambini. Sarebbero stati freddati da un cugino di Gheddafi, Nagi Al Hamir, mentre celebravano la vittoria dei ribelli davanti al compound. I loro corpi, riferiscono i ribelli, sono stati trovati solo oggi nei pressi del bunker, perchè la zona era piena di cecchini ed era impossibile avvicinarsi.

Problemi in vista anche per l’annunciata volontà dei “volenterosi” Nato di passare direttamente a un impiego massiccio delle truppe di terra. Il ministro degli esteri brasiliano, Antonio Patriota ha avvertito oggi che «nessun gruppo può attribursi prerogative per adottare decisioni» in merito alla Libia, «che spettano solo Consiglio di sicurezza dell’Onu». «Il Brasile si considera più amico della Libia di molti altri Paesi, Noi non abbiamo mai utilizzato armi contro qualsiasi libico», ha detto Patriota nel corso di un incontro con la stampa al termine di una riunione con altri 35 colleghi di America Latina e Asia dell’est in cui, tra l’altro, è stato affrontato il tema della crisi mondiale. Il ministro ha poi sottolineato: «Per ora non ho visto alcun invito ufficiale per la conferenza che si sta organizzando in Francia. Pertanto dovrò informarmi meglio per sapere quali ne saranno le caratteristiche e lo spirito». «È importante non commettere errori come è avvenuto in altri aree, per esempio in Iraq», ha poi aggiunto Patriota. Che, tra l’altro, in risposta ad una domanda sulla possibilità che il Brasile conceda asilo politico al rais libico, ha assicurato: «Non è previsto accogliere Muammar Gheddafi in Brasile».

Gli insorti libici si stanno preparando a un attacco decisivo contro Sirte, città natale di Muammar Gheddafi e sua ultima roccaforte. Lo riferisce la Bbc, spiegando che, secondo i ribelli, tra le strade della città costiera ci sono circa 1.500 lealisti. Le forze legate al Consiglio nazionale di Transizione (Cnt) hanno portato verso la città un gran numero di carri armati. La conquista definitiva della città potrebbe richiedere a loro giudizio circa tre giorni. Una “Misurata 2” sembra dunque alle porte. Ma non si sentono grida umanitarie, in giro.

 

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dal Corriere della sera

Il Paese che verrà

Con la sola eccezione della caduta del Muro di Berlino, non si ricorda un crollo di regime, in ogni angolo del pianeta, senza una coda di violenze e di più o meno lunga instabilità. È dunque prematuro parlare di futuro democratico per la Libia del dopo Gheddafi. Ciò che è certo, in queste ore convulse, fra l’euforia dei fuochi d’artificio e la pena di decine di cadaveri per le strade di Tripoli è che un’epoca si è chiusa.

Probabilmente, gli amici di ieri e gli ultimi alleati di oggi del Raìs scriverebbero un’altra storia, per contestare quella che, nei secoli dei secoli, viene scritta dai vincitori o presunti tali, da coloro che hanno cominciato una rivoluzione appunto per vincerla e da quanti hanno compreso, più o meno rapidamente, da quale parte stare.

Alcuni dati oggettivi. Il primo è che la fine della dittatura viene salutata dalla stragrande maggioranza della popolazione libica e non solo dai miliziani ribelli. Il secondo è che la caduta di Gheddafi rende meno sicuri altri dittatori, contribuendo a rendere irreversibile, sia pure fra molte incertezze, la primavera araba (durante la quale, è bene ricordarlo, non è stata bruciata una sola bandiera americana). Il terzo è che l’intervento militare «esterno» è stato deciso a sostegno di una rivoluzione in atto, che rischiava di essere stroncata nel sangue, spegnendo anche le speranze di milioni di giovani arabi.

