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Colombia, oggi al via i colloqui tra Farc e governo

Un’occasione forse irripetibile
Maurizio Matteuzzi
Un’occasione (forse) irripetibile, quella che, salvo imprevisti, si aprirà oggi a Oslo. Per il governo (di destra) colombiano ma (forse) anche per le Farc, la guerriglia più antica dell’America latina, da quasi mezzo secolo sulla breccia e, nonostante tutto – fine del tempo per la lotta armata, colpi subiti sul piano militare, accuse di narco-traffico – ancora abbastanza forte da non poter essere battuta sul terreno bellico (segno che qualche ragione di forza ancora ce l’ha).
Entrambi le parti in conflitto, il governo (di destra) colombiano del presidente Santos e le Farc (a cui probabilmente si sta agganciando il più piccolo Eln), hanno capito che la guerra civile strisciante da mezzo secolo combattuta in Colombia non può essere vinta manu militari.
L’unica soluzione è una soluzione negoziata e politica. Secondo gli esperti le Farc, nonostante negli 8 anni della presidenza Uribe abbiano sofferto colpi durissimi che ne hanno decapitato la leadership (Raúl Reyes, Mono Jojoy, Alfonso Cano) e dimezzato le fila, hanno ancora sul terreno 8-10 mila combattenti (e l’Eln 1500-3000), e una presa effettiva in vari dipartimenti del paese (Cauca, Nariño, Meta, La Gajira). Non basta che Usa e Ue le bollino come «terroristi» e «narco-trafficanti» per farle sparire.
Santos, il successore scelto «a dito» da Uribe e il suo ministro della difesa negli anni più bui della politica di «sicurezza democratica», ha capito che non c’è soluzione militare se non (forse) con altri 20 anni di guerra. Ha capito, a metà del mandato, che se vuole alimentare la sue chances di rielezione nel 2014 deve presentarsi come «l’uomo della pace». Anche perché Obama, se a novembre sarà ancora lui il presidente, con la crisi globale che infierisce è stanco di elargire i miliardi di dollari che dal 2000 sono piovuti con il Plan Colombia (infatti Obama si è felicitato fra i primi per il processo di Oslo fra gli ululati della destra repubblicana e degli ultrà di Miami). E anche perché la Colombia ha bisogno di rassicurare gli investimenti internazionali che stanno arrivando copiosi – dal Mercosud alla Cina – con un contesto di pacificazione interna. E di convogliare il 6% del suo prodotto interno lordo ora destinato alle spese militari su altre voci nel tentativo di riequilibrare uno sviluppo fra i più iniqui del mondo.
Non solo. Anche l’America latina spinge all’unisono per una soluzione politica e negoziata. Il Venezuela di Chávez e la Cuba di Raúl e Fidel sono stati, sono e saranno (se le cose andranno per il verso giusto a Oslo) i principali propulsori del processo di pace. A fine ottobre, dopo l’apertura di oggi nella capitale norvegese, tutta la compagnia dovrebbe trasferirsrsi all’Avana per proseguire – e concludere – i negoziati e arrivare, in un arco impossibile da precisare ma che potrebbe essere di 8-12 mesi, verso l’accordo definitivo per la fine della guerra civile. Sarà un negoziato difficile per la Colombia. Ma sarebbe un successo incontestabile anche per il Venezuela di Chávez e la Cuba castrista. E anche per le Farc che, nonostante tutto, sono riuscite a non farsi spazzare via e a obbligare il governo colombiano (con relativi sponsor internazionali) a cercare una soluzione negoziata della guerra più lunga dell’America latina.

