I tempi sarebbero brevi, brevissimi. Si parla dell’autunno ma si pensa anche al prossimo settembre. Le accelerazioni compiute da Benjamin Netanyahu, che aggira le consultazioni col proprio Esecutivo e avoca a sé la decisione da prendere ha creato allarme anche fra i sionisti convinti come lo scrittore Oz che, in questi giorni, sta dirigendo un’accorata protesta di diversi intellettuali contro il blitz del primo ministro. Per aggirare seri dubbi nutriti da una buona fetta dell’opinione pubblica e da una parte dei vertici militari su un’azione bellica dai possibili risvolti dolorosi per la società israeliana Netanyahu ha nominato come nuovo ministro della difesa interna Avi Dichter, ex capo dello Shin Bet. Uomo dalle posizioni ultra guerrafondaie che rassicurano le componenti più estremiste del governo in carica, criticate dal partito Kadima nel rendez-vous del tentativo di rimpasto governativo cercato dal premier e fallito per la sua stessa deriva filo conflittuale. Dare fuoco a ulteriori polveri nell’esplosivo contesto mediorientale, che in Siria può condurre a uno smembramento e conseguente “libanizzazione” del Paese, può rappresentare una contraddizione per Israele che in quarant’anni ha trovato nei regimi degli Asad, padre e figlio, un “nemico” intento a congelare uno status quo indistintamente favorevole ai governi di Labour e Likud.
Una contraddizione comunque solo apparente, perché pur nel protrarsi distruttivo della crisi siriana cercare una nuova mossa militarista punta a risollevare il governo del Likud dalla totale mancanza d’iniziative interne e dall’isolamento internazionale ereditato coi massacri dell’operazione Piombo fuso. Sembra che si voglia inseguire la strategia della filiera delle bombe che appare folle ai più. Ma Netanyahu pensa che un obiettivo come quello iraniano troverà gli alleati occidentali solidali e riconoscenti come se fossero tutti dei neocon statunitensi. A frenare il suo allungo ‘bushiano’ più che una timorata gestione della politica mediorientale dell’alleato statunitense c’è oggi una non ridotta componente direttiva dell’Israel Defence Force che evidenzia i pericoli di un effetto ritorno di attacchi pur solo mirati agli impianti per l’arricchimento dell’uranio di Bushehr, Natanz o Isfahan. Diversi osservatori sostengono come dovrebbe essere la politica a orientare le mosse tecnico-militari di Tel Aviv. Purtroppo la linea dell’attuale establishment israeliano ha subordinato ogni sua iniziativa alla sicurezza della nazione, vera o presunta, sia essa la difesa di nuovi insediamenti di coloni in Cisgiordania e la ricerca periodica e perenne di nemici. Il Paese degli ayatollah è da tempo ritenuto tale anche per l’esplicita solidarietà offerta ai militanti palestinesi di ogni tendenza, alla loro causa, al sostegno dell’ormai storico asse della Resistenza che trova nei Territori Occupati e nelle milizie Hezbollah del Sud del Libano una realtà consolidata da tempo.
Ci sono politologi che evidenziano quale potrebbe rivelarsi per Israele la maggiore minaccia nell’evoluzione degli eventi nell’area mediorientale. Il jihadismo in diffusione nella guerra civile siriana e i gruppuscoli del Sinai sono per ora poca cosa ma in un domani neppure tanto lontano possono diventare un nemico al pari delle truppe sciite del Partito di Dio libanese. Mentre nella crescita regionale dell’influenza della Fratellanza Musulmana dall’Egitto alla Siria, trarrebbe nuova linfa anche Hamas. Eppure l’attenzione resta concentrata sull’Iran contro cui scatenare la forza della propria tecnologia aerea. Negli scontri di terra degli ultimi anni, nella Striscia di Gaza e soprattutto in Libano, la fanteria israeliana ha mostrato evidenti limiti. In volo i piloti continuano a sentirsi imbattibili. Gli attacchi mirati dal cielo rassicurano quel bisogno di autoreferenzialità in cui il volto politico d’Israele che s’identifica con quello militar-tecnologico rassicura la propria gestione del potere. Un circolo vizioso che rasenta la follia di cui anche Amos Oz si sta rendendo conto.
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