Tenutasi per la prima volta nel 2004, a seguito dell’inizio dei negoziati per l’ingresso della Turchia all’interno dell’Unione Europea, e promossa dall’EU Turkey Civic Commission (un’organizzazione no profit che riunisce intellettuali, giornalisti e attivisti dei diritti umani), la conferenza si prefigge l’obiettivo di monitorare la situazione interna della Turchia in relazione al rispetto dei diritti umani e alla promozione di una società democratica, ponendo un particolare accento sulla questione kurda.
Questo 9° incontro, finalizzato a comprendere se e come sia possibile rinnovare il dialogo e riprendere i negoziati tra il governo turco e i rappresentanti del popolo kurdo, ha affrontato, attraverso i numerosi relatori intervenuti, due ordini di questioni.
Nella prima sessione della conferenza si è dibattuto intorno a temi afferenti l’attuale stato di violazione dei diritti umani in Turchia dove la questione kurda, pur rappresentando un elemento centrale, è un aspetto di una questione ben più ampia.
Si è dunque parlato di libertà di stampa, praticamente inesistente in un Paese in cui i mezzi di informazione e comunicazione sono asserviti al governo e dove quei giornalisti che vogliono semplicemente svolgere il loro lavoro, raccontando liberamente quanto avviene nella società, vengono incarcerati con accuse infondate di “terrorismo” o di “complotto per rovesciare lo Stato”. Così è stato per uno dei relatori, Ahmet Şık, giornalista turco, rilasciato lo scorso Marzo dopo aver trascorso diversi mesi in carcere a seguito dell’accusa di appartenenza ad un’organizzazione criminale avente lo scopo di complottare contro il governo.
Se le incarcerazioni, non solo di giornalisti ma anche di attivisti politici e di attivisti dei diritti umani, sono all’ordine del giorno, lo stesso avviene per le persone assassinate da parte dei militari che adducono per questi omicidi pretesti, quali per esempio l’aver partecipato a manifestazioni non autorizzate. Secondo quanto riportato da Raci Bilici, presidente della sede di Diyarbakir dell’IHD – Associazione per i Diritti Umani – solo lo scorso anno circa 400 civili sono stati assassinati e, fra questi, circa 200 bambini.
A tal proposito, è stato ricordato il massacro avvenuto il 28 dicembre del 2011 a Roboski, villaggio del Kurdistan turco al confine con l’Iraq, dove le forze militari turche hanno ucciso 34 ragazzi che rientravano in Turchia dopo aver varcato il confine per svolgere attività di contrabbando, da sempre una delle poche fonti di sostentamento in quella zona frontaliera. Adducendo il pretesto del terrorismo, il governo turco non ha mai chiesto perdono e fino ad oggi si è sempre rifiutato di spiegare e indagare l’accaduto.
In una seconda sessione dei lavori il rapporto tra la Turchia e la questione kurda è stato inserito in un quadro ben più ampio, ovvero il contesto mediorientale . L’Imperialismo occidentale, europeo e statunitense, alla fine della prima guerra mondiale ha creato in Medio Oriente dei confini fittizi imponendo una propria idea di Stato e, al contempo, privando un popolo, quello kurdo, di un suo proprio ordinamento statuale. Oggi, tanto in Siria come in Turchia, i kurdi si stanno ponendo l’obiettivo del superamento di uno Stato centralizzato ed esclusivo per arrivare a forme di autogoverno o di autonomia democratica. Così Saleh Muslim, presidente del PYD – Partito dell’Unione Democratica – ha descritto come i kurdi in Siria, in un contesto ormai totalmente destabilizzato, stiano cercando di gestire l’organizzazione sociale nel loro territorio attraverso l’istituzione di consigli popolari che includono le diverse categorie sociali e le varie minoranze etniche presenti nella regione. Aysel Tuğluk, presidente in Turchia del DTK – Congresso della Società Democratica – ha poi precisato che, se il processo rivoluzionario in atto deve mirare ad un modello di organizzazione sociale inclusivo e che permetta a tutte le identità di convivere, questo modello deve avere come riferimento un’idea socialista di società e non commettere lo stesso errore dell’Europa che ha fondato la sua unione sul modello capitalista.
A conclusione della conferenza si è indagata la possibilità di un superamento del conflitto in Turchia con la ripresa dei negoziati tra il governo turco e il PKK – Partito dei lavoratori del Kurdistan. Perché questo avvenga entrambe le parti devono essere disposte al dialogo. Così non sembra essere da parte del partito di governo AKP – Partito per la Giustizia e lo Sviluppo – che non ha neanche risposto all’invito a partecipare alla conferenza. Così non sembra essere da parte del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan che continua a rilasciare dichiarazioni imbarazzanti quali “La pena di morte è stata abolita in Europa. Ma è stata abolita negli Usa, in Giappone e in Cina? No. E allora vuol dire che in alcuni casi la pena di morte è legittima”.
I kurdi rivendicano il diritto all’autodeterminazione, rivendicano diritti politici e culturali e non sono disposti ad accettare elemosine, come è avvenuto recentemente dando la possibilità ai detenuti politici di difendersi in tribunale in lingua kurda ma solo pagandosi di persona l’interprete. Sono tanti i punti da affrontare se si vuole iniziare un reale percorso verso la pace, come la possibilità di partecipare concretamente alla redazione di una nuova Costituzione che non sia solo espressione del partito di governo, come la definizione di un programma economico di sviluppo del sud est della Turchia, una delle regioni più povere del Paese o come un’amnistia generale che consenta ai numerosi rifugiati della diaspora kurda di rientrare nella loro terra.
Nella relazione conclusiva Selahattin Demirtaş, presidente del BDP – Partito della Pace e della Democrazia – ha affermato la piena disponibilità da parte del suo partito a sedere a un tavolo di negoziati, ma ci sono altri due attori senza i quali questo processo non può avere luogo: Abdullah Öcalan e il PKK.
Il ruolo di Abdullah Öcalan come leader del popolo kurdo è stato riconosciuto dal governo che, a seguito delle pressioni internazionali, si è visto costretto ad interrompere l’isolamento carcerario totale al quale Öcalan è stato sottoposto per 16 mesi, chiedendo un suo intervenire rispetto allo sciopero della fame conclusosi il 12 novembre scorso e intrapreso dai detenuti politici i quali, determinati ad andare avanti fino alla morte, chiedevano la scarcerazione dello stesso Öcalan. Ma Demirtaş aggiunge che “il governo ha ora affermato la possibilità di rimuovere l’immunità parlamentare ai deputati del BDP per allontanarsi dalle richieste avanzate dai prigionieri in sciopero della fame”.
Sottolinea ancora Demirtaş che “il governo dell’AKP non è ancora pronto a riconoscere i kurdi come popolo e a smettere di considerare il PKK un’organizzazione terrorista e in questo modo legittima questo conflitto come una guerra contro il terrorismo”.
È per questo che nel documento conclusivo della conferenza si legge che “deve essere preparata la base per un’amnistia generale come parte di un più ampio processo di pace negoziata. Per facilitare questi negoziati, la Conferenza esorta tutti gli Stati (dell’UE) a rimuovere il PKK dalla lista delle organizzazioni terroriste”.
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