Un paese che cambia e spera

Francesca Caprini *

Padre Alberto Franco, della Commissione Justicia y Paz: «Le due parti si sono rese conto che la soluzione militare è impraticabile». Ma la pace non basta, bisogna cambiare modello
Francesca Caprini *
Raccontano a Sucre, cittadina della regione del Cauca, nel sud-ovest della Colombia, di quella notte del 7 maggio, quando un gruppo di 17 elenos – i guerriglieri dell’Eln, l’Ejército de Liberación Nacional – scesero in paese dalle montagne circostanti per attaccare il locale posto di polizia. Il saldo fu di un ferito e qualche danno alle case. Erano in corso le elezioni municipali, e l’Eln voleva dire la sua. Il candidato sindaco, Hoyos, del Movimiento de Participación Democrática, era il favorito (e fu eletto). Fra i punti del suo programma, l’appoggio all’organizzazione comunitaria dei Bienandantes, contadini organizzati per gestire collettivamente il locale acquedotto. «L’acqua dev’essere di tutti», dicevano loro, opponendosi ai piani normativi regionali che sostanzialmente spingono alla svendita del patrimonio idrico ad imprese private.
I Bienandantes hanno quello che si chiama un buon «potere di convocatoria», sono seguiti dalla gente, e Hoyos lo sapeva, e durante la campagna elettorale aveva inserito un punto dedicato all’acqua pubblica. Ma non fu l’unico. Quella notte l’attacco dell’Eln aveva lasciato, oltre ai soliti volantini e alla paura per gli scoppi di mortai, la cittadina ricoperta di scritte sui manifesti elettorali: «L’acqua è di tutti, l’acqua è un bene collettivo».
Ricardo Quinayas, da tutti chiamato Chonoto, assicura che il battaglione era composto tutto da donne. Un’immagine con sapore romantico ma che racconta di un paese che sta cambiando. E non solo perchè oggi dovrebbe aprirsi a Oslo lo storico incontro fra il governo colombiano e i guerriglieri delle Farc (a cui l’Eln «per ora» non partecipa direttamente anche se è stata confermata l’esistenza di «conversazioni» in corso) che potrebbe mettere la parola fine al conflitto militare più antico dell’America latina attraverso una soluzione politica. Intorno si respira un cauto ottimismo e c’è la forte richiesta di una partecipazione della società civile a questo percorso che si annuncia difficile. Richiesta raccolta anche dagli studenti colombiani, che il 4 ottobre hanno fatto partire «la settimana dell’indignazione», con appuntamenti in varie parti del paese.
«Il tema dei beni comuni, delle risorse, della loro gestione, è centrale nella dimensione del conflitto della Colombia”, racconta Padre Alberto Franco, sacerdote colombiano della Comision Justicia y Paz, storica organizzazione per i diritti umani che dall’88 è in prima linea al fianco delle comunità contadine, indigene ed afro-discendenti, vittime della guerra e degli sfollamenti forzati. Padre Alberto è in Italia e in Europa per una serie di incontri ed è in procinto di recarsi in Norvegia. «In questo momento recuperare la logica del bene comune, che storicamente appartiene alle popolazioni originarie, significa scontrarsi con il sistema neo-liberista. Il capitale è oggi alla base del conflitto colombiano. Camminare verso la pace, in Colombia, significa disinnescare le cause dell’ingiustizia sociale. La guerra colombiana si è concentrata in regioni dove la politica estrattivista dei governi Uribe prima e Santos adesso – in particolare le coltivazioni intensive di agro-combustibili, i mega-progetti come la diga del Quimbo, il saccheggio delle risorse petrolifere e minerarie – ha radici più profonde. E’ evidente la connessione fra il potere politico ed il potere militare, in Colombia. Ma la società civile, le comunità, si stanno organizzando: non solo prendendo coscienza sempre più delle reali cause del conflitto, ma cercando di proteggere i propri territori con una gestione collettiva, creando zone umanitarie e di protezione della bio-diversità, in antitesi con le privatizzazioni e i furti di terra».
L’acqua potabile, che in Colombia è accessibile a meno della metà della popolazione, ne è un esempio: gli acquedotti comunitari, imprese famigliari, collettive o comunitarie, danno oggi da bere a più di 4 milioni di persone. Si sono costituite in una rete nazionale, hanno una visione globale della gestione del territorio, si oppongono alle miniere a cielo aperto, alla distruzione delle montagne, all’avvelenamento delle fonti con i metalli pesanti. E nei territori degli sfollamenti forzati, per cui la Colombia è seconda solo al Camerun nelle classifiche mondiali con 5-7 milioni di profughi interni, la gestione collettiva del bene comune acqua oltre a garantire la sopravvivenza della gente che ritorna nelle proprie terre originarie, aiuta queste comunità a ritrovare un’identità collettiva.
L’attuale presidente, Juan Manuel Santos, ha voluto dare un segnale forte con l’apertura, il 27 agosto scorso, dei negoziati. «Entrambe le parti si sono rese conto che la soluzione militare non porta più a niente – spiega ancora Franco -, la guerra allontana gli investitori, visto che in molti territori le Farc hanno concentrato le azioni militari contro le multinazionali. Ma non dobbiamo dimenticare chi è Santos. Lui ed Uribe sono due momenti diversi di uno stesso cammino. La politica sociale è quasi la stessa, ma l’attuale presidente è un po’ più “sociale”, abbracciando lo stile del nonno, Eduardo Santos, avvocato, giornalista e proprietario del quotidiano El Tiempo che governò negli anni ’30. Ne sono un esempio la promulgazione delle leggi “sulla terra” e “sulle vittime”, che dovrebbero legalizzare le proprietà di molte terre, che hanno aspetti criticabili ma che creano consenso. L’attuale presidente è apparentemente meno radicale del predecessore, che era legato a doppio mandato a frange narcos e paramilitari. Si potrebbe dire che ammazza con più eleganza e più lentezza». Perché, spiega, appoggia un sistema economico brutale con le masse povere, che aumenta l’iniquità del paese e non placa le conflittualità legate alle risorse.
In Colombia si continuano a trovare fosse comuni : Uribe lanciava nel 2002 la fase della «seguridad democratica», il pugno duro contro le guerriglie, ma nessuno sta veramente pagando per quelle migliaia di morti, tantomeno Santos che era allora ministro degli interni e della difesa.
Manuel Santos ha fatto comunque passi sorprendenti, negli ultimi mesi: dialoga con il presidente venezuelano Hugo Chávez, il nemico giurato di Uribe che sarà anche uno degli «accompagnatore» dei prossimi negoziati di pace a Cuba, insieme al Cile. Un disegno che «fa parte di una strategia studiata, che vuole presentare un’altra faccia alla comunità internazionale, e che però non modifica le relazioni di potere all’interno del paese – dice -. Anche l’apparente litigiosità fra Santos e Uribe la definirei con quello che dice la gente: un matrimonio, dove si litiga in pubblico, ma in privato non si arriva mai alla rottura», conclude padre Alberto.
A proposito, essendo lui un prete, tutto questo la chiesa come si pone? «La chiesa cattolica si è presentata come una delle parti di mediazione nel processo di pace, ma fino a oggi ha tenuto posizioni molto timide, che non mettono in discussione il modello capitalista».
Al tavolo dei negoziati di Oslo non siederà alcun rappresentante della società civile. «Noi invece, che appoggiamo i negoziati con speranza, stiamo spingendo perchè i rappresentanti delle organizzazioni indigene, contadine, afro-discendenti, delle donne, degli studenti, di tutte le vittime che in questi decenni hanno pagato in prima persona il dazio più pesante al conflitto, debbano poter avere voce in questo cammino verso la pace, che altrimenti non produrrà il reale cambiamento di modello di cui abbiamo bisogno».
Dice Danilo Rueda, della Commissione Justicia y Paz, che abbiamo recentemente incontrato a Bogotá, «con la diminuzione del flusso di denaro che il Plan Colombia aveva ffarantito alle casse dello stato, l’attuale governo si è dovuto riorganizzare. In quest’ultimo anno gli attacchi alla multinazionali sono aumentati. Mercosud, Alba e anche Usa e Cina hanno fatto capire che l’insicurezza giuridica e militare mette in crisi la crescita degli interessi».
La situazione geopolitica ed economica della Colombia spinge Santos a cercare la pace. Sono le cifre a parlare: dopo 8 anni di governo Uribe e 2 di Santos, le guerriglie possono contare ancora su un radicamento notevole in molti dipartimenti. «Almeno 3000 quelli dell’Eln e 8000 quelli delle Farc – dice Rueda -. Di questo passo ci vorrebbero altri 20 anni». Rueda vede i rischi concreti di questi negoziati: «Il modello estrattivista non viene messo in discussione e il tema della terra resta al punto numero uno del dialogo con Farc-Eln. La pace non è solo deporre le armi. Ci vorrebbero delimitazioni reali all’economia estrattivista, ovvero una democrazia dove anche l’aspetto della difesa ambientale e delle scelte economiche siano compresi. Dove le organizzazioni civili siano realmente coinvolte. E dove non esista più il trattato di libero commercio con gli Usa. Dobbiamo cominciare a ragionare abbattendo barriere. Perché la pace non ha senso senza giustizia sociale».
* della Associazione Yaku

