Questo è un pensiero che lasciamo alle “anime belle” che si accontentano dell’oppio che la borghesia gli fornisce per zittirli.
La questione in ballo qui è un’altra.
Nella storia del capitalismo moderno, qualunque Stato ha mandato il proprio braccio armato a falciare la vita di chi chiede condizioni di vita diverse per proteggere il capitale: questo è ormai documentabile a qualsiasi latitudine e livello culturale.
Difficile stipersene ancora. D’altronde anche in Italia (vedi ILVA) si stà facendo di tutto per salvare un gruppo capitalistico privato passando anche sulla salute dei cittadini; non si uccide con i fucili ma con più lenti veleni, ma si sa, noi occidentali siamo più raffinati.
Ma la vicenda, sinceramente, un moto di disgusto, deve trasmetterla.
Non sono cittadini civili quei morti?
Dove sono le Organizzazioni dei Diritti Umani in questo caso?
Sembrano domande retoriche ed inutili, ormai.
La miniera al centro delle proteste è gestita dalla società Lonmin, il terzo più grande produttore di platino del mondo. Nel sito a 100 km da Johannnesburg lavorano oltre 3mila minatori, guadagnando in media 400 euro al mese, che reclamano un aumento dello stipendio pari al triplo attuale. L’azienda non intende cedere e minaccia di licenziare in massa i dipendenti se non si porrà fine alle dimostrazioni, ed è coperta dal braccio armato dello Stato.
La Lonmin di una cosa è davvero preoccupata: sul suo sito dichiara di aver perso in sei giorni di sciopero l’equivalente di 15mila once di platino, il che renderà difficile raggiungere l’obiettivo di produzione stabilito per l’anno: 750mila once. A questo si è aggiunta la notizia di una grave malattia che ha colpito il chief executive officer del gruppo, Ian Farmer. Una comibinazione letale che, alla Borsa di Londra, ha fatto perde a Lonmin ieri il 6,8%, mentre i prezzi mondiali del platino hanno guadagnato più del 2%: nonostante il momento di ribasso per il mercato, colpito dal calo della domanda e – nel Sudafrica che conta l’87% delle riserve conosciute al mondo – di costi energetici e del lavoro in aumento.
Queste sono le vere disgrazie per il grande Capitale; in questi casi la vita umana passa in secondo piano. Se poi sono proletari neri, in terzo.
Che cos’è successo
Il D-day era atteso l’altroieri, alle miniere di platino di Marikana in Sudafrica, ed è arrivato puntuale. Dopo una settimana di scioperi, negoziati fallimentari sulle paghe e scontri che già erano costati la vita a dieci persone, tra cui due poliziotti, ieri è scaduto un ultimatum ai 3mila minatori in sciopero: tornare al lavoro al loro primo turno di venerdì o essere licenziati.
«La situazione è relativamente tranquilla, ma tesa», avvertiva il sito di Lonmin, il terzo produttore mondiale di platino che controlla i giacimenti di Marikana presso Rustenburg, 100 km a nord-ovest di Johannesburg. Lonmin registrava con soddisfazione la presenza dei reparti della polizia anti-sommossa: ma quando gli agenti sono stati raggiunti da un gruppo di minatori armati di lance, mazze e machete, hanno aperto il fuoco. A terra gli inviati dell’agenzia di stampa sudafricana Sapa hanno contato 18 corpi (poi diventati 36).
I dirigenti del piccolo sindacato Amcu, che rappresenta una parte dei minatori in sciopero, hanno accusato la polizia di massacro, mentre il confronto tra manifestanti e agenti ha rievocato gli anni dell’apartheid, prima del 1994. Ma la compagnia attribuisce le tensioni degli ultimi mesi a Marikana a rivalità tra diversi gruppi di lavoratori, in particolare alla sfida lanciata dall’Amcu all’Unione nazionale dei lavoratori delle miniere, vicina alla Confederazione sindacale Cosatu e all’African national congress.
«Non ce ne andremo, siamo pronti a morire qui», aveva gridato il presidente dell’Amcu Joseph Mathunjwa prima dell’assalto della polizia.
Le richieste di aumenti salariali sono all’origine della protesta dei minatori che per la maggior parte vivono in slum nati vicino alla miniera, senza acqua corrente e con paghe di 4.000 rand al mese, 400 euro. Incoraggiati dall’Amcu, reclamano aumenti poco realistici fino a 12.500 rand, uno dei motivi di attrito tra sindacati. «Siamo sfruttati – accusa comunque Thuso Masakeng, un minatore citato dalla France Presse -. Né il Governo né i sindacati sono venuti in nostro aiuto, le compagnie minerarie guadagnano sul nostro lavoro e non ci pagano quasi niente. Viviamo come animali con questi salari di miseria».
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