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Liberi Shalit e i primi quattrocento prigionieri palestinesi

Sull’accordo, deciso da giorni, nulla hanno potuto le petizioni rivolte all’Alta Corte Suprema da alcune famiglie israeliane colpite dalla morte dei propri congiunti che contestavano il rilascio di taluni militanti palestinesi. Attraverso il valico di Rafah il soldato dell’Idf è stato consegnato dal responsabile dell’ala militare di Hamas Jabbari Ahmed a funzionari egiziani e della Croce Rossa, e da questi affidato a uomini del Mossad che l’hanno condotto nella base di Tel Nof. Lì ha riabbracciato i genitori e incontrato uomini di governo. Shalit appariva in buone condizioni di salute e dichiarava “Hamas mi ha trattato bene. Spero che quest’accordo possa aiutare il processo di pace tra israeliani e palestinesi”. Una sortita quasi politica che conforta chi in patria vuole fondare un partito in suo nome. Alla festa iniziata a Tel Aviv e nella casa Shalit di Gerusalemme fa da specchio la gioia di Ramallah e Gaza, dove madri e mogli palestinesi espongono da giorni foto dei parenti e li ritroveranno con qualche capello bianco in più. Cose da poco per gente come Muhammad Sabri Asayla che contrappone ai circa duemila giorni di prigionia di Shalit i propri diecimila trascorsi dal 1986 in parecchie galere israeliane. La real politik ha prevalso su fronti che continuano a considerarsi nemici. E per l’occasione le contrapposte categorie di Stato sionista da distruggere e fazione terrorista da sterminare sono state accantonate.

Ciò non significa che siano abbandonate. Gli scambi di prigionieri esistono da sempre, perciò non è automatico vedere nella positiva soluzione del logorante episodio una ripresa del dialogo di pace che solo venti giorni fa risultava affossato all’Assemblea Generale Onu. A causa del veto statunitense alla richiesta palestinese di ammissione nell’assise del Palazzo di Vetro prim’ancora che dal netto diniego a quella richiesta da parte di Netanyahu. Vero è che il premier israeliano sul caso Shalit ha cambiato registro rispetto alle sue stesse posizioni passate. Ma ciò può non stupire perché risulta totalmente in linea con la politica del doppio binario praticata da decenni dall’intero establishment d’Israele. Però vista l’aria di ampio consenso (80%) alla scelta della trattativa che spira a Tel Aviv e la gioia trasmessa sullo schermo gigante del Katiba Park di Gaza il cosiddetto quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) ha previsto a fine mese un incontro per valutare l’ipotesi di rilanciare un dialogo fra le parti. Il fronte palestinese continua a mantenersi unito, i vertici di Hamas non esibiscono vittorie soggettive sostenendo che ”L’accordo è stato un successo per tutti i palestinesi, a prescindere dal partito di appartenenza”. Comunque c’è chi mette in guardia ricordando che Tsahal “Compie incursioni in Cisgiordania anche dieci volte al giorno e rastrella mediamente in un mese 300-400 persone, considerandole tutte passibili di azioni terroristiche. I mille liberati potrebbero presto venire rimpiazzati da altri fratelli”. Nelle prigioni israeliane restano oggi più di seimila detenuti palestinesi, molti non sono i ribelli delle Intifade ma cittadini catturati giorno per giorno nelle strade, nelle campagne, ai check point .

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Michele Giorgio GERUSALEMME
EpilogoSi chiude così una vicenda durata oltre cinque anni. Il militare israeliano è libero, ma nelle carceri di Tel Aviv restano ancora 5.000 palestinesi senza diritti, molti dei quali adolescenti
Lo scambio di prigionieri è andato a buon fine
è andato a buon fine Il caporale Ghilad Shalit, promosso sergente, è a casa, in Israele A Gaza City si festeggia la liberazione dei 477 detenuti palestinesi

