Le immagini di centinaia di agenti di polizia in tuta nera con il casco rosso in testa e il cappuccio calato sulla faccia che manganellano e trascinano via a forza, uno ad uno, gli abitanti del piccolo comune di Ondarroa, mobilitatisi da giorni per impedire l’arresto della loro compagna Urtza Alkorta, hanno fatto il giro del mondo. Non sui telegiornali o sui giornali, per lo più. Non ci sono più gli attentati dell’ETA a far gola al sistema mediatico internazionale e alla sua industria della pornografia del dolore. Ma social network, blog e siti di controinformazione hanno fatto rimbalzare le notizie, le foto e i video di quanto è successo in quel piccolo comune di pescatori e operai su un numero enorme di computer, telefoni e tablet in tutto il mondo.
Da una parte migliaia di cittadini, di tutte le età e condizioni sociali, dall’altra i ‘tutori dell’ordine’ con la faccia coperta e la loro violenza, brutale seppure legittimata dal potere e dalle leggi. Il popolo basco ha dato l’ennesima dimostrazione di coraggio, di dignità e di forza, dimostrando che quando una legge è ingiusta non può non essere violata, contestata, controbattuta. Migliaia di persone lo hanno fatto prima a Donostia e poi, con un coinvolgimento, una determinazione e una organizzazione ancora maggiori, a Ondarroa.
Ondarroa non è un posto come gli altri. Poche migliaia di abitanti, il comune sulla costa basca a poche decine di chilometri da Bilbao ha una storia e una tradizione di lotta invidiabili. Ad Ondarroa anche gli immigrati africani, quelli che lavorano al porto o sui pescherecci d’altura, parlano euskera, con quello stesso accento stretto che anche molti baschi di altre località fanno fatica a decifrare.
Abbiamo conosciuto il suo sindaco, Loren Arkotxa, alcuni anni fa. Qualche anno prima che la magistratura e i partiti di Madrid inventassero nuove leggi per chiudere giornali, partiti, associazioni e gruppi della sinistra indipendentista. Anche Loren Arkotxa, insieme ad altre giovani collaboratrici, finì in prigione, per anni. La sua colpa? Guidare Udalbiltza, la federazione dei municipi che pretendeva di creare un’istituzione nazionale basca riunendo i comuni di tutte e due le parti del paese, spaccato a metà dalla frontiera tra Spagna e Francia. Alle elezioni successive i caparbi abitanti di Ondarroa – comune di operai e di pescatori – andarono in massa alle urne per depositare la scheda con il simbolo della sinistra indipendentista che nel frattempo era stata dichiarata illegale e quindi esclusa dalla competizione dalle autorità spagnole. I risultati, così come in altri comuni baschi, parlarono chiaro: gli abitanti votarono in massa per il partito fuorilegge, contestando con il loro gesto l’illegittimità della legge stessa.
Ieri mattina, alle sette, la sirena del porto ha suonato forte così come era già accaduto più volte durante la notte e i giorni precedenti. In pochi istanti gli abitanti di Ondarroa sono usciti dalle loro case e si sono ammassati attorno alla giovane consigliera comunale Urtza Alkorta, sul ponticello pedonale che unisce due parti del paese. A formare quello che in lingua basca è stato ribattezzato ‘herri harresia’, un muro popolare.
Le immagini ci mostrano ragazzine di quindici anni al fianco delle loro zie e delle loro nonne con i capelli colorati di viola e di rosso, i padri con la ‘txapela’ con i figli e i nipoti con i piercing, seduti uno accanto all’altro a fare muro contro la polizia coloniale, l’Ertzaintza, che aveva occupato militarmente la cittadina. Aggrappati gli uni alle altre, per ritardare l’arresto di Urtza e mandare un messaggio chiaro: se la Spagna vuole continuare a criminalizzare singoli attivisti politici gettandoli nelle sue galere deve vedersela con le intere comunità di appartenenza dei militanti incolpati.