Si discuterà all’infinito sui margini di «legalità» delle risoluzioni internazionali e sulla «diversità» della missione libica rispetto ad esempio all’appoggio offerto alla secessione in Kosovo o al tragico tentativo di «esportazione» della democrazia in Iraq. E probabilmente si continuerà ad argomentare sugli interessi petroliferi in gioco, sui calcoli elettorali di Sarkozy, sulle titubanze italiane, sulla non nuova contraddizione fra ideali generalizzabili e la loro applicazione pratica: limitata, non estensibile ovunque e in ogni stagione, come limitate sono per forza di cose le vicende umane. È al tempo stesso banale e triste ricordare che non è possibile mettere sotto embargo la Cina per la libertà del Tibet o che un attacco militare alla Siria innescherebbe scenari più complessi che in Libia. Ma è un fatto che la Francia abbia compreso per prima la posta in gioco e agito di conseguenza, a braccetto con la Gran Bretagna. È un fatto che Barack Obama incassi il successo di una missione conseguito con costi e tempi infinitamente più ridotti della fallimentare operazione irachena. È un fatto che l’Europa e le Nazioni Unite abbiano saputo offrire una cornice di legalità e ottenere il via libera della Lega Araba. Ora dovremo dimostrare visione e saggezza nella difficile opera di ricostruzione. A cominciare dai primi contatti, come ieri a Milano e nei prossimi giorni a Parigi. È un fatto che l’Italia, nonostante imbarazzanti polemiche politiche, abbia saputo mettere in campo professionalità e competenze militari, d’intelligence e industriali.

È infine un motivo di riflessione la neutralità della Germania, così rigorosa nel dettare da prima della classe le condizioni dell’economia europea, così timida nel comprendere che il futuro dell’Europa non è soltanto una questione di bond e tassi d’interessi. Eppure, proprio a Berlino, dovrebbe essere più facile sentire in quale direzione soffia il vento della Storia.

Massimo Nava

 

Nota redazionale: E’ appena il caso di far notare “i margini di legalità” con cui son state prese decisioni di intervento cosituiscono l'”imprinting” non solo del regime che dovrebbe prendere forma ora a Tripoli, ma anche e soprattutto la “qualità democratica” delle istituzioni internazionali (Onu in testa). Che la legalità, a questo livello decisivo, non esista affatto e sia sostituita dal semplice rapporto di forza – si “sanziona” soltanto chi decidono Usa e alleati, non certo chi, come Israele, non ha mai rispettato una sola risoluzione Onu), compromette alla radice qualsiasi idea di legalità internazionale e, di conseguenza, qualsiasi garanzia sulla “tenuta democratica” degli stessi paesi che dicono di vole “esportare la democrazia”. Non è una discussione di lana caprina, ma “costituente” l’ordinamento del mondo, nelle relazioni tra paesi e all’interno dei vari paesi.

 

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da Repubblica

Le Sas britanniche in Libia

Nessuno dovrebbe meravigliarsi del fatto che forze speciali occidentali hanno partecipato e partecipano alla guerra in Libia e stanno avendo un ruolo di primo piano nella caccia a Gheddafi. Il compito delle forze speciali è per l’appunto quello di muoversi dietro le linee nemiche, prima di un conflitto o in una fase in cui l’esercito regolare non può apparirvi coinvolto, per esempio per ragioni politiche. La posta in gioco in Libia, per l’Occidente che ha deciso di appoggiare i ribelli, era e rimane altissima. Un prolungamento o inasprimento della guerra, una guerra civile senza fine, una vittoria di Gheddafi, una lotta intestina fra le fazioni che ne prenderanno il posto, sono tutti scenari da incubo per la Nato. L’obiettivo era evitare ad ogni costo una ripetizione di quanto è accaduto in Iraq, da un lato, e dall’altro non interrompere con un risultato negativo la serie di rivolte dal basso che hanno portato alla caduta di regimi autoritari nel mondo arabo, in Tunisia, in Egitto, ora in Libia, forse domani in Siria.

