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Quel che ho visto a Bilbao

Io posso dire quello che ho visto. 

Ho visto 115.000 persone in piazza, due giorni fa a Bilbao, chiedere amnistia per le centinaia di prigionieri politici baschi. Ma non ho visto una massa, un numero: ho visto ogni singola persona. Ho contato ogni motivo, letto dentro ogni storia. 

Ho visto le madri, i padri, i fratelli, le sorelle, portare una candela, una bandiera, gli occhi umidi e la fierezzaper il familiare lontano chilometri. Ho visto facce sofferenti e belle, facce di chi ha ragione ogni oltre dubbio e diffidenza. Ho visto le stanze lasciate vuote dai figli, e devastate all’alba dalla polizia. Ho visto la mano della madre esitare su quelle porte, i padri tormentarsi per le loro responsabilità, farsi una colpa di aver cresciuto un figlio critico e libero. Ho visto i parenti mettersi in macchina di notte, per andare a trovare un cugino rinchiuso a 700, 800, 1000 chilometri da casa. Li ho visti tornare stanchi, senza aver avuto il permesso dall’amministrazione penitenziaria. Alcuni invece sono tornati morti, perché le strade uccidono anche chi viaggi per amore. 

Ma al corteo ho visto pure i visi commossi di compagne e compagni quindicenni, che hanno appena iniziato a lottare e già si sentono parte di una storia che viene da lontano e va lontano, già sono pronti a dare tutto per mettere su un mondo migliore – di molto migliore. Li ho visti mentre attaccavano per le strade e nei bar le foto dei loro fratelli maggiori, rischiando un anno di carcere, perché rivendicare complicità con gli arrestati, nel 2013 della democratica Spagna, vuol dire essere terrorista. 

Ho visto giovani precari che smontavano dal lavoro e si mettevano a servire birre, a fare striscioni, a pulire per terra, senza pensare di guadagnare un centesimo dalla loro militanza politica, con una incrollabile determinazione nel fatto che il futuro sarà diverso.

Ho visto quarantenni che hanno sopportato il carcere, la tortura, ogni tipo di privazione, raccontare le loro storie, farci capire quanto vale la solidarietà per chi sta in carcere. Li ho visti ancora impegnati, discutere alla pari con i piccoli, rispondere alle stesse stupide obiezioni dei grandi, quando avrebbero tutte le ragioni per ritirarsi a vita privata.

Ho visto un compagno uscire dopo anni di prigione, essere accolto nel suo quartiere con un Onge Torri, un “benvenuto”, una mezza festa popolare e un mezzo corteo – bandiere, striscioni, scritte e petardi. L’ho visto piangere, abbracciare gli amici che non vedeva da anni, ma non l’ho visto mai pentirsi, perché se la lotta va avanti ogni sacrificio è riscattato, perché tutto il calore cancella il freddo della prigione. Perché l’orgoglio non si perde con la fedina penale. 

Ho visto i fratelli di Lander, un giovane compagno che l’Italia tiene da otto mesi agli arresti domiciliari, e che vuole consegnare alla Spagna solo perché dieci anni fa partecipò a una manifestazione, solo perché lo stato spagnolo deve vendicarsi della sua nullità, far dimenticare il 36% di disoccupazione, il massacro sociale di Rajoy. Ho visto la loro rabbia, ma anche la loro fermezza. Ho visto quella grande umanità rivoluzionaria che si pensa sepolta nel passato e consegnata ai libri, farsi viva e presente, quando ci hanno accolto come se ci conoscessero da sempre.

Queste sono solo alcune delle cose che ho visto. Poi ce ne sono altre. E sospetto altre ancora, che non ho saputo vedere. 

Ma quello che mi preme dire è che ho visto le capacità di un movimento, di tutta una comunità. La capacità di riconoscere chiaramente il nemico e di non dargli tregua, e la capacità simmetrica e altrettanto importante di aver cura degli amici, di restare uniti anche nelle differenze, di saper discutere e convergere in un progetto comune. Perché un collettivo non è una banda e un partito non è un comitato di affari, perché è dei rivoluzionari l’onestà, l’umiltà e la volontà di imparare, di appassionarsi e di misurarsi, e di non cedere alla corruzione.

Ho visto quello che in Italia non abbiamo: la capacità di riconoscerci, di superare le differenze in un progetto di ampio respiro, che sappia coinvolgere centinaia di migliaia di persone senza per forza annacquare i propri contenuti, senza ricorrere al leaderismo, senza mediare con le forze borghesi e reazionarie, senza inseguire il meno peggio. 

Ho visto quanto alto volano le compagne e i compagni baschi rispetto alle nostre miserie, e ho capito perché loro non hanno avuto bisogno di cancellare il passato, di inventarsi nuovi nomi per dire cose vecchie come il pane e la giustizia. Ho capito perché non hanno avuto bisogno di importare ogni volta una cazzata diversa, di fabbricare rotture continue, di fare marketing e campagne pubblicitarie per convincere le persone di cose che sono semplici, ragionevoli, comprensibili per tutti gli sfruttati. 

Ho visto tutto questo, e voglio riportarlo nella mia pratica politica. Anzi, voglio che ogni compagno che conosco lo porti nella propria pratica politica. Non perché esistano modelli validi in assoluto, o perché si aggiunga un altro gadget a un guardaroba fatto di troppe t-shirt e poche scarpe. Ma perché la lotta del popolo basco per l’indipendenza e il socialismo è qualcosa di così ricco e denso, di così fraterno e toccante, che è per noi un bagno di entusiasmo e di fiducia, la ripresa di uno slancio, l’apertura di sentieri alle nostre speranze. 

Quando un popolo oppresso si alza in piedi, che siano cubani o palestinesi, curdi o venezuelani, trema la terra dell’ingiustizia, si scuotono le coscienze di milioni di rivoluzionari, il lontano si fa vicino e l’avvenire è già presente! 

Gora Euskal Herria askatuta!
Gora Euskal Herria sozialista!
Gora Euskal Herria internazionalista!

http://caunapoli.org/index.php?option=com_content&view=article&id=1232

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