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Israele, i campionati dell’ingiustizia

Il ragazzo gazawi che saltella sulle macerie può ancora muoversi differentemente da altri concittadini morti. Se non fossimo accusati di “retorica”, “propagandismo”, “solidarietà coi terroristi” dovremmo dire assassinati. E lo scriviamo: assassinati nell’ennesimo crimine contro un popolo, un’azione di guerra sui civili lasciata scorrere nella più totale impunità. Il governo Netanyahu la denominò “Colonna di fumo”, un fumo che celava meno vittime dei millequattrocentoquarantatre uccisi per “Piombo fuso” solo perché “l’operazione” durò poco. Ma come ogni mossa di Tsahal continuò a seminare lutti. E odio. Perché le stragi non possono non suscitarne. Il ragazzo che si muove fra le macerie delle gradinate di un impianto già reso inservibile da precedenti attacchi a un’esistenza normale, potrebbe essere l’immagine dei prossimi Campionati Europei (sic) under 21 di calcio che l’Uefa organizza in Israele. Ricorderebbe ai molti cittadini d’Europa che continuano a nascondere lo sguardo davanti agli orrori perpetuati dallo Stato dell’apartheid cosa purtroppo siano questa nazione e i suoi governi. Lo ricorderebbe non con le parole di quei fratelli che i moderni israeliani – coloni o no – disprezzano.

“Qui, sui pendii delle colline, dinanzi al crepuscolo e alla legge del tempo, vicino ai giardini dalle ombre spezzate, facciamo come fanno i prigionieri, facciamo come fanno i disoccupati: coltiviamo la speranza. Un paese che si prepara all’alba. Diventiamo meno intelligentiperché spiamo l’ora della vittoria: non c’è notte nella nostra notte illuminata da una pioggia di bombe. I nostri nemici vegliano, i nostri nemici accendono per noi la luce nell’oscurità dei sotterranei…“ Potrebbe ricordarlo con la voce dei loro figli migliori. Quelli che furono essi stessi vittime dell’orrore e se e quando sopravvissero lanciarono un monito inascoltato e offeso dal volto e dalle opere dei padri dell’odierno Israele. “Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate a sera il cibo caldo e i visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace, che lotta per mezzo pane che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i nostri nati torcano il viso da voi”. Cosa c’entra questo con un pallone e un campionato di calcio? C’entra eccome. Se l’Uefa volesse potrebbe farselo spiegare da Mahmoud Sarsak, calciatore palestinese rimasto per tre anni in galera senza motivo. Egualmente potrebbero spiegarlo i quattromilanovecento detenuti palestinesi tutt’ora rinchiusi nelle prigioni israeliane. Se solo fossero trattati da uomini.

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