GERUSALEMME
Nello spazio di poche ore, ieri si è materializzato lo scambio di prigionieri tra Israele e Hamas e si è chiusa una vicenda durata oltre cinque anni. Anni di trattative fallite più volte, segnati dalla davastante offensiva israeliana contro Gaza alla fine del 2008 e giunti a un improvviso quanto sorprendente accordo la scorsa settimana. Il caporale Ghilad Shalit, promosso sergente lunedì sera, è stato liberato da Hamas e, passando per l’Egitto, è rientrato a casa a Mitzpeh Hila, il suo villaggio in Alta Galilea affollato ieri di troupe televisive giunte da tutto il mondo e di migliaia di sostenitori. Nelle stesse ore a Gaza city, i leader di Hamas salutavano con un ricevimento grandioso i detenuti politici scarcerati da Israele, mentre a Ramallah il presidente dell’Anp Abu Mazen ribadiva davanti ad un gruppo di prigionieri e a una folla di migliaia di persone l’impegno a costruire uno Stato palestinese indipendente.
Tante parole e una affollata copertura giornalistica anche ieri hanno alterato una storia, non infrequente nel Vicino Oriente, che invece deve essere raccontata in tutti i suoi aspetti. Troppo spesso è stata spiegata, qui e all’estero, semplicemente come una lotta tra «il bene e il male», tra uno Stato democratico che si difende e una organizzazione terroristica, tra una famiglia che rivoleva a casa il figlio «tenuto ostaggio» e un gruppo di «assassini» che voleva sfuggire ad una giusta punizione. Ma i prigionieri palestinesi, e ne rimangono ancora 5.000 nelle carceri israeliane, non sono tutti responsabili di attentati. In cella ci sono, ad esempio, anche degli adolescenti – lo ricordava proprio ieri Defence for Children – e palestinesi agli «arresti amministrativi», ossia incarcerati per mesi (talvolta per anni) su ordine delle autorità militari sulla base di semplici indizi e mai processati. Nei Territori il semplice far parte di una organizzazione politica ritenuta terroristica dalle forze di occupazione può costare anni di carcere. Ad alimentare, inconsapevolmente, la lettura deformata di questa vicenda è stato anche Ghilad Shalit. Esile, occhi bassi, il volto dello studente secchione, il militare catturato nel 2006 nei pressi di Kerem Shalom ha dato una immagine mite all’esercito israeliano, uno dei più potenti e meglio armati al mondo. Forze Armate altamente tecnologiche in grado compiere con l’aviazione gli «omicidi mirati» di «terroristi» veri e presunti: palestinesi condannati di fatto a morte che non potranno mai difendersi in un’aula di tribunale. Oggi Gaza sarà uguale a ieri, nonostante la liberazione di Ghilad Shalit. Una fonte autorevole citata dalla radio statale israeliana ha chiarito che il blocco navale e tutte le restrizioni e misure di sicurezza ai valichi non verranno revocate.
Ieri però hanno festeggiato tutti. Shalit al quale il suo villaggio Mitzpeh Hila, in Alta Galilea, e la sua famiglia hanno riservato una accoglienza straordinaria, fatta di canti, danze e lanci di fiori. «Mi è rinato un figlio», ha detto il padre Noam. E anche i 477 detenuti palestinesi scarcerati (450 uomini e 27 donne). Quelli confinati a Gaza non hanno impiegato molto a capire che da una piccola prigione sono passati in una prigione più grande, a cielo aperto. Shalit è stato accompagnato intorno alle 8 da Hamas a Rafah, al confine tra Gaza e l’Egitto. A trasmettere le prime immagini del soldato libero è stata la tv egiziana. Alle sue spalle c’era Ahmed Jaabari, comandante militare di Hamas. Durante un’intervista, il soldato, apparso in buone condizioni di salute, ha detto di aver saputo dell’accordo una settimana fa. Dicendosi felice per la liberazione di prigionieri palestinesi – ma, ha precisato, «a condizione che tornino alle loro famiglie e abbandonino la lotta» – , ha aggiunto di sperare che lo scambio tra Israele e Hamas «aiuti il processo di pace». Poi è stato portato in elicottero alla base israeliana nei pressi di Kerem Shalom e infine all’aeroporto militare di Tel Nof, vicino Tel Aviv dove ha riabbracciato i genitori, il fratello Yoel e la sorella Hadas. Qui hanno preso la parola il premier Netanyahu – che ha difeso l’accordo con Hamas dalle critiche, definendolo «il migliore possibile» – e il ministro della difesa Ehus Barak. Infine, sempre in elicottero, Shalit ha raggiunto Mitzpeh Hila.
Ad accogliere i prigionieri palestinesi è stata la Croce rossa internazionale. I detenuti sono stati portati con i bus alle prime ore del giorno a Kerem Shalom, al confine con l’Egitto, e nella base militare di Ofer, vicino Ramallah. Le autorità del Cairo hanno preso in consegna inoltre una quarantina di prigionieri e li manderanno in esilio in Siria, Qatar e Turchia. I detenuti giunti a Ofer sono stati liberati in Cisgiordania poco prima di mezzogiorno: numerosi autobus sono arrivati a Ramallah dove si è tenuta la cerimonia di benvenuto alla Muqata, con il presidente Abu Mazen e lo speaker del Parlamento Abdel Aziz Dweik (Hamas). Al valico di Beitunya sono divampati scontri tra palestinesi e militari israeliani quando si è saputo che i bus con i prigionieri liberati sarebbero passati per un’altra località. Folla in deliro a Gaza City, in piazza della Katiba, dove i detenuti (con fasce verdi e il tricolore palestinese), arrivati con otto autobus, sono stati scortati da tre automezzi militari di Hamas e accolti dal premier Ismail Haniyeh e da 200.000 persone. Nel suo discorso Haniyeh ha annunciato una «sorpresa», ossia l’ingresso nella Striscia di Musa Abu Marzuk, il numero due del movimento in esilio a Damasco. A rallentare di un’ora le operazioni di rilascio è stato il rifiuto di due prigioniere residenti in Cisgiordania di andare al confino a Gaza: Amna Muna, condannata all’ergastolo dal 2003, e Mariam al-Tarabin, in carcere dal 2005 dopo una condanna a otto anni. Le due donne alla fine hanno accettato l’esilio in altri paesi: Muna dovrebbe andare in Giordania, al-Tarabeen in Egitto.
da “il manifesto” del 19 ottobre 2011
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