Questi due articoli da IlSole24Ore affrontano finalmente il problema fondamentale che abbiamo spesso cercato di porre al centro della discussione (la mostra “potenza di fuoco” come media, seppure in rapida crescita, non è ancora tale da consentircelo). Ovvero: con quale “figura giuridica” internazionale i militari italiani stavano su una nave privata in “servizio di scorta”?
Non erano certamente in “missione antiterrorismo”, come ancora qualche giorno fa i lanci di agenzia descrivevano la vicenda. Altrimenti avrebbero viaggiato su navi della marina militare italiana, magari camuffati da “nave civile” equalche altro marchingegno del genere. Ma se non sei un militare in servizio per conto del tuo Stato, allora tu non sei più “coperto” se – nell’uso scriteriato delle armi in dotazione (e questo è certamente avvenuto, visto che sono stati uccisi due pacifici pescatori) – commetti reati gravi nei confronti di cittadini di altri paesi.
Tutto è iniziato con un decreto berlusconiano, ma sarebbe potuto accadere anche con altri governi, visto che il dogma delle “privatizzazioni” è filosofia politica comune a tutta la classe politica italiana (sia “vecchia” che nuovissima!). Un colpo di genio per arrotondare i bilanci della Difesa senza aumentare la spesa pubblica: si possono “affittare” a privati squadre di militari per servizi di scorta. Semplice, originale, un po’ idiota, ma efficace ed economicamente redditizio. Qualche compagnia che deve spedire navi attraverso il golfo di Aden, in una zona infestata negli ultimi anni da pirati somali (grazie a un altro “colpo di genio”, stavolta statunitense, che ha distrutto persino la parvenza di uno Stato in quel paese), decide di approfittare dell’offerta senzandosi più “garantita” – sul piano strettamente giuridico-diplomatico – dalla presenza a bordo di militari di professione anziché di guardie del corpo private. Si potrebbe ironizzare a lungo sul fatto che mentre lo Stato è invitato a privatizzare tutto, anche la difesa militare, “i privati” si fidano più dello Stato che di altri privati… Ma lasciamo stare, per ora.
Da allora in poi è stata creata una catena di cazzate che è diventata inarrestabile quando ci hanno messo le mani due ministri “tecnici” (e anche qui l’ironia potrebbe scorrere a fiumi, a proposito della supposta “superiorità” dei tecnici rispetto ai vecchi “politici”). L’ex ambasciatore Giulio Maria Terzi di Sant’Agata diventato ministro degli esteri e l’ammiraglio Giampaolo Di Paola (la fantasia non è semre una dote necessaria…), promosso ministro della Difesa, sembravano il massimo della competenza possibile. Vuoi mettere la differenza con quei corrotti funzionari di partito che fin lì avevano coperto le stesse cariche?
Senza alcuna simpatia per il vecchio personale politico della borghesia italiana, dobbiamo però registrare asetticamente che una fila di scemenze così lunga nessun “funzionario di partito” l’ha mai messa in piedi. Magari soltanto per paura di bruciarsi la carriera, ma a nessuno era mai venuto in mente di “coglionare” una potenza emergente dotati di arsenali nucleari con il vecchio giochino da cortile “rimandami i due soldati perché devono votare e poi non te li ridò”. A due “tecnici” invece sì.
Ci sembra che per descrivere il governo Monti e tutta la sua parabola sia l’esempio migliore. Avremmo potuto scegliere Elsa Fornero, che sulle stesse pagine proprio oggi “piange” sul fatto la sua “riforma del mercato del lavoro” non funziona affatto (aveva promesso così avrebbe aumentato l’occupazione e ridotto la precarietà) perché le sono “mancati sei miliardi” per farla girare come lei aveva pensato. Ma avremmo costretto il lettore a un giro di argomenti e numeri troppo lungo. Il caso dei “due marò”, invece, è semplice semplice. Come riassume l’ex generale Carlo Jean (ec consigliere militare di Francesco Cossiga, mica un critico del militarismo italiano!), abbiamo visto in azione “dilettanti allo sbaraglio”. Tecnicamente parlando…
Ecco perché i due marò si trovavano a bordo di quella nave. I militari equiparati a «contractor privati»
di Marco Masciaga
Se da ieri i fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone sono di nuovo a New Delhi, circondati da un clima più ostile di quello che si erano lasciati alle spalle lo scorso febbraio, lo devono solo in parte alla sconcertante catena di errori commessi da tutti gli attori coinvolti in una vicenda in bilico tra farsa e tragedia.
Una parte delle responsabilità va fatta risalire anche al decreto legge del 12 luglio 2011 che ha aperto la strada all’imbarco dei militari sulle navi civili battenti bandiera italiana e alla convenzione dell’11 ottobre dello stesso anno tra il ministero della Difesa e la Confederazione italiana armatori (Confitarma). È nell’articolo 5 del decreto legge e nei sette articoli che compongono l’accordo tra militari e armatori che si aprono le prime falle in cui sono scivolati prima i due marò e poi un pezzo della credibilità internazionale dell’Italia.
Ma andiamo con ordine. A infilare i due fucilieri nel tunnel della giustizia indiana è stata innanzitutto la decisione di fare entrare in un porto indiano la Enrica Lexie, nonostante l’incidente al centro delle indagini fosse avvenuto al di fuori delle acque territoriali di New Delhi.
«La prima ambiguità – spiega una fonte diplomatica – va fatta risalire alla creazione di una situazione in cui dei militari, impegnati per conto del proprio Paese in una missione internazionale, si trovano in servizio a bordo di un’imbarcazione di proprietà di un armatore che paga il ministero della Difesa per il servizio di protezione che riceve. Equiparando di fatto i militari a contractor privati».