Nessuna violenza contro la polizia, solo un muro di solidarietà e d’indignazione. Centinaia di persone portate via una ad una, a forza, dagli anonimi servitori del potere. Tre ore di braccio di ferro. Una forma di disobbedienza civile di massa, di resistenza passiva che non è nuova in una tradizione di resistenza e conflitto che ha visto la parte migliore del popolo basco adottare tutti gli strumenti a sua disposizione. Come quando centinaia di migliaia di famiglie rifiutarono per mesi di pagare le bollette elettriche, sabotando così la costruzione della centrale nucleare che la Spagna voleva realizzare a pochi chilometri da Bilbao, non lontano da Ondarroa. O come quando per tentare di impedire che la diga di Itoiz spazzasse via un’intera valle a centinaia si arrampicarono sui palazzi delle istituzioni locali per poi farsi portare via di peso. O come quando più recentemente il movimento contro la TAV ha occupato edifici e terreni, bloccato binari e stazioni. E gli esempi potrebbero essere infiniti.
Certamente ora, sulla base di una riflessione, di un dibattito che migliaia di militanti della sinistra indipendentista hanno condotto per anni in condizioni di semiclandestinità, e che ha portato nel 2011 alla cessazione definitiva delle attività armate dell’ETA, la disobbedienza civile è diventato lo strumento cardine attraverso il quale tentare di cambiare i rapporti di forza. Attraverso il quale tentare di imporre alle elite e alle istituzioni locali e statali, noncuranti del cambiamento storico occorso nel frattempo, una volontà popolare continuamente negata e repressa. Quella che era una pratica di alcuni gruppi minoritari o di coordinamenti tematici di lotta è diventata ora una campagna di massa, coscientemente praticata e fomentata dalle diverse ramificazioni sociali e politiche della sinistra indipendentista.
Una pratica nonviolenta che oppone alla violenza delle istituzioni statali e dei suoi apparati repressivi la forza del numero e dell’insubordinazione attiva. Una pratica attraverso la quale migliaia, decine di migliaia di soggetti entrano in campo partecipando in prima persona, e assumendosi tutti i rischi che ciò comporta, in una società che dopo la fine della lotta armata tende alla normalizzazione, al rilassamento, all’individualizzazione dei rapporti sociali e politici.
Una scommessa non da poco. Una strada che non necessariamente porterà a risultati positivi e determinanti. Per decenni il sistema politico e le istituzioni spagnole, ereditate dall’autoriforma del franchismo, hanno criminalizzato e perseguitato il vastissimo movimento popolare basco in nome della repressione della violenza, del terrorismo, della ‘mafia’ dell’ETA. Anche buona parte della sinistra internazionale, di classe, radicale e non, ha sempre osteggiato la sinistra basca, ponendo immancabilmente il problema de “l’inaccettabile uso della violenza”. Ora che la violenza insurrezionale dell’ETA non c’è più e che rimane invece dispiegata senza infingimenti solo quella dello Stato e dei suoi apparati, ci si aspetterebbe quindi una pioggia di dimostrazioni di solidarietà, di vicinanza, di appoggio attivo da parte di quei soggetti che, in Spagna e fuori, hanno posto per decenni il problema della “fine del terrorismo”. Ma non è così. Lo stigma della violenza era evidentemente un alibi, comodo per evitare di affermare che ciò che teneva lontana gran parte della sinistra internazionale dal movimento popolare basco non era il rifiuto di metodi di lotta non condivisi ma di ciò che la sinistra basca ha sempre rappresentato dopo la fine della dittatura franchista. In realtà sono sempre stati il conflitto frontale, la rottura, la carica antisistema e la dimensione collettiva della lotta che hanno tenuto lontano, e che tengono tuttora lontano, le sinistre ‘radicali’ dai militanti baschi.
Dove suonerà ancora la sirena della resistenza popolare? Ora che la battaglia di Ondarroa è conclusa, occorre attendere che inizi la prossima. Quante volte abbiamo ascoltato o utilizzato la frase “la solidarietà fa muro” senza comprenderne veramente l’essenza? Occorreva stare nei giorni scorsi in quel piccolo ma indomito comune della costa basca, tra Donostia e Bilbao, per capirlo veramente.
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