La crisi attuale – impropriamente paragonata alla carestia del 1840 – è una delle peggiori nella storia moderna del Paese. Gli economisti stimano in decenni il periodo necessario per tornare ai livelli di crescita di fine anni ’90.
L’essere agganciati all’euro ha impedito a Dublino di svalutare la sterlina come spesso accaduto prima dell’ingresso nell’unione monetaria europea. Così, i tentativi di recupero della competitività sono stati praticati tramite l’abbassamento dei prezzi delle merci e del costo del lavoro. Per molti ciò ha significato forti diminuzioni di stipendio, dopo anni di aumenti.
Il governo ha cercato di rispondere in parte con programmi di ricollocazione. Chi si era costruito carriere e stili di vita agiati grazie al boom delle costruzioni, del settore turistico-ricettivo e del commercio, ha dovuto modificare radicalmente i propri comportamenti. Molti stanno apprendendo il lavoro dei genitori e dei nonni, nell’agricoltura e nell’allevamento. La ripresa è legata alla forza lavoro in grado di essere impiegata nelle poche industrie che sostengono l’economia irlandese votate all’export: tecnologia, farmaceutica, agricoltura.
Dopo la Grecia, l’Irlanda è forse il Paese più colpito dalla crisi. Il collasso ha posto fine a due decenni di boom economico cominciato con un aumento record delle esportazioni e seguito da una bolla immobiliare gonfiatasi fino all’insostenibilità a causa di una politica di prestiti dissennata.
Il gettito fiscale è evaporato, le banche sono collassate. Alla fine del 2010, il governo era senza soldi. Il pacchetto di salvataggio lanciato dal Fondo monetario internazionale e dall’Unione Europea valeva 67,5 miliardi di euro.
Da allora, la disoccupazione è salita, e l’obiettivo del governo è stato quello di riqualificare chi ha perso lavoro. Il numero dei ‘long-term unemployed’, disoccupati da oltre un anno, è salito esponenzialmente: nel 2011 erano il 60 percento dei 182mila disoccupati irlandesi; nel 2010 erano la metà;nel 2009 un terzo. L’Irlanda è al secondo posto, dopo la Slovacchia, per disoccupati da lungo termine, nei 30 Paesi dell’Ocse.
Il settore dell’edilizia è quello che ha subito gli effetti più catastrofici. Il numero degli occupati è 107.600. Nel 2007 erano 270mila, secondo l’Ufficio nazionale di statistica. Circa un disoccupato su quattro lavorava nell’edilizia, o in settori ad esso collegati. Nel boom immobiliare, con un accesso al credito praticamente illimitato, gli irlandesi hanno comprato prime e seconde case con prestiti fino al cento per cento del valore degli immobili, alla stregua degli americani che hanno fruito dei mutui subprime prima della crisi del 2008. Come conseguenza, il debito da mutui è schizzato alle stelle, diventando il 124 percento del Pil nella metà del 2011, ben al di sopra della media europea del 77 percento.
Per molti irlandesi, la soluzione è stata l’espatrio. A marzo, 20mila persone hanno preso parte al ‘Working Abroad Expo’ a Dublino, dove si sono affollate in coda per ore, pagando una registrazione di 10 euro per colloqui con cercatori di lavoro provenienti da Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Per uscire dalla crisi, il Paese sta puntando sull’export, che include non solo prodotti agricoli come latte e carne, ma anche medicinali, apparecchiature mediche e servizi tecnologici. Tali categorie merceologiche sono l’eredità di politiche di attrazione di multinazionali come la Pfizer, la Bristol-Myers Squibb grazie a fortissimi sgravi fiscali. Google e Facebook hanno in Irlanda la loro sede europea.
Ma impiegare forza lavoro irlandese per le attività di questi giganti tecnologici si è rivelata una sfida. Google, che ha 1.500 impiegati, fatica a trovare personale irlandese con competenze linguistiche. L’Irlanda è infatti l’unico Stato europeo dove non è obbligatorio imparare una lingua straniera. Una situazione che ha generato paradossali conseguenze: lo scorso anno, Google e Facebook sono tra le dieci aziende in Irlanda che hanno richiesto più permessi di lavoro per reclutare personale dall’estero.
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