Fonti britanniche indicano che il Regno Unito ha svolto un ruolo di primo piano per aiutare i ribelli libici sul terreno. Le Sas, leggendaria unità di commandos dell’esercito britannico, hanno preso parte alle operazioni di guerra con i loro uomini già da alcune settimane, guidando in particolare l’operazione per conquistare Tripoli. Per l’occasione i commandos britannici vestono abiti civili, cercano di sembrare arabi e usano le stesse armi di cui sono dotati i ribelli: ma sotto quegli abiti ci sono alcuni tra i più formidabili guerrieri della terra, gente che sa usare non soltanto la forza ma anche e soprattutto il cervello, in battaglia. Accanto alle Sas sono entrate in azione le spie dell’MI6, il servizio di spionaggio britannico (quello in cui milita James Bond nella finzione letteraria e cinematografica), con i loro agenti e i loro informatori libici: si sono occupati principalmente di una cosa, scoprire dov’è Gheddafi e come prenderlo. Londra e la Nato non vogliono che il colonnello riesca a ripetere l’impresa di Saddam Hussein, rimasto nascosto per mesi in Iraq dopo la caduta di Bagdad e del suo regime. Con lo stesso scopo, il Gchq, ovvero il servizio di spionaggio elettronico del Regno Unito, ascolta le telefonate fatte con cellulari a Tripoli e le confronta con registrazioni della voce di Gheddafi, per individuare i suoi spostamenti. Tutte informazioni che vengono poi passate sul terreno alle Sas e ai comandanti ribelli. Accanto alle forze speciali britanniche, sempre secondo le indiscrezioni circolate a Londra, partecipano alle operazioni anche forze speciali di Francia, Qatar e di alcuni paesi dell’Europa orientale. L’altro sistema usato dalla Nato per appoggiare sul terreno i ribelli, senza inviare formalmente proprie truppe nel conflitto, è stato quello – ben sperimentato – di creare un fondo (con l’aiuto di altri paesi arabi e dei proventi del petrolio libico in mano ai ribelli) per assumere un certo numero di “contrattisti privati”, ex-commandos britannici e occidentali che ora lavorano per agenzie di guardie del corpo, le quali a volte agiscono come braccio ufficioso dei servizi segreti e delle forze speciali: in genere si limitano a offrire una scorta a uomini d’affari in luoghi pericolosi del mondo, ma quando è necessario mandano i propri uomini in guerra, a dare una mano ai ribelli appoggiati dal loro paese, come una sorta di corpo paramilitare. Se a ciò si aggiunge la taglia di oltre un milione di dollari sulla testa di Gheddafi, vivo o morto, sembra difficile che il colonnello possa fuggire e cavarsela. Tutto ciò può forse indignare qualcuno, ma non dovrebbe meravigliare. La guerra si combatte, e talvolta si vince, anche così.

 

Nota redazionale: Repubblica è il quotidiano “democratico” che meno si preoccupa del rispetto delle procedure democratiche (qualsiasi sistema di regole, e massimamente la democrazia, è un sistema procedurale per elaborare una decisione) quando si tratta di battere un avversario. La “pratica dell’obiettivo” è sempre per loro indifferente all’uso della metodologia, come dimostra anche questo post sul blogo di Enrico Franceschini. In pratica, ci chiedono di fidarsi ciecamente delle loro “buone intenzioni” che vedono la deocrazia come un “fine”, non come uno strumento praticabile. Nel nostro piccolo, on ci fidiamo affatto dei pasticcioni volenterosi. In genere fanno più danni della peste. Specie alle idee che dicono di difendere.

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Prezioso, dunque, su questo punto, il contributo di Gramellini su La Stam

Pozzi di verità

Guardando le foto della villa di madamina Gheddafi, mi è tornato alla mente il monologo di suo padre in Italia, giusto un anno fa: «Dal 1977 ho lasciato tutto il potere al popolo». Per sé e i suoi cari si era tenuto le piscine. E’ la solita doppia verità della politica, che in pubblico maneggia concetti elevati e in privato pensa agli affari propri e del proprio clan. Che ci caschino i sudditi di un dittatore è quasi patologico. Ma come mai anche noi, cittadini evoluti di una democrazia, continuiamo a bere spremute quotidiane di falsità senza provare un moto di disgusto? Le uniche guerre per la libertà che emozionano i governi occidentali sono quelle che avvengono nei Paesi ricchi di materie prime. Se un manigoldo massacra la gente in un deserto zampillante petrolio è un criminale che va estirpato in nome dei diritti umani. Ma se un manigoldo analogo semina il panico su una distesa di pietre, come sta avvenendo in Siria, le esigenze della libertà diventano subito un po’ meno urgenti e prevale il principio di non intervento negli affari interni di un’altra nazione.