La presenza di militari a bordo per sua stessa natura ha finito per creare una situazione poco chiara circa la catena di comando sulla nave. A tale proposito la convenzione tra ministero della Difesa e armatori fa chiarezza solo in parte.
Il documento che dovrebbe spiegare, nel dettaglio, chi decide cosa, intacca solo in minima parte le prerogative del comandante della nave, attribuendo al nucleo militare di protezione solo «le funzioni di ufficiale di polizia giudiziaria limitatamente alle operazioni compiute nella repressione di un attacco dei pirati, ferme restando, per il resto, le attribuzioni del Comandante della nave».
Un concetto ribadito anche dove il documento parla esplicitamente del fatto che «le scelte inerenti la navigazione e la manovra della nave saranno di competenza del comandante che si orienterà alle pratiche marinaresche e a quelle altresì raccomandate dall’International Maritime Organization».
Una formulazione che non dovrebbe lasciare dubbi circa la responsabilità di chi ha deciso che la Enrica Lexie attraccasse a Kochi, rendendo possibile l’arresto dei due marò. Ma qualche perplessità sulle responsabilità del ministero della Difesa resta comunque. Anche perché tra i doveri dell’armatore enumerati dalla convenzione c’è quello di offrire ai militari a bordo «servizi di comunicazione per lo scambio di informazioni con la catena di comando e controllo nazionale», oltre che l’obbligo a «informare tempestivamente il Comando in capo della squadra navale della Marina militare di ogni possibile implicazione per lo sbarco del nucleo militare di protezione in relazione alla rotta della nave».
Norme che, unitamente al silenzio del ministero della Difesa sulla vicenda, danno adito al sospetto che le gerarchie militari non fossero del tutto all’oscuro della catastrofica decisione di attraccare in Kerala e consegnare di fatto i marò alle autorità indiane.
Una volta commesso questo grave errore tattico, secondo la fonte diplomatica interpellata dal Sole 24 Ore, l’intera partita è stata giocata in maniera infelice. Prima «non richiamando l’attenzione internazionale sul vulnus arrecato alla lotta alla pirateria dalla mossa indiana», poi sul piano negoziale «continuando a tenere un atteggiamento buonista» e quindi «piegandosi dopo un’iniziativa come la violazione della Convenzione di Vienna da parte di New Delhi. Con il risultato di confermare l’immagine di un Paese fragile e incapace di esprimere autorità e senza ottenere alcun vantaggio». Anche perché le assicurazioni circa il fatto che in caso di condanna i due marò non saranno mandati al patibolo sono poca cosa, dato che in India la pena di morte è comminata, per volere della Corte Suprema, solo «in the rarest of rare cases».
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Il rientro dei marò, Carlo Jean: dilettanti allo sbaraglio. Il rischio pena di morte? Una foglia di fico politica
di Andrea Carli
Da buon generale (nonchè alpino) ricorda che il miglior modo per difendere gli interessi commerciali dell’Italia in India è quello di «rispettare la parola data». Carlo Jean, esperto di strategia militare e geopolitica, ex consigliere militare del presidente Cossiga, ex presidente della Società di gestione degli impianti nucleari, non ama molto le formule della diplomazia. La gestione della vicenda marò? «Dilettanti allo sbaraglio», spiega.
Generale, che cosa abbiamo sbagliato?
La responsabilità iniziale è stata del comandante della Enrica Lexie, che ha obbedito all’armatore invece di prestare ascolto alle autorità della difesa. Ha deciso di abbandonare le acque internazionali e di rientrare nel porto di Kerala. Da lì in poi c’è stata una confusione terribile, fino alla decisione di ieri di far tornare in India i due fucilieri della marina, dopo che un ministro aveva detto che, alla scadenza del permesso, sarebbero rimasti in Italia.
II Governo ha posto l’attenzione sul rischio di una condanna dei marò alla pena di morte, ipotesi che ora sarebbe rientrata.
Si tratta di una foglia di fico politica, una scusa ridicola squalificante per chi la propone. L’Italia ne esce molto male.
Chi è responsabile di quello che è accaduto?
Ho la sensazione che ci sia una confusione terribile: il ministero della Difesa dà la colpa a quello degli Esteri e viceversa. A mio avviso la Presidenza del Consiglio non è stata informata in maniera adeguata
I maligni dicono che il governo dei tecnici all’inizio abbia scelto il muro contro muro con Nuova Delhi perchè tanto ad affrontare il problema sarebbe stato l’esecutivo successivo.
Mah, non credo molto alla logica della patata bollente, credo piuttosto che siano stati commessi errori grossolani. Punto.
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KLAUS DURMONT
Da questa ingarbugliata matassa se ne esce solo con la presa di posizione di uno Stato colla “S” maiuscola. Infatti tutte le considerazioni che sono state fatte non hanno ragione di esistere perché i contorni della faccenda sono estremamente confusi. Chi ha dato l’ordine di rientrare dalle acque internazionali alla nave se non l’armatore ? Perché questi non ha chiesto il parere del ministero degli esteri ? E’ proprio vero che si tratta di dilettanti allo sbaraglio ? Chi invece da tutto ciò ne subisce le conseguenze sono i due marò che da militari si comportano come il codice prevede. I “ragazzi” come li chiamano hanno coraggio mentre il governo non li ha difesi abbastanza.
FLORIANO
In risposta a klaus durmont: chi invece da tutto ciò ne subisce le conseguenze sono i due pescatori uccisi dai “ragazzi”, i loro amici, le loro famiglie. GIUSTIZIA PER I PESCATORI INDIANI UCCISI DAI MARÒ