Ieri i 17 giudici del Tribunale Europeo dei Diritti Umani hanno respinto il ricorso presentato dal governo spagnolo e di fatto hanno bocciato, per la seconda volta, un importante tassello della politica penitenziaria spagnola – la cosiddetta ‘dottrina Parot’ – che dal 2006 in poi ha tenuto in carcere parecchie decine di detenuti che secondo le leggi vigenti avrebbero invece dovuto essere scarcerati. La decisione della Corte di Strasburgo ha scatenato un vero e proprio terremoto politico, oltre che giudiziario, perché il tribunale internazionale ha ordinato l’immediata messa in libertà della prigioniera politica basca Ines del Rio, autrice del ricorso alla corte europea, e il pagamento di un risarcimento vista la ‘irregolare carcerazione’ alla quale è stata sottoposta. La decisione dei giudici internazionali potrebbe portare presto alla liberazione di decine di prigionieri politici baschi e causare una spaccatura nel governo e nella destra spagnola.
Abbiamo chiesto a Olivier Peter, avvocato praticante e ricercatore all’Università di Ginevra su questioni relative alla tortura e al carcere, di parlarci della genesi della ‘dottrina Parot’ e della sentenza di ieri. Olivier Peter ha seguito da vicino tutta la vicenda in quanto membro dell’Osservatorio basco per i diritti dell’uomo – Behatokia e negli ultimi anni ha fornito assistenza giuridica a numerose vittime di violazioni dei diritti umani nell’ambito delle politiche repressive dello Stato spagnolo per quanto riguarda i ricorsi presentati alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
– Quando è nata la ‘Dottrina Parot’ e cosa prevede?
La Dottrina 197/2006 o “Dottrina Parot” nasce nel 2006 quando il Tribunale supremo, seconda istanza per importanza nel sistema giudiziario spagnolo, decide di cambiare il sistema di calcolo dei benefici penitenziari dei prigionieri condannati a lunghe pene. Questo cambiamento è la conseguenza della volontà esplicita del governo spagnolo di ritardare la liberazione di alcune decine di militanti dell’ETA. Si tratta di una questione giuridica un po’ complessa. In sostanza, durante gli anni di detenzione, grazie ai benefici previsti dal diritto spagnolo, i prigionieri hanno accumulato centinaia o migliaia di giorni di riduzione della pena per buona condotta grazie allo studio o al lavoro svolto in carcere. Un prigioniero condannato alla pena massima, 30 anni secondo la legge, entrava quindi in carcere con la convinzione di scontare una pena effettiva di 20 a 25 anni, a seconda dell’andamento della sua prigionia. Questo perché gli anni di benefici venivano dedotti dalla pena massima di 30 anni dando come risultato la pena effettiva. Questa pratica è durata appunto fino al 2006, quando dovendosi pronunciare sul caso del militante di ETA Unai Parot il tribunale supremo indicò che i benefici dovevano essere dedotti non dalla pena massima prevista, bensì dal totale delle condanne inflitte. Visto che i prigionieri di ETA sono spesso condannati a delle pene spropositate di diverse centinaia o addirittura migliaia di anni, la conseguenza di questa nuova dottrina è quella di rendere completamente ininfluenti sulla durata della pena i benefici penitenziari accumulati e di prolungare così la detenzione fino a 30 anni. Questa situazione è particolarmente problematica visto l’applicazione della ‘dottrina Parot’ è retroattiva, e che il ricalcolo cozza con documenti ufficiali emessi per anni dalle autorità competenti e dalle carceri indicanti volta per volta la data di ‘fine pena’ calcolata sulla base dei benefici man mano accumulati. Quindi più il tempo passava e più la data della liberazione veniva anticipata grazie all’aumento dei giorni di benefici nel frattempo accumulatisi. Da un momento all’altro però, spesso dopo 20 anni di carcere e a pochi mesi dalla liberazione, circa 120 prigionieri si sono visti notificare una nuova e arbitraria decisione indicante che avrebbero dovuto scontare l’integralità della pena di 30 anni.
– Cosa ha deciso il tribunale di Strasburgo? E perché la Corte è dovuta intervenire di nuovo su una questione sulla quale si era già pronunciata?
Nell’agosto del 2012, pronunciandosi sul caso della prigioniera basca Ines del Rio, una camera formata da sette giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato all’unanimità che questo cambiamento violava il principio della legalità della pena e della proibizione dell’effetto retroattivo dei cambiamenti in materia di politica penale. Particolarmente problematico era il fatto che al momento in cui Ines è entrata in carcere e malgrado la pena massima legale di 30 anni, era convinta di dover scontare una pena effettiva di circa 20 anni e non poteva assolutamente prevedere che dei cambiamenti sarebbero intervenuti allungando la durata della sua carcerazione. Il fatto quindi di applicarle in seguito una Dottina che non si poteva prevedere e che aggrava la sua situazione è contrario appunto, ai diritti garantiti dalla Convenzione europea per i diritti dell’uomo.