Non mi illudo più che le classi dirigenti si facciano guidare da principi etici. Pretendo però che ci trattino da adulti e la smettano di pigliarci per i fondelli. Sai cosa gliene importa a Sarkozy della libertà dei beduini. E’ andato in Libia per impossessarsi dei pozzi dell’Eni. E noi controvoglia lo abbiamo accompagnato per tenerlo d’occhio. Dice il proverbio: la verità è nuda, tocca alla saggezza rivestirla. Alla saggezza, però, non alla faccia tosta.

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da “il manifesto”

Maurizio Matteuzzi
A Tripoli Via anche l’ultima foglia di fico: forze speciali e teste di cuoio della coalizione dei volenterosi sul terreno per prendere Gheddafi
La grande caccia è aperta
La capitale ancora teatro di guerra mentre si prepara l’attacco a Sirte. La Lega araba riconosce il Cnt, l’Unione africana non ancora. Sudfrica furioso

E’ partita la grande caccia ma lui, il vinto Gheddafi, è duro a morire. Pur di prendere il Colonnello, vivo o morto (cosa è meglio: presentarlo dietro le sbarre con la divisa a righe o metterlo definitivamente a tacere?), la coalizione degli «umanitari» ha gettato ogni residuo pudore per il rispetto almeno formale della risoluzione 1973 del 17 marzo – quella che conferiva all’Onu il mandato di «proteggere i civili» di entrambe le parti «con tutti i mezzi». Eccetto che con le truppe sul terreno (un terreno che storicamente fa paura). Ora la Nato ha ammesso – e lo rivendica – la presenza di «truppe speciali» al fianco (alla testa?) degli insorti nella loro conquista di Tripoli.
E «special forces» sono impegnate nella grande caccia a Gheddati e ai figli partita da un paio di giorni in una Tripli ancora sconvolta dagli scontri e dalle «sacche di resistenza» dei lealisti (con morti per le strade, fosse comuni, ospedali in situazione «critica»). Sono inglesi, americani, francesi, qatarioti (e chi altri?) che vestono come arabi, imbracciano le stesse armi dei ribelli (ovvio, gliele hanno vendute o regalate loro). Aiutati dal cielo da un sofisticatissimo aereo-spia Usa soprannominato «the Hog», il maiale, e da un drone canadese, le teste di cuoio di paesi Nato danno in queste ore una caccia senza quartiere al raìs libico. Ufficialmente per la Nato Gheddafi non è mai «stato un bersaglio» ma nessuno a Londra, Washington o Parigi si nasconde l’importanza della sua cattura dopo che mercoledì sarebbe sfuggito per un pelo a un raid dei ribelli in una casa del centro di Tripoli e ieri veniva dato infilato, da solo o con alcuni dei figli, in «un buco» nel blocco di edifici circostanti il compound preso e saccheggiato di Bab al-Aziziya o in un quartiere di Tripli, Abu Salim, considerato una delle sue roccaforti. Così, via anche l’ultima foglia di fico: ieri il ministro degli esteri inglese William Hague ha ammesso che le famose/famigerate Sas britanniche, Special air service, sono «sul terreno» su ordine del premier Cameron (lo citava il Daily Telegraph).