Tanja, la «guerrillera internacionalista»

Maurizio Matteuzzi

34 anni, da dieci nella fila della guerriglia, laureata in filologia ispanica. Sarà la portavoce
La ragione ufficiale del ritardo nell’apertura dei negoziati di Oslo è dovuta alle forti piogge in Colombia. In realtà sembra sia stata la decisione inattesa delle Farc di inserire, nella sua delegazione, la «guerillera internacionalista», Tanja Nijmeijer, olandese di 34 anni che una decina d’anni fa, dopo un viaggio in Colombia, si è «arruolata» nelle fila della guerriglia. Tanja, nom de guerre «Alexandra» o «Eillen», dovrebbe fungere da portavoce delle Farc a Oslo, forte della sua padronanza delle lingue (ne parla 4) e del suo appeal che, probabilmente, attrarrà l’attenzione dei media europei e americani. Lo stesso leader delle Farc, «Timochenko», ha assicurato che il suo ruolo «non sarà secondario» e solo legato al suo (bell’) aspetto. Tanja è nata a Denekamp, provincia olandese di Overijssel. Laureata in filologia ispanica all’università di Groninga, arrivò a Pereira, Colombia, nel 2000 con una ong europea per partecipare alla «Carovana per la vita» e documentare la situazione dei campesinos e dei desplazados dalla guerra. A Bogotá entrò in contatto con le Farc e nel 2002 decise di entrare a tutti gli effetti nel Fronte Antonio Nariño del gruppo guerrigliero. Pare abbia svolto tutti i compiti del buon guerrigliero: da preparare il rancio fino a tradurre documenti per il segretariato di 7 membri e a partecipare ad azioni armate. Nel settembre 2010 quando il leader delle Farc, Mono Jojoy, fu ucciso in un raid dell’esercito fu data per morta anche lei, ma poi riapparve con uniforme e fucile sfidando chi si proponeva di «liberarla». La sua famiglia, in Olanda, voleva in ogni modo che lei rinunciasse e tornasse all’ovile. Ora, almeno, avranno sue notizie di prima mano.

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