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Golpe in Egitto: effetto domino in Medio Oriente?

L’intervento diretto dell’esercito egiziano, che ha posto fine due giorni fa al potere dei Fratelli Musulmani al Cairo, non mancherà di avere effetti a catena in tutto il mondo arabo e in Medio Oriente. L’Egitto è il paese più popoloso dell’area, e almeno teoricamente quello con il maggior peso economico (FMI permettendo) del Nord Africa. Ed è anche il paese che ha maggiori relazioni con l’occidente, confermate anche nell’anno di potere di Morsi e dei suoi Fratelli Musulmani, che hanno confermato e mantenuto gli accordi strategici del dittatore Mubarak sia con gli Stati Uniti e l’UE sia con Israele.

L’estromissione del cosiddetto ‘Islam Politico moderato’ dal governo dell’Egitto viene naturalmente salutata con soddisfazione a Damasco e a Teheran, vittime negli ultimi anni dell’alleanza tra l’Alleanza Musulmana al potere in numerosi paesi arabi (e comunque influente anche laddove è all’opposizione o addirittura in condizione di semiclandestinità) e gli interessi delle potenze grandi – USA ed UE – e “piccole” (Turchia, Petromonarchie). Morsi aveva aderito al boicottaggio e all’assedio contro la Siria di Assad – sostenendo la Fratellanza in lotta contro il governo di Damasco – e contro l’Iran, sommandosi alle pressioni militari, commerciali e diplomatiche contro i due paesi oggetto delle strategie di destabilizzazione in campo ormai da anni. Assad, astutamente, lega il fallimento di Morsi a tutta la storia del dopoguerra dei Fratelli Musulmani, «un progetto ipocrita che mira a seminare zizzania nel mondo arabo». E chiosa probabilmente in modo troppo ottimistico: «È la fine dell’islamismo politico». Sul stessa linea il quotidiano filo-siriano libanese «Al Akhbar», che parla – paragone assai forzato e improbabile – di scenario simile a quello della presa del potere di Nasser nel 1954, quando l’ufficiale nazionalista schiacciò e mise fuori legge i Fratelli Musulmani. Richiamarsi a Nasser significa solleticare l’orgoglio arabo dell’Egitto che sotto Morsi aveva sposato la guerriglia anti-Assad e inviato ingenti aiuti agli insorti islamisti.

A questo si sommano le crescenti proteste di alcuni settori popolari delle zone controllate dai ribelli in Siria che cominciano a scalpitare nei confronti dell’oscurantismo sociale e culturale imposto dalle milizie islamiste in lotta contro il governo.

Lo stop – c’è da capire quanto temporaneo – della Fratellanza Musulmana in Egitto, accompagnata dall’indebolimento dell’Akp in Turchia e dalle crescenti contestazioni ai colleghi di Ennahda in Tunisia concedono respiro ai due paesi assediati e in generale alle correnti sciite o non sunnite – gli alawiti in Siria, Libano e Turchia – finora strette dalla tenaglia rappresentata dall’alleanza tra ‘Islam politico moderato’ e Islam radicale (correnti salafite, petromonarchie del Golfo). Una tenaglia dalla quale negli ultimi tempi si sono sottratte alcune correnti salafite, come il partito Al Nur in Egitto che spera di approfittare della crisi di Morsi e dei suoi per accreditarsi ulteriormente come unica alternativa ai liberali e ai regimi filoccidentali, già forte alle scorse elezioni egiziane del 30% dei voti. Anche in Tunisia l’asse tra Ennahda e i Salafiti se non si è rotto si è sicuramente indebolito, e non è un segnale da sottovalutare. Così come è importante sottolineare il cambio di strategia di paesi influenti come il Qatar.

Nelle ore immediatamente successive all’arresto e alla destituzione di Morsi i militari egiziani hanno chiuso sia le emittenti controllate da Al Nur sia la potentissima Al Jazeera, strumento di comunicazione-penetrazione delle elite del Qatar e del resto dei regni feudali della penisola arabica.

Ma a Doha il nuovo regnante 33enne, appena succeduto all’emiro Al Thani, sembra averla presa con filosofia,  inviando un messaggio di congratulazioni al “nuovo” presidente imposto al Cairo dai militari ed erede diretto del regime di Mubarak.