Anche inesorabilmente sconfitto Gheddafi fa ancora paura, come se fosse tornato «il cavallo pazzo» degli anni ’70-’80. Per l’occasione si reincarnano anche vecchi fantasmi come Jalloud, l’ex numero due, fuori dalla politica da 20 anni e scelto dall’Italietta berlusconiana come sua carta (un due di coppe quando briscola è denari) per cercare di non restare tagliata fuori dalla divisione della torta. Jalloud, che dice di voler formare «un partito laico e liberale», ha detto al Times che Gheddafi è «talmente ubriaco di potere che si illude di poterlo riprendere una volta uscita di scena la Nato», e ha messo in guardia i ribelli che se non stanno attenti «si vestirà da donna e scapperà verso l’Algeria o verso il Ciad».
Il destino del Colonnello è segnato ma lui è duro a morire e Tripoli è ancora lontana dalle apparenze di una città «pacificata». Ierimattina una tv satellitare, al Urubah e qualche stazione radio vicine al regime hanno ripreso a trasmettere, dopo essere state messe a tacere il giorno prima. E hanno trasmesso un nuovo appello di Gheddafi, dal tono di sfida: un appello «alla resistenza» contro «i crociati e i traditori» e l’avviso che «la Libia non sarà mai né della Francia né dell’Italia».
Secondo gli insorti non è solo a Tripli che sono in azioni forze speciali britanniche e francesi, ma anche a Misurata, sistemate in una base nei pressi del porto di Kasa Ahmed, per preparare l’assalto finale su Sirte, la città natale la roccaforte popolare di Gheddafi. A un centinaio di km da Sirte erano segnalati scontri a colpi di missile, sulla città si stranno concentrando le residue forze lealiste (1500-2000 uomini), la Nato ha compiuto nuovi raid «per proteggere i civili», sembra che siano in corso negoziati fra i ribelli e i leader locali invitati alla resa.
La sorte della guerra è decisa ma la guerra non è finita e queste, a Tripoli e altrove, sono le ore più pericolose (come dimostra la vicenda dei 4 giornalisti italiani). Le ore della resa dei conti, delle vendette. Le ore del vuoto di potere. Ieri, nella conferenza stampa congiunta con Berlusconi a Milano, Mahmoud Jibril, il primo ministro (e unico visto che il presidente del Cnt, Mustafa Jalil, ha sciolto il governo dopo l’assassinio del «ministro della difesa, Younes), ha dato la soprendente notizia che il misterioso Consiglio nazionale di transizione si è già trasferito da Bengasi a Tripoli fin da mercoledì. Sarà. Però ieri pomeriggio Jalil ha dato una conferenza stampa, ma a Bengasi.
Ieri Cnt è stato riconosciuto anche dalla Lega araba (che fin dall’inizio aveva invocato l’intervento della Nato), mentre l’Unione africana (i cui tentativi di mediazione sono stati sprezzantemente frustrati dalla Nato, dall’Onu e dall’Occidente) doveva riunirsi a Addis Abeba per decidere il da farsi. Anche il Sudafrica è furioso. Ieri all’Onu ha bloccato lo scongelamento di 1.5 miliardi di dollari degli asset libici in favore del Cnt (ne sono passati solo 500 milioni), il vice-presidente della repubblica Motlanthe ha chiesto che la Corte penale internazionale indaghi non solo su Gheddafi ma anche sui crimini di guerra sui civili commessi dalla Nato e 200 prominenti figure sudafricane hanno firmato una lettere di condanna contro la falsa «guerra umanitaria».

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Andrea Oskari Rossini *
IL FETICCIO DELLA GUERRA
Bengasi come Srebrenica? Dove e perché Adriano Sofri sbaglia

