È la prima volta da parecchi anni. Il documento che conclude il vertice è vago quanto devono essere testi che “contemperano” interessi nazionali e continentali differenti, come accade con i buoni propositi sulla necessità «imperativa» di «creare crescita e lavoro». Ma non prevede affatto che si possa procedere con l’austerity che Berlino ha imposto all’Europa e che ha il suo nocciolo duro nel fiscal compact. Perché questo trattato diventi effettivo è necessario che sia approvato da una maggioranza di 12 dei 17 stati dell’Eurogruppo. E a questo punto diventa molto più difficile che la ratifica diventi effettiva. NOn si tratta di un dettaglio da poco: per un paese come l’Italia, con un debito pubblico di oltre 1.900 miliardi di euro, equivalente al 120% del Pil, da riportare al 60% in venti anni, si tradurrebbe in una serie di “manovre” finanziarie da 45 miliardi l’anno per un periodo altrettanto lungo. Praticamente equivale alla distruzione del paese, del suo modello sociale, della sua coesione e certamente anche della sua posizione nel panorama continentale.
Il documento finale indica infatti la necessità di un “giusto mix tra la disciplina di bilancio e misure che rilancino la crescita e l’occupazione”. Si parla quindi della possibilità di effettuare investimenti pubblici, fin qui sostanzialmente “vietati” dal rigore. Bisognerà vedere come sarà possibile, per quei paesi – come l’Italia – che hanno improvvidamente introdotto l’obbligo al pareggio di bilancio addirittura nella Costituzione. Per i quali, dunque, lo sforamento del pareggio costituirebbe una “violazione costituzionale”, nemmeno fosse una violazione di diritti fondamentali. Ma difficilmente ci sarà una “correzione” costituzionale in senso opposto a quella appena varata. Una contraddizione così rapida era persino difficilmente ipotizzabile e ridicolizza chi l’ha voluta, ma ancor più chi l’ha accettata senza nemmeno discutere (l’intero Parlamento italiano).
In secondo luogo, viene frantumato quel mantra (“lo richiede l’Europa”) che ha fin qui evitato la discussione nel merito rispeto a tutte – tutte – le decisioni di politica economica dell’ultimo anno, sia con Berlusconi che con Monti.
Ma è soprattutto quest’ultimo che viene colpito nella sua “necessità”. È certamente stato imposto dalle istituzioni sovranazionali (ue, Bce e Fmi), ma per imporre al paese una serie di decisioni che oggi – in modo obliquo ma abbastanza chiaro – vengono definite dal G8 “una cazzata”. Ma, come sappiamo, anche socialmente devastanti.
Naturalmente resta l’ossimoro, ripetuto anche da Barack Obama: «crescita e riduzione del deficit vadano insieme».
Il G8 ha infatti riconosciuto (con l’eccezione della Merke, naturalmente) che le politiche di tagli al wellfare e di risparmi selvaggi producono solo recessione. Basta guarda cosa sta accadendo alla Grecia, cui il G8 promette altri aiuti per non farla uscire dall’euro, ma che ovviamente dovrà ricadere sugli altri stati europei. Germania compresa. Un eventuale allargamento della crisi al resto del continente contagerebbe inevitabilmente anche il resto del mondo.
Per il governo Usa la preoccupazione è immediata, visto che a novembra Obama dovrà affrontare le elezioni. Una crisi in piena campagna elettorale non sarebbe certamente un aiuto… «È nostro interesse nazionale – ha detto Hillary Clinton – che ci sia un ridimensionamento della politica dei risparmi tale che stimoli la crescita».
Tutto risolto? Nemmeno per sogno. La Germania, a Camp David, non ha fatto alcun passo indietro. Anzi, ha in qualche modo reso più rigida la sua impostazione: tutti i paesi dovrebbero applicare alla lettera e «senza deroghe» i dettati del Fiskalpakt. Uno schiaffo anche per Mario Monti, che aveva chiesto di non calcolare le spese per gli investimenti e le emergenze tra quelle che fanno “divergere” il bilancio pubblico effettivo da quello “teoricamente” da raggiungere.
Questo giudizio de l’Unità chiarisce abbastanza come l’isolamento tedesco sia tutt’altro che definitivo.
Se all’isolamento la cancelliera reagisce in modo aggressivo, va detto che ha in mano due carte preziose: la prima è che il fiscal compact, la cui ratifica corre pericoli, è comunque un trattato internazionale stipulato tra 25 governi e ha già prodotto risultati, come l’adozione in Costituzione da parte di diversi stati (compresa l’Italia) di quell’obbligo al pareggio di bilancio che gli economisti considerano una insostenibile e sciocca autolimitazione politica. La seconda carta del governo tedesco è la convergenza con Londra. Anche David Cameron ha giocato, a Camp David, nel ruolo di interdizione alle spinte di Obama e di Hollande. Il premier britannico ha bloccato, per l’ennesima volta, il discorso su una tassa sulle transazioni finanziarie che avrebbe un duplice effetto positivo: quello di frenare le frenesie dei mercati e quello di mettere a disposizione dell’Unione un bel gruzzoletto di non meno di 60 miliardi di euro. Si tratta di vedere se questi aut aut permetteranno a Frau Merkel di sfuggire alla morsa. Prima verifica, mercoledì prossimo al Consiglio europeo.
Una cosa sono i vertici, insomma, una cosa sono le decisioni da prendere nelle singole sedi di trattativa nel merito. Lì la Germania, lontano dallo sguardo americano, farà sentire il suo peso.
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