In seguito a questa prima decisione, il governo spagnolo, su pressione delle associazioni che raggruppano una parte delle vittime di ETA e che sono molto vicine all’esecutivo di Rajoy, ha deciso di procedere perché la decisione venisse riesaminata dalla Gran Sala, ovvero un’istanza superiore che raggruppa 17 giudici e che si pronuncia sulle questioni che hanno un impatto particolare sulla situazione politica e giuridica degli Stati implicati. Si tratta, per capire, della stessa procedura messa in atto per quanto riguarda il caso della proibizione del crocefisso nelle aule italiane che, visto il suo impatto e le polemiche generate dalla decisione, seguì la stessa procedura e venne riesaminata dopo una prima decisione favorevole al ricorso.
A differenza del caso del crocefisso, nel caso di Ines del Rio la Gran Sala ha confermato la decisione precedente praticamente all’unanimità indicando che la Dottrina Parot è contraria al sistema europeo dei diritti dell’uomo e ordinando allo Stato spagnolo di liberare immediatamente Ines e di versarle 30.000 Euro di danni per i 5 anni di carcere scontati in violazione dei suoi diritti. Infatti Ines, che è stata liberata oggi (martedì 22 ottobre), avrebbe dovuto riconquistare la sua libertà nel 2008.
– Quali ripercussioni avrà fattivamente la decisione di Strasburgo? La Spagna è obbligata ad eseguire la sentenza?
La Dottrina Parot è stata applicata a diverse decine di prigionieri. 120 di loro sono membri del Collettivo dei prigionieri politici baschi. Di questi 56 dovranno essere messi in libertà immediatamente perché stanno scontando la pena allungata illegalmente, i restanti 64 saranno liberati nei prossimi due anni. Insieme a loro segnalo anche che vi sono almeno 7 prigionieri del Gruppo armato Primo Ottobre (GRAPO), organizzazione rivoluzionaria legata al Partito comunista ricostituito (PCE-r) e che praticò la lotta armata tra gli anni ’80 e ’90 e oggi praticamente inattiva.
Per compensare questa sconfitta giuridica e politica, il governo spagnolo ha già annunciato che renderà ancora più severe le pene per i delitti di terrorismo e che gli atti (conosciuti come Ongi Etorri) che saranno organizzati per celebrare il ritorno dei prigionieri appena liberati, verranno considerati apologia di terrorismo e duramente repressi.
Per quanto riguarda la sentenza, in quanto Stato membro della Convenzione europea lo Stato spagnolo è obbligato a mettere in atto la sentenza, per lo meno per quanto riguarda la liberazione di Ines del Rio. Per gli altri prigionieri, i Ministri di Giustizia e dell’Interno hanno passato la palla ai Tribunali consigliando di analizzare caso per caso e determinando se è possibile ritardare o limitare gli effetti della decisione di Strasburgo. Sulla base della lettura della decisione però non sembra esserci molto margine per il governo spagnolo per non generalizzare le conseguenze della sentenza agli altri prigionieri baschi.
Rimane comunque a Madrid la possibilità remota di denunciare la Convenzione europea e di uscire dal trattato in modo da poter violare i diritti umani senza conseguenze, così come è stato fatto dal governo del Regno Unito negli anni ’70 dopo che Londra fu condannata dalla Corte europea per le torture inflitte sistematicamente ai repubblicani irlandesi. Di fronte al dilemma tra l’abbandono della tortura e l’uscita dal sistema europeo di protezione dei diritti umani, il governo britannico scelse quest’ultima via. Il prezzo politico di una tale scelta per il governo spagnolo sarebbe però estremamente più elevato per quanto riguarda la sua reputazione internazionale, già duramente toccata da rapporti poco lusinghieri degli organismi dell’ONU e da numerose condanne, in particolare per casi di tortura contro i militanti baschi, da parte della Corte europea.
In generale questa sentenza dimostra in maniera inequivocabile come, nella lotta contro il movimento di liberazione nazionale basco, lo Stato spagnolo abbia scelto di sospendere lo stato di diritto e di essere pronto a sacrificare il rispetto dei diritti umani pur di difendere l’integrità territoriale. Nonostante 50 anni di guerra sporca, tanto con il ricorso a gruppi paramilitari di estrema destra per assassinare i politici indipendentisti, alla tortura e a misure di eccezione come la Dottrina Parot, il governo non è riuscito a piegare il movimento di liberazione nazionale e sociale di Euskal Herria che, ancora recentemente, ha dimostrato nelle urne e nelle piazze del Paese Basco di continuare a godere di un ampissimo sostegno popolare.
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