Andrea Oskari Rossini *
Strano destino, quello di Srebrenica. Le sue vittime, dimenticate per anni, sono tornate alla ribalta. Mai più Srebrenica. Vuol dire mai più massacri di civili nell’indifferenza della comunità internazionale. Giusto. Dietro questo slogan, però, troppo spesso si nascondono altre ingiustizie, altri massacri. Adriano Sofri, in un editoriale di sostegno all’intervento della Nato e degli altri alleati in Libia, ha scritto martedì scorso su la Repubblica «che cosa sarebbe accaduto della popolazione indifesa di una grande città come Bengasi ? Non si sarebbe parlato di Srebrenica se Srebrenica fosse stata prevenuta». Già, ma il problema sta nelle forme della prevenzione. A Srebrenica c’era un esiguo contingente di olandesi, con armi leggere, assolutamente inadeguato per affrontare l’esercito serbo bosniaco. L’enclave, di fatto, non era difesa. Nessuno era interessato alla sorte dei bosniaci, e i macellai aspettavano solo il segnale di via libera, puntualmente arrivato alla fine di giugno di quella tragica estate. Se avesse avuto di fronte un esercito di caschi blu, Mladic non avrebbe potuto attaccare. Il fatto che allora non ci sia stata interposizione, però, non può servire oggi per giustificare la guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali. Bisognerebbe piuttosto discutere di come dotarsi di strumenti efficaci per il mantenimento della pace.
Guerra e interposizione, guerra e mantenimento della pace sono categorie differenti. Vale la pena ricordarlo. Sofri scrive che «la contraddizione è largamente inevitabile nel sistema di relazioni internazionali». È vero. Questa però vale come constatazione, non come programma. Eccessive iniezioni di realismo portano a perdere la bussola. In una situazione di conflitto aperto, la comunità internazionale deve intervenire a protezione dei civili. Ma l’intervento non può che avvenire per il mantenimento della pace, non per creare altre vittime e altri lutti. Dopo Srebrenica, invece, il massacro dei bosniaci è stato utilizzato per giustificare nuove guerre, condotte da autoproclamate «polizie internazionali». Gli interventi di queste forze (1999 Kosovo, 2001 Afghanistan, 2003 seconda guerra del Golfo, 2011 guerra di Libia) hanno però lasciato alle loro spalle, oltre ad una lunga scia di morti, una lunga scia di problemi irrisolti. Non ci sono i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Dopo l’intervento Nato in Kosovo, i serbi sono dovuti fuggire, come prima fuggivano gli albanesi. La crisi di quest’estate a Mitrovica nord, gli scontri a Jarinje e Brnjak, mostrano che, dieci anni dopo, la situazione è tutt’altro che risolta. Un conto è mettersi in mezzo, altro è schierarsi con una parte contro l’altra. Dal punto di vista delle possibilità reali di elaborazione di un conflitto, di costruzione di una società accogliente per le sue diverse componenti, cambia molto. Nessuno piange per la scomparsa di Gheddafi dalla scena politica. Ma su quali basi si fonda la nuova Libia? In questi mesi, purtroppo, non abbiamo assistito alla rappresentazione della giustizia internazionale, della protezione dei diritti umani. Se le navi e gli aerei della Nato fossero state nel Mediterraneo per difendere i diritti umani, non avrebbero lasciato morire centinaia di profughi sulle loro barche, violando oscenamente il diritto del mare oltre che le più elementari norme del diritto internazionale umanitario, secondo quanto denunciato dai pochi sopravvissuti, da questo giornale e dall’inchiesta del Guardian. La nuova Libia, purtroppo, nasce sulle stragi dei migranti, così come 15 anni fa la Bosnia Erzegovina nasceva sulle fosse comuni. La comunità internazionale ha fallito in entrambi i casi. Discutiamo di come creare meccanismi efficaci di interposizione, torniamo a chiedere una Organizzazione delle Nazioni Unite che sia coerente con il suo patto fondativo. Il feticcio della guerra ha già troppi adepti. * Osservatorio Balcani e Caucaso

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da Il Sole 24 Ore

I nuovi leader, scommessa rischiosa

di Alberto Negri


Abdel Salam Jalloud, un tempo braccio destro di Gheddafi, buon amico di Andreotti, vecchia conoscenza di famiglia del presidente dell’Eni, molti anni fa spiegava ai giornalisti le tre cose giuste fatte dal Colonnello quando era salito al potere: «Chiudere le basi americane e inglesi, nazionalizzare il petrolio e cacciare gli italiani». Lo ascoltavamo senza ovviamente immaginare che il compagno di scuola del raìs sarebbe diventato, un giorno, il nostro uomo nella nuova Libia.
Jalloud in queste ore convulse ha confidato agli amici italiani di aver svolto un ruolo, per conto del Cnt di Bengasi, nella sollevazione di Tripoli e di voler fondare adesso un partito «liberale». Ha avvertito però che i Fratelli Musulmani, sponsorizzati dal Qatar, sono molto ben organizzati, mentre il presidente del Cnt Jalil, è troppo legato a logiche tribali e il premier Jibril, incontrato ieri da Berlusconi, è onesto ma con poco carisma.

