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Egitto, il passo della presidenza e quelli dell’economia


I cattivi pensieri sostengono che il regime punterà a far scivolare i tempi, settimana dopo settimana. Naturalmente sul tema la piazza ha il nervo scoperto ed è sempre pronta a rinfiammarsi. Anche questo è un rischio calcolato dagli uomini di Tantawi. La parte d’Egitto – e non è poca – che non vuole una fuoriuscita, visibile o invisibile, dei militari dalla scena politica, resta il sostegno a un potere strisciante che domina da sessant’anni l’orizzonte nazionale. Con e senza raìs. Ieri Farouk Sultan, in qualità di capo del Comitato per le elezioni, ha comunque dato per certa una prima scadenza: la presentazione delle candidature alla prestigiosa carica avverrà dal 10 marzo all’8 aprile. Il sourplace sulla data di consultazione si porta dietro una questione d’ordine organizzativo: la necessità di poter fare esprimere oltre 8 milioni di egiziani sparsi per il mondo. Sono il 10% dell’elettorato, un numero significativo che non può essere trascurato. Spesso si tratta di lavoratori emigrati all’estero che torneranno in patria. Sultan ritiene che per loro il voto potrebbe essere compreso temporalmente in un paio di settimane. Se queste cadessero a giugno entro la fine del mese tutte le schede egiziane darebbero il responso definitivo. L’ostacolo burocratico da superare è quello di approntare i seggi nei Paesi di migrazione e conteggiare i voti.

Questione non insormontabile per la quale però occorrerebbe già lavorare, mentre tutto deve ancora partire. Così i pervicaci oppositori dello Scaf lanciano i cattivi pensieri sulla giunta, che a parole dice di voler lasciare invece usa ogni mezzuccio per remare contro la scadenza presidenziale. Anche sui nomi dei candidati c’è ancora una selva di dubbi. Le voci dal Cairo ritengono Moussa ampiamente accreditato fra gli stessi Fratelli Musulmani che ritirerebbero il proprio candidato (Abul Fotuh) a favore dell’ex leader della Lega Araba, avendo evidentemente ricevuto da lui garanzie politiche. Il loro braccio istituzionale (Partito della Libertà e Giustizia) dopo il successo dell’urna ha intrapreso operazioni di diplomazia a tutto tondo, ha avuto incontri anche con Tantawi parlando sia di presidenziali sia di Carta Costituzionale. Su quest’ultima i nodi sono parecchi, visto che il referendum varato prima delle consultazioni invernali attenuerà parecchio le possibilità di riscrittura della Costituzione da parte dei nuovi parlamentari. La scelta del prossimo presidente sarà condizionata dai vari compromessi che i partiti faranno su ciascun nome. Al-Araby, che da segretario generale della Lega Araba porta con sé un rispettabilissimo curriculum, ha fatto sapere di non gradire la linea del bilancino con cui i partiti s’accordano dietro le quinte. Perciò rinuncerebbe all’incarico se a sostenerlo ci fossero forze a lui non gradite. Già un nome pesante come El Baradei (ex capo dell’Aiea) s’era autoescluso dalla corsa sebbene ci sia chi giura che a sorpresa rispunterà.

Intanto la vita prosegue e dopo tredici mesi di “rivoluzione” le sorti finanziarie egiziane sfiorano il default perché il 50% dell’economia resta bloccata. Reggono i traffici su Suez e l’attività agricola del bacino rurale del Nilo, ma il turismo è al tracollo, diminuito nel 2011 del 33% con punte del 60% sul Mar Rosso. Al forfeit della clientela occidentale s’associa quello del Medio Oriente ricco (sauditi e dintorni) rivolto verso le più rassicuranti coste turche. Studi economici, che nei mesi scorsi evidenziavano perdite per la nazione anche di 300 milioni di dollari al giorno durante i momenti topici della rivolta, rammentano come gli investimenti stranieri continuano a mantenere un trend di caduta del 90%. Un disastro che deve preoccupare il nuovo establishment perché senza una spinta all’economia per sfamare i concittadini possono sopraggiungere solo aiuti internazionali, in genere statunitensi, che si trascinano la salata cambiale politica da pagare. In un quadro del Mashreq sensibilmente peggiorato, con la crisi siriana che può destabilizzare l’intera area, una nota risorsa potrebbe migliorare il bilancio nazionale: un più proficuo sfruttamento delle riserve di gas. Situate nel bacino mediterraneo che dalle coste del confine libico giunge alle giurisdizioni marine di Cipro e Israele, dov’è stato scoperto l’enorme giacimento Leviathan (450 miliari di metri cubi) e si cerca nell’attiguo denominato Afrodite. Lo sfruttamento dei fondali del Mediterraneo orientale e delle sue “zone economiche esclusive”, dove la Turchia è in competizione e possibile attrito con Grecia e Israele, rappresentano di certo un’ennesima intricata questione geo economico-politica. Lo stesso commercio è dettato da diktat politici internazionali.

Ma egualmente il governo cairota – pur salvaguardando gli interessi nella parte di mare prospiciente il Sinai su cui Tel Aviv vorrebbe mettere le mani come già accade per i fondali di Gaza – potrebbe concentrarsi lì e organizzare meglio quel che già possiede da Alessandria a Port Said. Naturalmente dovrà fare i conti con le sempiterne “sorelle” (Shell, Bp) che insieme a Eni e British Gas risultano indispensabili per l’estrazione e la trasformazione del prezioso prodotto nell’offshore del Delta del Nilo. Dovrà acquisire know-out e crearsi infrastrutture con cui spezzare il cerchio perverso che continua a vederlo acquirente del proprio gas, pagando le compagnìe estrattrici in dollari con un aggravio dell’erario che sfocia in indebitamenti crescenti. Emanciparsi da tutto questo sarebbe sì rivoluzionario come fu la nazionalizzazione di Suez. Per la gioia della Tahrir islamista e laica.

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