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Il movimento che fa la differenza

Non sapremo mai con certezza perché tutto sia cominciato proprio negli Stati Uniti – e non tre giorni o tre mesi o tre anni prima o dopo. Le condizioni erano tutte presenti: disagio economico crescente e non solo per le fasce colpite dalla povertà vera e propria ma per un segmento sempre in aumento di lavoratori impoveriti (noti anche come «classe media»); esagerazioni incredibili (sfruttamento e avidità) da parte dell’1% piú ricco della popolazione americana («Wall Street»). CONTINUA|PAGINA8 Esempi di rivolte di arrabbiati in tutto il mondo (la «Primavera araba», gli indignados spagnoli, gli studenti cileni, i sindacati del Wisconsin, e una lunga lista di altri). Non importa davvero quale sia stata la scintilla che ha fatto divampare l’incendio. Il fatto è che è divampato. Nello Stadio 1 – i primi giorni – il movimento era formato da una manciata di persone audaci, per lo più giovani, che hanno cercato di dimostrare. Totalmente ignorati dalla stampa. Poi qualche stupido capo di polizia ha pensato che con un po’ di brutalità si potesse mettere fine alle dimostrazioni. Il tutto è stato filmato e il video si è diffuso come un virus su YouTube.

E così si arriva allo Stadio 2: pubblicità. La stampa non poteva più ignorare del tutto i dimostranti. E allora ha provato con un atteggiamento di condiscendenza. Che ne sapevano quei ragazzi stupidi e ignoranti (e quella manciata di vecchiette) di economia? Avevano da proporre un programma? Erano «disciplinati»? Le dimostrazioni, sostenevano, sarebbero ben presto svanite. Quello che la stampa e i poteri coinvolti non avevano previsto (sembra che non imparino mai) era che il tema della protesta ben presto sarebbe risuonato ovunque in un crescendo. «Occupazioni» analoghe sono cominciate in una città dopo l’altra. E poi anche i cinquantenni disoccupati hanno preso a partecipare. E così pure i personaggi famosi e i sindacati, compreso nientemeno che il presidente dell’Afl-Cio. La stampa fuori degli Stati Uniti allora comincia a seguire gli eventi e a chiedere cosa volessero. I dimostranti rispondono: «giustizia». Una risposta che sembrava sensata a sempre più gente.
Questo ci porta allo Stadio tre: legittimità. Accademici di una certa fama affermano che attaccare Wall Street era in qualche modo giustificato. Tutto a un tratto la voce principale della rispettabilità centrista, il New York Times, nell’editoriale dell’8 ottobre, asserisce che i dimostranti in effetti avevano «un messaggio chiaro e un preciso piano di azione» e che il movimento era qualcosa «di più di rivolta giovanile». Il Times continuava: «La forte disuguaglianza è il marchio di una economia disfunzionale, dominata da un settore finanziario guidato da speculazione, frode e appoggio governativo tanto quanto da investimenti produttivi». Parole forti per il Times. E il Comitato elettorale democratico al Congresso ha cominciato a far circolare una petizione nella quale si chiede ai sostenitori del partito di dichiarare «Sto con Occupy Wall Street».
Il movimento è diventato rispettabile. E dunque anche pericoloso. Stadio quattro. Un grande movimento di protesta che si diffonde in genere si scontra con due grossi pericoli. Primo: l’organizzazione di una significativa controdimostrazione di destra nelle strade. Eric Cantor, l’astuto leader repubblicano della linea dura al Congresso, ha già incitato a scendere in piazza e le controdimostrazioni possono essere alquanto violente. Il movimento Occupy Wall Street deve prepararsi e decidere come intende gestire o contenere la cosa.
Ma la seconda e maggiore minaccia viene dal successo stesso del movimento. Man mano che si allarga la sua base, aumenta la diversità di posizioni tra i manifestanti attivi. Il problema in questo caso è, come sempre del resto, evitare la Scilla della setta chiusa che perderebbe per via di una base troppo ristretta e la Cariddi della scarsa coerenza politica effetto di una base troppo estesa. Una formula facile che permetta di evitare quei due estremi non esiste. È difficile.
Quanto al futuro, potrebbe succedere che il movimento si affermi sempre di più. Potrebbe ottenere due cose: forzare la ristrutturazione nel breve periodo di quello che il governo può fare per alleviare il disagio acuto diffuso tra la gente; e indurre la trasformazione sul lungo periodo di quello che vasti settori della popolazione americana pensano delle realtà della crisi strutturale del capitalismo e delle grandi trasformazioni geopolitiche che si stanno verificando nell’attuale mondo multipolare.
Anche se il movimento Occupy Wall Street dovesse venir meno per stanchezza o per effetto della repressione, ha già avuto successo e lascerà un’eredità duratura, proprio come le rivolte del 1968. Gli Stati Uniti saranno cambiati in una direzione positiva e come dice il proverbio: «Roma non è stata costruita in un giorno». Un sistema-mondo nuovo e migliore, un’America nuova e migliore richiedono i ripetuti sforzi di svariate generazioni. Ma un mondo differente dopotutto è possibile (per quanto non inevitabile). E noi possiamo fare la differenza. Occupy Wall Street sta facendo la differenza. Una grossa differenza.
(Traduzione di Maria Baiocchi)

da “il manifesto” del 18 ottobre 2011

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