Un Bush “abbronzato”, avrebbe detto un tizio alcuni anni fa. Di sicuro un presidente degli Stati Uniti come tutti gli altri che si sono susseguiti negli ultimi venti anni, dopo Carter. Ovvero una risultante fedele dei blocchi di potere – complesso militare-industriale, finanza, compagnie petrolifere, gruppi di pressione filo-israeliani – che compongono il puzzle per il momento ancora più potente del mondo.
Non conta che sia nero o wasp, uomop o donna (in attesa di Hilary Clinton, che ha già dimostrato da ministro degli esteri questa nostra conclusione – conta che sappia interpretare “gli interessi strategici” di quel blocco di interessi. Altrimenti, in quello studio ovale, non ci puoi arrivare. Sarà bene ricordarselo, al prossime presidenziali, quando qualcuno proverà a distinguere sul colore della cravatta dei candidati per trovarci “qualcosa di sinistra”.
“Bushama” ha ripetuto così in modo stanco e ben poco trascinante il solito repertorio di menzogne (leggetevi l’articolo di Robert Fisk, dall’Indipendent) che ogni presidente ha recitato quando doveva spiegare al suo paese perché l’America, così “paciosa”, fosse ancora una volta “costretta” ad andare in guerra. Ecco la solita sfilza di “prove” dichiarate – non più nemmeno “esibite” – prima ancora che gli ispettori dell’Onu completino il loro lavoro (termineranno oggi). Ecco il solito elenco di “pericoli” rappresentato da un regime incapace di controllare almeno due terzi del proprio territorio e che solo grazie all’aiuto di Hezbollah, quindi dell’Iran, è stato capace di rovesciare le sorti del conflitto sul campo.
I giornali mainstream si dilungano sulle frasi pronunciate ieri sera dal famtasma di Barack, il “nuovo” che aveva illuso tanti sulle capacità “dell’America” di rinnovare la propria società e la propria immagine nel mondo. Non contano nulla perché sono già state pronunciate decine di altre volte e ogni volta erano false. Lo si sapeva prima, lo si è ammesso dopo, ma si ripete la stessa farsa.
E quindi. “Sarà un intervento limitato”, “senza scendere a terra” (dove il vantaggio tecnologico si riduce sempre moltissimo e anche l’esercito più potente del mondo subirebbe perdite consistenti, inaccettabili per un’opnione pubblica stanza di guerra e preoccupata di ben altro). Sarà un intervento in cui gli Usa saranno accompagnati ufficialmente soltanto dalla Francia, di quell’Hollande che qualcuno dovrebbe spiegare cosa abbia “di sinistra” a parte il nome del partito che l’ha portato all’Eliseo.
Il falco vanesio, l’inglese Cameron, non sarà della aprtita perché impallinato dal proprio parlamento. Forse troveranno qualche straccio di complice tra paesi da operetta, che metteranno la firma ma nemmeno un soldato.
Persino la Bonino, stavolta, giura di voler restare a guardare “temendo un vonflitto mondiale”. Esagerazione, certo, ma che indica involontariamente quanto fragile sia ormai “l’egemonia” Usa sul resto del mondo. La crisi economica ha scavato gallerie profonde sotto le fondamenta dell’Impero; e chi tiene in piedi gli Usa comprandone il debito pubblico (la Cina, innanzitutto) non può tollerare a lungo di essere scavalcato da decisioni opposte ai propri interessi.
Obama va a un’altra guerra quasi da solo. Senza strategia (memorabile quel “benvenuti in Medio Oriente” scritto dal neo inglese K. N. al Sabah), senza obiettivi definibili (“dare una lezione” è roba da gang di quartiere, non da stati che pretendono di guidare il resto del mondo) e con un solo imperativo: non impelagarsi in una situazione in cui amici e nemici sono al tempo stesso interscambiabili e inaffidabili.
Si sono già impantati. Basta leggere questa sintesi pubblicata dall’Ansa sull'”umiliazione” subita dal più fedele degli alleati in guerra, l’Inghilterra (anche qui senza distinzioni possibili tra una destra coservatrice e una “sinistra” aburista).