I libici sono, in ogni senso, sorprendenti: un anno fa, quando i suoi purosangue berberi sfilavano a Tor di Quinto e il Colonnello si preparava a convertire all’Islam delle avvenenti hostess, non avremmo potuto credere che sarebbe stata l’ultima volta. Sembrava il nostro più solido socio in affari, che grazie al petrolio, si poteva permettere qualunque stramba carnevalata. Ma quando ha cominciato a sparare sulla folla di Bengasi non abbiamo saputo tenerlo a bada: trascinati dai francesi e dalla Nato, siamo stati costretti a bombardarlo. Qualcuno se ne ricorderà: ma noi siamo maestri di realpolitik e come clienti affezionati della Libia speriamo di ottenere uno sconto sul passato dai nuovi gestori del barile.

Il “manuale Jalloud”, sintetico e flessibile, può tornare utile per leggere gli eventi libici. Ci lega a Tripoli il cordone ombelicale del Greenstream, il gasdotto dell’Eni – e a nessuno verrebbe in mente di deviarne i tubi – la capacità di estrarre petrolio e la speranza di poterlo fare anche in Cirenaica, la vera posta in gioco dove sono sotterrate l’80% delle riserve: in mano abbiamo quote azionarie libiche in banche e società, quindi potremmo rientrare, almeno in parte, nel caso non venissero rispettati i vecchi accordi. Un altro discorso è la questione della sicurezza delle coste e del controllo dei clandestini: i nuovi signori di Tripoli dovranno dimostrare di tenere in pugno un Paese grande dieci volte l’Italia.

È evidente che la Libia, in qualunque stagione della storia recente, è stata una scommessa ad alto rischio: la sponda Sud ha sempre buttato lacrime, sangue e petrolio. Ci fu l’avventura coloniale italiana, cominciata nel 1911, poi nel dopoguerra arrivarono gli inglesi, portandosi via tutto il petrolio possibile prima che cadesse il re, e ora gli europei ci riprovano a vincere la partita, senza mettere il piede a terra, per carità.
Per questo si stanno inventando un Governo, rappresentato dai maggiorenti di Bengasi, nel quale riversare qualche manciata di miliardi di dollari: un mondo di ex ministri e funzionari del Colonnello che si sono rifatti velocemente una fedina democratica. Saranno loro gli interlocutori di domani?

Siamo in mano ai libici e non sappiamo davvero quali. Gheddafi se ne va sollevando sulle macerie del Paese un turbinio di polvere: qui non ci sono istituzioni o partiti e il simulacro di una società civile negli ultimi giorni si è inabissato persino negli ospedali della capitale dove sono rimasti al loro posto soltanto i paramedici filippini. Dimentichiamo troppo facilmente che la repubblica di Gheddafi si reggeva quotidianamente sul lavoro di oltre due milioni di stranieri.
La Libia viva e feroce, che appare nelle strade e nelle immagini, è quella degli shebab, dei clan e delle tribù in armi, dei berberi, al loro appuntamento con la storia: un libico su tre ha meno di 15 anni, il 30% dei giovani sotto i 25 anni, alla vigilia della guerra, non aveva un lavoro e questo accade nel Paese più ricco del Nordafrica, con un Pil pro capite che surclassa quello egiziano o tunisino.
Ma noi europei, favoriti dall’aria frizzante delle conferenze internazionali, preferiamo puntare su un plotone di ex cacicchi del Colonnello, un po’ di ancien régime e di dosata novità, in un mix che deve garantirci petrolio e stabilità: non lamentiamoci se avremo altre sorprese e un giorno qualcuno alzerà il pugno per fare anche lui «tre cose giuste», come ricordava Jalloud in un lontano passato ancora duro a morire.

 

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