 

Forti ripercussioni potrebbe avere in Turchia la destituzione di Morsi, in un paese che ha rappresentato il modello da seguire per la virata delle cosiddette ‘primavere arabe’ verso un connubio sempre più soffocante tra islam sempre meno moderato e liberismo. Le similitudini tra Ankara e il Cairo non sono poche, a partire dal ruolo fondamentale che l’esercito ha svolto in entrambi i paesi; non a caso uno degli obiettivi perseguiti dal capo dell’Akp turco Erdogan è stato negli ultimi anni quello di decapitare l’esercito, tentando di depurarlo degli elementi più fedeli al nazionalismo laicista – responsabile di ben 3 colpi di stato cruenti tra il 1960 e il 1980 e di uno incruento, nel 1996, proprio contro gli islamisti guidati allora da Necmettin Erbakan – e di comprarne alcuni settori con regalie e prebende in modo da disattivarne la potenziale contrapposizione con il rafforzamento del governo islamista. Ma quanto accade al Cairo potrebbe rafforzare le spinte all’interno delle forze politiche liberali e laiciste affinché anche ad Ankara l’esercito torni in campo, se non per estromettere l’Akp con un colpo di Stato, almeno per contestarne la legittimità. L’indebolimento della tenaglia contro la Siria avrà effetti immediati sia interni che esterni ad Ankara, che proprio in queste ore ospita ad Istanbul i lavori della cosiddetta Coalizione nazionale siriana, dominata ancora oggi dalla Fratellanza musulmana, alle prese con quanto accade in Egitto e anche con una rimonta sul campo delle forze armate di Assad, affiancate dagli Hezbollah libanesi, dai consiglieri iraniani e dagli armamenti russi. L’effetto immediato potrebbe essere un ridimensionamento del ruolo del governo turco e della sezione siriana della Fratellanza rispetto alle mire e alle pretese delle forze liberali e laiche e di quelle, all’opposto, vicine alle petromonarchie e alle correnti salafite o jihadiste. Considerando che mentre le prime sul campo sono assai deboli le seconde diventano sempre più preponderanti.

Risvolti altrettanto importanti potrebbe avere il cambio di scenario egiziano in Tunisia, Libia e Marocco. A Tunisi gli attivisti laici moltiplicano i messaggi e le petizioni contro l’islamista Gannouchi, firmate da una coalizione denominata ‘Tamarod’ – ‘ribelli’ – mutuata pari pari da quella formata dagli omologhi del Cairo e sostenitrice del colpo di Stato militare. La stampa araba mette in rilievo in queste ore il timore dei partiti islamisti in Marocco e in Tunisia che i fatti egiziani producano un vero e proprio effetto domino nei loro paesi. Nei due paesi i partiti aderenti alla Fratellanza Musulmana, usciti vincitori dalle elezioni politiche seguite alla stazione delle cosiddette ‘primavere arabe’, sono sottoposti a crescenti contestazioni sia rispetto alla visione oscurantista dei rapporti sociali che propongono sia nei confronti della propria incapacità di risolvere questioni esplosive come la povertà o la disoccupazione trattate con le fallimentari e ingiuste misure liberiste implementate dal Fmi e dalle altre istituzioni economiche transnazionali.

Sia il tunisino Ennahda, guidato da Rached Gannouchi, che il marocchino Partito per la giustizia e lo sviluppo, con il suo leader Abdelillah Benkirane, hanno fallito, pur con sostanziali differenze per quanto riguarda la sicurezza che, in fortissimo pericolo in Tunisia, rischia di diventarlo anche in Marocco. E l’altro grande obiettivo dichiarato dagli islamisti, quello della pace sociale, appare sempre più lontano.

Ovunque nel mondo arabo, anche se in situazioni assai diverse, i partiti di governo islamisti, non sono stati in grado o non hanno voluto dare soluzioni alle crisi economica che sconquassa le loro società, e per questo stanno perdendo anche il sostegno di fette di popolazione che si identificano con l’identità politica islamista ma ne contestano le scelte economiche o le alleanze internazionali.

“Quanto accadrà agli islamisti inEgittodeterminerà il loro status negli altri paesi della regione. Questo li rende nervosi, perché sanno che se perdono in Egitto, perderanno ovunque” sentenzia l’analista giordano Labib Kamhavi. Un punto di vista che spiega il momento presente ma che potrebbe essere fallace per il prossimo futuro. Se è vero infatti che gli errori e le incapacità dell’islam politico nel gestire e risolvere la crisi nei paesi dove governa ne stanno determinando la crisi, qualsiasi altro governo imposto dall’imperialismo e dalle frazioni filoccidentali delle borghesie locali non potranno in un contesto tale che aggravare la situazione. E allora l’islam politico, tra qualche tempo, potrebbe tornare di nuovo alla carica in una versione ancora più radicale e legittimata da una nuova stagione di clandestinità ed estromissione dal potere. E allora sì che saranno davvero guai…

Sulle ricadute degli eventi egiziani in Palestina vedi: 
Egitto. Golpe, brutto colpo anche per Hamas a Gaza

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