Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, l’attacco è stato sferrato all’alba di questa mattina nella regione di Ghouta, roccaforte dei ribelli, in particolare le cittadine di Zamalka, Arbeen e Ein Tarma. “Molti dei morti sono donne e bambini – ha raccontato Bayan Baker, infermiera all’ospedale di Douma – Sono arrivati con le pupille dilatate, arti freddi e schiuma in bocca, i sintomi tipici di chi ha ispirato gas nervino”.
Immediata la reazione governativa: il regime nega di aver utilizzato armi chimiche, scaricandone la responsabilità sui gruppi armati di opposizione. Una fonte intervistata dalla tv di Stato ha definito l’accusa “assolutamente falsa” e volta a distrarre l’attenzione dall’indagine delle Nazioni Unite. Dopo svariati tentativi, il regime di Damasco ha permesso l’ingresso del team di esperti dell’Onu, che indagheranno su quella che gli Stati Uniti hanno definito la “linea rossa”: se Assad usa armi chimiche, ha più volte ripetuto il presidente Obama, ci sentiremo autorizzati ad intervenire.
In realtà, sono stati diversi i casi in cui sembrava chiaro l’utilizzo di armi simili, sia da parte del governo che delle opposizioni, ma Washington ha preferito usare la strategia dell’attesa, puntando il dito ma ritraendo subito la mano. A dimostrazione che gli Usa non intendono aprire, almeno per il momento, un nuovo fronte mediorientale. Almeno non direttamente: da tempo ormai giungono in Siria e nei Paesi vicini armi, equipaggiamenti militari, addestratori, denaro, tutto materiale destinato ai ribelli, che nonostante ciò però non sono ancora riusciti a far cadere la famiglia Assad.
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