“Umiliato”. La prime pagine dei giornali britannici sono state ribattute in tutta fretta perché il senso del voto ieri in parlamento su un’eventuale azione militare in Siria è stato chiaro da subito: David Cameron ha fallito nel convincere Westminster che un intervento al fianco degli Usa sarebbe stato giustificato, legale e nell’interesse del Paese. E ha fallito anche nel cogliere e comprendere gli umori di un’opinione pubblica troppo scettica, troppo traumatizzata dal precedente iracheno.
La ‘punizione’ di queste sviste non da poco brucia oggi, nei commenti e nelle reazioni di colleghi e di avversari politici. Da Paddy Ashdown, vecchio leone lib-dem della politica britannica che parla di un ”indebolimentò’ del Paese sul piano internazionale, al capo del partito laburista all’opposizione Ed Miliband che punta il dito contro una leadership , quella di Cameron, ”altezzosa e spericolatà’.
Lo fa da una posizione di forza. È lui il ‘vincitore’ di questo braccio di ferro. E lo è forse anche al di sopra delle sue stesse aspettative: perché in fondo Miliband, pur nell’opporsi alla mozione presentata dal governo, in realtà l’ipotesi di un intervento in Siria non l’aveva esclusa del tutto, ma solo dopo aver visto nero su bianco quelle prove che ancora in queste ore il mondo attende. Londra non ha aspettato.
E lo slancio del primo ministro Tory, la sua determinazione a fare tutto cercando consenso e sostegno da cui la convocazione straordinaria del parlamento, non solo non è bastata ma si è rivelato un boomerang destinato a segnare profondamente il suo percorso politico d’ora in poi. Del resto sono mesi che Cameron si affanna per non cedere alle critiche di mancata autorevolezza. Lo ha fatto nello spinoso dibattito interno sull’Europa, tentando di arginare intermittenti focolai di rivolta. Ma una debacle così e in politica estera è quasi senza precedenti.
Il premier lo sa, lo si evince anche dal tono con cui si è presentato oggi, il giorno dopo, davanti alle telecamere per confermare che sì, a questo punto un coinvolgimento militare britannico in Siria è fuori questione. Lo ha detto senza più quella verve che aveva caratterizzato i suoi appassionati interventi degli ultimi giorni nel tentativo di convincere che il governo, e il Paese, avevano l’obbligo di rispondere a quel ”crimine contro l’umanità ‘, l’attacco chimico del 21 agosto scorso sulle cui responsabilità non ha dubbi, perché non passi impunito e non si ripeta. Ha ribadito le sue convinzioni oggi Cameron, ”una risposta decisa” è ancora necessaria, ha detto, Londra continuerà a fare pressioni in questo senso.
Lo dice, nella consapevolezza però che al tavolo di chi decide non si siederà. Il posto gli è stato negato dal suo stesso parlamento mettendolo in una posizione difficilissima e sulla quale adesso i britannici sono chiamati a riflettere. Questo lo lascia dire ai suoi, il cancelliere dello Scacchiere George Osborne e il ministro della Difesa Philip Hammond: bisogna interrogarsi ora sul ruolo che la Gran Bretagna intende avere nel mondo. E forse anche rispetto all’alleato di sempre, il partner nella ‘special relationship’, la relazione speciale che è profonda e non è a rischio assicurano in molti, anche se in quest’occasione su Londra non ha potuto contare.
Per chi invece divertirsi con un pezzo di pura ideologia “americana”, c’è questo gustoso pistolotto fideista firmato da Vittorio Zucconi su Repubblica. Una redazione dove la nfusione deve ormai essere maggiore che nel Pd, visto scrivono cose opposte, tra gli altri, firme prestigiose come Barbara Soinelli e Angelo D’Orsi…
http://www.repubblica.it/esteri/2013/08/31/news/la_maledizione_dell_america-65591869/?ref=HRER2-1
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fabio ventura
contropiano diffonde la migliore informazione del web italiano, ma, cavolo!, fate correggere i refusi. A vovlte non si capisce quasi il senso delle frasi…. vengo io a farlo, ditemi come!
comunque complimenti e buon lavoro.